La minaccia dell’ISIS. Lo scenario geopolitico. Il fronte di guerra.
Nell’ultimo anno la minaccia del terrorismo jihadista si è fatta sempre più concreta: una serie di attentati ha devastato l’Europa dopo che per anni i paesi mediorientali hanno subito massacri e devastazioni che hanno fatto centinaia di migliaia di vittime. Pubblico due interessanti contributi analitici, apparsi nella “Repubblica” di venerdì 4 dicembre 2015. Uno è di Jasun Burke, giornalista britannico che lavora per “Guardian” e “Observer” sui temi del terrorismo. Il suo ultimo libro è “The new threat from islamic militancy”. L’altro è di Giuseppe Cucchi, ex rappresentante militare italiano presso l’Unione Europea, e che è stato consigliere della Presidenza del Consiglio e direttore del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza. Penso che compito principale di ciascuno di noi sia indagare sulla causa di queste stragi, capire perché avvengono, assumersi responsabilità individuali e collettive e comprendere che è necessario sì protestare e manifestare ma questo serve solo se poi tutto davvero cambia.
Andiamo con ordine. Oggi il Califfato è la sintesi perfetta tra alcuni boss della criminalità organizzata al vertice e tanti giovani che si immolano per la teocrazia. L’Isis ha costruito la sacralizzazione della violenza. Solo se sei pronto a credere che tagliando la testa all’infedele stai obbedendo a un ordine di Dio puoi esaltarti e gridare “Allah è grande” mentre uccidi. Tutti i sopravvissuti del Bataclan a Parigi hanno testimoniato di come gli assassini abbiano eseguito il proprio compito come dei robot, senza fretta, senza passione, senza odio apparente. La loro è stata una violenza teologica, una specie di furia puritana che si è scatenata con follia sanguinaria. Il male islamista diventa virtuoso col distruggere gli altri mali, quelli degli sciiti (gli apostati) e quelli degli infedeli. Gli jihadisti hanno una visione apocalittica della religione: essi pensano che andare incontro a Dio possa scontare anche la fine dell’umanità. “Il loro è un principio inamovibile di innocenza e di purezza: la strage serve per ripulire il mondo dagli infedeli, per restituire al mondo il suo ordine smarrito, per guarirlo dalla sua infezione. La loro anima è invasata dalla Causa che, per un verso le acceca ma, per un altro verso, le eleva al rango di giudice e di giustiziere: per questo non si arrestano di fronte ai volti inermi e impauriti delle loro vittime, non dialogano, restano crudeli e spietati” (M. Recalcati).
L’insieme di questi orrori contro le persone e le opere (v. anche le distruzioni dei siti archeologici di Palmira e di Nivive) vuole sconvolgere millenni di coesistenza tra genti di etnie, di culture e di religioni diverse, perché si vuole coscientemente negare ogni convivenza, ogni dialogo, per creare con il terrore una monocultura disumanizzata, totalitaria, esclusivista, svincolata dalla storia. La furia con cui questi terroristi liquidano le minoranze religiose, schiavizzano donne e bambini, è uno dei lati più razzisti e fascisti del Califfato. Il fanatismo religioso islamico vive nel nostro presente storico in ritardo di 400 anni. Fanno quello che in nome della religione facevamo noi europei nel ‘500, ma con le armi e la propaganda mediatica del 2000. Ora con la sua natura asimmetrica il terrorismo di poche persone è capace di guadagnare un’influenza sugli eventi completamente sproporzionata ai numeri. Gli otto dell’Isis di Parigi stanno per cambiare la vita a una nazione di 60 milioni e forse al resto dell’Europa (lo vedremo già nei risultati delle elezioni regionali in Francia), proprio come i quindici fanatici dell’11 settembre 2001 cambiarono gli USA.
Chiediamoci, intanto, perché tanti giovani occidentali –europei soprattutto ma ora anche americani-, islamici di seconda e terza generazione, siano così attratti da questa predicazione di odio e di violenza e da questa estetica della morte (a San Bernardino, in California, la coppia di assassini aveva una bambina di sei mesi che ha abbandonato senza alcun rimorso). Scrive Jean Daniel che l’Islam è costituito di divieti che vengono subiti e di promesse che non vengono mantenute. A ciò vanno aggiunte le sconfitte e le crisi dei paesi che nel secondo Novecento hanno mescolato fede e politica. Questo ha prodotto molte frustrazioni e un desiderio di purezza assoluta, da qui la deriva verso la dittatura, da cui poi nasce la barbarie. La radicalizzazione dell’Islam verrebbe da questa evoluzione. L’introduzione nell’educazione religiosa e nell’arruolamento della dimensione mistica del sacrificio come via d’accesso alla salvezza è una caratteristica specifica del mondo musulmano; questi kamikaze non sono emarginati, si pensi agli autori dell’11 settembre, e anche a Parigi i terroristi non erano miserabili. Soprattutto non sono dei rivoluzionari che vogliono trasformare la società, essi cercano sopra ogni altra cosa l’aldilà. Ora la storia torna a manifestarsi con tutta la sua violenza, spazzando via le facili illusioni della fine della storia, ipotizzate dopo la caduta del muro di Berlino da F. Fukujama.
Ci sono molte differenze ma anche varie affinità tra il nazismo e questo fondamentalismo islamico, a cominciare dalla barbarie delle idee professate, dalla violenza estrema anche nei confronti dei più indifesi, alla capacità di conquistare alle rispettive cause i più deboli, frustrati e ignoranti. Si può sperare che in questa terribile violenza ci siano i germi di qualcosa che prima o poi ne causerà la fine. C’è qualcosa di inedito, ad esempio, l’uso di terroriste kamikaze donne, cosa che Al Qaeda non faceva. E non si può sottovalutare, lo ripeto, l’attrazione nei confronti dei giovani che vedono qualcosa di forte in questi messaggi di morte e di distruzione. Quello che per noi è abominevole per questi ragazzi è motivo di vita: un’opportunità di riscatto, anche sociale, e di redenzione. E’ beffardo ma anche illuminante un video di propaganda dell’Isis che recita: “L’unico rimedio alla depressione è il jihad”.
Poi non dimentichiamo che il bacino nel quale crescono questi fermenti è, in Medio Oriente, all’interno di Stati falliti e disastrati. E’ su queste basi che si forma un nuovo tipo di essere umano, un fanatico che ha il disprezzo della vita, della morale e della pietà. Lo scrittore Martin Amis ci dice che già Conrad nel 1907, in “Agente segreto”, scriveva che i terroristi sono più potenti perché venerano la morte più della vita. E’ necessario quindi riflettere anche sulla nostra perdita di valori forti: fin quando il loro credo è assoluto come una religione fanatizzata e medievale e il nostro è relativo e debole, come il nostro pensiero attuale, saremo più indifesi. La filosofa Agnes Heller ha affermato: “Per porre domande filosofiche originali devi avere esperienze storiche e sociali intense. L’orrore di questo terrorismo, i dilemmi che pone, possono innescare riflessioni filosofiche originali”.
E infine c’è ancora un’altra notazione da fare: dobbiamo calarci nel dramma e nella complessità della separazione e dell’odio –nell’Islam- tra sunniti e sciiti, un dato che ci riporta all’asprezza e alla crudeltà delle lotte religiose tra cattolici e protestanti nell’Europa del ‘500 e del ‘600. In tutto il Medio Oriente oggi non c’è uno Stato arabo interamente sunnita. La Siria con Assad è alauita, l’Iran e parte dell’Iraq sono sciiti, il Libano è cristiano e sciita. I sunniti hanno ora solo il Golfo e la Giordania. Ecco perché la popolazione ha accolto l’Isis: l’ha visto come un movimento con la capacità militare di ricreare uno spazio arabo-sunnita nella regione. L’Isis ha le armi lasciate dagli Usa e ha recuperato i quadri militari di Saddam Hussein, che si adattano non per motivi religiosi ma nazionalistici. Poi c’è il corpo di spedizione straniero. Ceceni, tunisini, egiziani, marocchini, migliaia di europei, più di duemila francesi, quattrocento belgi, un migliaio di inglesi ecc. Denuncia Olivier Roy che l’85 % di questi indottrinati proviene dalla classe media, il 50 % viene da famiglie di insegnanti. Solo il 16 % è di origine popolare.
Quale piano per il futuro? Intanto ribadire che il fanatismo islamista è fascismo e costruire nel mondo una coalizione che lo distrugga; ristabilire in Medio Oriente e in Africa il controllo di autorità statali forti e responsabili e –se necessario- modificare la carta geografica uscita dalla 1° guerra mondiale (Siria e Iraq sono Stati finti; qualcuno suggerisce addirittura di tornare a far vivere il sogno di Lawrence d’Arabia); abolire ogni tipo di finanziamenti, distruggere il commercio-contrabbando del petrolio, costringere la Turchia, l’Arabia saudita e gli emirati del Golfo ad uscire dalle loro inaccettabili ambiguità; l’Islam deve bandire ed espellere dalle moschee chi predica e pratica il terrorismo. Il mondo islamico deve impegnarsi a realizzare una vera rivoluzione spirituale di tipo illuministico; molti musulmani sono chiamati a rinunciare non alla loro tradizione e al loro passato storico ma all’autorità vincolante e alla validità universale che la tradizione dogmatica ha sempre preteso. Nel gennaio scorso, dopo la strage al “Charlie Hebdo”, il presidente egiziano Al-Sisi rivolse un appello alle autorità religiose della Grande Moschea di Al-Hazar, al Cairo, suggerendo che le diverse società islamiche ridefiniscano i loro principi in modo da ammettere esplicitamente visioni diverse, religiose e metafisiche, del mondo.
Gennaro Cucciniello
Quelle immagini dei jet al decollo servono solo a rassicurare noi
La settimana scorsa, in un pomeriggio piovoso nel sobborgo brussellese di Molenbeek, un uomo di 27 anni di nome Montasser parlava di Siria di fronte a un tè e a del pane arabo. Parlava di un uomo più giovane, di 19 anni, con cui era stato in contatto. Il ragazzo era in Siria orientale con lo Stato islamico e si era offerto per una missione suicida. Montasser cercava di convincerlo a non morire. Non ci era riuscito. Alcuni giorni prima il ragazzo si era fatto saltare in aria contro le “forze nemiche infedeli” in Iraq.
L’episodio illustra molte cose di grande importanza nel momento in cui lo sforzo militare contro l’Is sale di livello. Dimostra che l’Is continua ad esercitare forte attrattiva sui giovani musulmani europei, nonostante l’intensificazione dei bombardamenti. Dimostra che i confini del Medio Oriente, vecchi di un secolo, sono irrilevanti per Daesh e seguaci. E mette in evidenza che i raid aerei garantiranno benefici solo marginali nella battaglia contro l’Is. La minaccia dello Stato islamico per l’Europa è come una catena di meccanismi diversi, ma collegati. C’è il meccanismo che attira adolescenti dall’Europa alla Siria. C’è il meccanismo dello Stato che li addestra, li condiziona psicologicamente e poi gli assegna delle missioni. C’è il meccanismo che li rispedisce in patria per uccidere e quello che li mette in condizione di farlo una volta in Francia, Belgio, Regno Unito, Italia o altrove. Tutti questi meccanismi devono agire insieme perché Daesh possa effettuare un attacco contro città europee. E devono essere tutti smantellati per eliminare la minaccia.
L’Europa si è accorta che la cooperazione fra i servizi di intelligence non è andata di pari passo con l’allargamento della UE e che la mancanza di confini interni significa che bisogna incrementare le risorse per la vigilanza contro possibili minacce. Ci saranno investimenti in risorse tecnologiche e modifiche legislative per garantire maggiori possibilità di intrusione. Si cercherà di trovare dei modi per individuare in numero maggiore gli estremisti già noti e impedire loro di sfruttare il caos portato dalla crisi dei profughi. David Cameron, il premier britannico, ha detto al Parlamento che la strategia oltre ai raid comprende 70.000 potenziali alleati sul terreno e uno sforzo diplomatico per mettere fine alla guerra civile. Ma queste decine di migliaia di combattenti sono qualcosa che si può solo sperare, non prevedere. E anche i più ottimisti si limitano a sperare in piccoli passi verso una soluzione diplomatica finale al problema più generale del conflitto nella regione.
Uno degli obiettivi principali della campagna aerea è impedire allo Stato islamico di sfruttare il petrolio. Ma oggi l’Is dal petrolio guadagna molto meno di un anno fa, e gran parte dei suoi introiti viene dalle tasse, non dal commercio. E le tasse non si possono colpire con bombe o missili. La verità, come i leader politici sanno, è che Daesh prospera non in virtù della sua forza ma per la debolezza e l’interesse egoistico degli Stati che lo circondano, e in virtù della battaglia settaria fra sunniti e sciiti. I raid aerei servono a poco per risolvere le ragioni che spingono alcuni ragazzi a lasciare posti come Molenbeek e andare in Siria. Perché ci vanno? Se c’è qualche legame con la povertà, è un legame indiretto. La disoccupazione è chiaramente un fattore. Chi si occupa di radicalizzazione sottolinea che quasi nessuno di quelli che vanno in Siria ha responsabilità finanziarie. Probabilmente perché chi queste responsabilità le ha avverte un senso del dovere, o magari perché l’atto stesso di provvedere ad altre persone attraverso il proprio lavoro offre un ruolo e uno status che mettono al riparo dal rischio di radicalizzazione. La cosa più importante sono le persone, non le statistiche o i luoghi. La radicalizzazione è un processo, non un evento. Una ricerca dell’università di Oxford mostra che nella maggioranza dei casi a spingere una persona verso l’estremismo islamista sono amici o familiari. La militanza islamica non è un lavaggio del cervello. E’ un movimento sociale che viaggia attraverso reti di parentela e amicizia per irretire giovani del tutto normali. La propaganda li attira perché, per quanto deviati e distorti siano i loro desideri, offre qualcosa. Una volta in Siria, nello spazio ristretto di brutalità e violenza del conflitto e dentro un gruppo estremista, si instaura una dinamica differente. Se mai tornano a casa, non sono più normali.
Nulla di tutto questo si può risolvere con i raid aerei, ma il problema vero è che le immagini di jet pesantemente armati che decollano verso i bersagli ci rassicurano. E ci sviano anche, perché pensiamo che i nostri leader abbiano trovato una risposta semplice e concreta alla sfida complicatissima che abbiamo di fronte. Significa che la prossima volta che ci sarà un attacco nell’Europa continentale la gente sarà arrabbiata e delusa. Sarà anche più spaventata di prima, perché qualcosa non ha funzionato. Provocare paura è ciò che vogliono i terroristi. Questa settimana, mentre l’Europa si accinge alla guerra contro l’Is, i nostri leader farebbero bene a ridurre le aspettative, invece di accrescerle.
Jasun Burke
Bombardamenti e intelligence vanno coordinati con Mosca
Il cielo della Siria diventa sempre più affollato di cacciabombardieri, molti adoperati solo con funzioni di ricognizione. Da un punto di vista militare, è uno spreco utilizzare assetti costosissimi come i nostri Tornado o i droni Predator solo per questi compiti. Ma Italia e Germania per ora limitano il loro ruolo per motivazioni strategiche, non militari. I tedeschi hanno anche mandato una nave che dovrà affiancare il gruppo navale di scorta alla portaerei francese De Gaulle. Sia Roma che Berlino aspettano di avere maggiore chiarezza, soprattutto per quello che riguarda la Libia. Anche qualche paese del Golfo limita l’azione aerea alla ricognizione, dopo la fine del pilota giordano, bruciato vivo dagli integralisti di Daesh. Fra gli europei, i francesi sono più decisi, con la portaerei hanno quadruplicato il loro sforzo militare.
Ma se l’obiettivo ricercato è la distruzione di Daesh, aerei e bombardamenti non basteranno. L’azione dall’alto è indispensabile per indebolire e contenere l’apparato militare dell’Is, così da portarlo in condizioni di non poter poi resistere a un’offensiva di terra. Questo se si riesce a tagliare i rifornimenti, di munizioni, di vettovaglie, ma soprattutto di combattenti. Il flusso di miliziani già sperimentati verso le file di Daesh non si è mai interrotto. E non sarà possibile distruggere questo pseudo Stato finché non saranno bloccate le strade che lo alimentano. In questo senso la leadership di Mosca è stata molto esplicita, e anche se le accuse contro la famiglia di Erdogan fanno parte di una campagna complessiva contro il presidente turco, in esse c’è una forte parte di verità. Il petrolio continua ad uscire dalle zone occupate dai fondamentalisti, e arriva sul mercato con un prezzo ridicolo per gli standard internazionali. Viene venduto da intermediari con guadagni enormi. Questo significa che non ci sono controlli efficaci. Quanto all’afflusso dei combattenti, un paese dotato di una struttura militare e di sicurezza pari a quelle della Turchia ha la possibilità di ridurlo a un rivolo insignificante. Ma per ottenere il coinvolgimento completo dei turchi serve un’azione congiunta di Europa e Usa: devono sottolineare ad Ankara che se noi abbiamo bisogno della Turchia, anche la Turchia ha bisogno di noi. Altrimenti rischia di diventare un instabile Stato mediorientale come gli altri. Ma Erdogan sta giocando a poker, in realtà si rende bene conto di cosa c’è in gioco.
Diversa è la situazione in altri Paesi, come la Giordania, nonostante l’impegno di monarchia e Forze Armate. E lo stesso vale per altre aree: i Paesi a prevalenza sunnita, anche se non si schierano ufficialmente, devono tenere conto delle loro opinioni pubbliche, che non vedono Daesh solo come un gruppo terroristico, ma anche come una struttura armata che combatte contro gli sciiti. Ci sono sondaggi secondo cui nei paesi sunniti Daesh gode dell’approvazione dell’80 % della popolazione: qualsiasi governo ne deve tenere conto. E’ vero anche che i sunniti non sono un blocco compatto: ci sono tre-quattro paesi che si battono per la leadership, a partire dall’Egitto (che vanta una presenza determinante in Libia, molto meno in Siria e in Iraq). Gli altri sono Arabia saudita, Turchia e Qatar: situazioni diverse, agende diverse, interessi diversi.
Lo scenario si complica per il dualismo Iraq-Siria: persino gli schieramenti dei Paesi che bombardano è diverso. E l’isolamento del governo siriano sul piano internazionale paralizza ogni richiesta ufficiale, a livello per es. di Onu. Il governo di Bagdad è invece legittimato a chiedere aiuto, senza ostacoli diplomatici. Allo stato attuale, questa diversità di schieramenti comporta diversi problemi. I Paesi che prendono parte all’azione aerea non si passano le informazioni, e questo complica le cose, con un nemico sfuggente come Daesh. C’è intelligence satellitare, ma apparentemente poca intelligence sul terreno. Forse le Forze russe sono in una situazione migliore, perché possono infiltrare agenti di origine caucasica, spacciandoli per combattenti ceceni o ingusceti. Insomma, per avere un’azione più efficace in attesa di un’offensiva di terra, serve un maggior coordinamento fra i Paesi della coalizione a guida Usa e quelli che non ne fanno parte, Russia compresa. Aprire canali ci comunicazione operativa con Mosca è indispensabile, per mettere in comune le informazioni e coordinare le azioni.
Resta ancora aperta l’eterna questione della ricerca di forze di terra che si possano impegnare direttamente: in Iraq si sta lavorando sull’addestramento di curdi e yazidi, ma in Siria la selezione dei possibili alleati è sempre in una fase di confusione. Infine, c’è da capire il ruolo degli USA: serve che a Washington arrivi un segnale forte, è stupefacente che in questo momento non ci sia una portaerei americana vicina alla zona di crisi. Gli Usa devono fare la loro parte, sia con la Turchia che dentro la Nato. E una volta ottenuto un maggior impegno americano, serve una chiara strategia complessiva, che comprenda l’Iraq e la Siria, ma ovviamente anche la Libia. Altrimenti il rischio è che si conduca questa guerra a pezzetti, senza sapere che cosa verrà in futuro.
Giuseppe Cucchi