1505: un anno importante per la pittura veneziana. Le tre pale di Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto e Giorgione

1505: un anno importante per la pittura veneziana. Le tre pale di Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto e Giorgione

1505, un anno decisivo. A Venezia e nell’entroterra, in tre chiese di diversa importanza e bellezza, sono contenute e ben conservate tre opere, tre pale d’altare i cui autori sono fra i più grandi dell’arte italiana ed europea di tutti i tempi. Il tema che le unifica è la rappresentazione di una Conversazione Sacra tra la Madonna col bambino Gesù in trono e -al di sotto- un gruppo di santi a fare loro da supporto e quasi da presidio. I pittori in questione sono un ottuagenario Giovanni Bellini, autore venerato a Venezia come maestro indiscusso, e due giovani poco più che ventenni, Giorgione e Lorenzo Lotto, il primo che morirà di peste nell’autunno del 1510, il secondo destinato a una vita errabonda ed inquieta, senza riconoscimenti in patria.

Quello che sorprende, in primo luogo, è la vivacità e l’autorevolezza con le quali i giovani discepoli contestano il loro maestro e la foga con la quale polemizzano tra loro. Voglio sottolineare almeno due aspetti della controversia: un motivo di polemica teologica e religiosa e una questione spiccatamente linguistica e stilistica. Il dibattito religioso impegna Bellini e Lotto mentre è ignorato da un agnostico Giorgione; quello dell’impaginazione e dello stile evidenzia un Giorgione nettamente all’avanguardia rispetto agli altri due.

Mi preme sottolineare, però, in questa introduzione l’eccezionalità dell’iniziativa: due giovani, sostanzialmente ancora in una fase di apprendistato –sia pure di genio-, hanno l’ardire di polemizzare –con serietà di intenti e sicurezza d’impostazione- con un maestro insuperato su temi di religione e di arte di grandissimo rilievo. Questo può spiegarsi solo con il clima culturale che si viveva in Italia nell’intero periodo umanistico-rinascimentale e con la fecondità dell’esperienza artistica a Venezia negli ultimi decenni del ‘400 e nel primo ‘500. Nella città lagunare c’era stata la lezione di Mantegna, poi Gentile e Giovanni Bellini, l’esperienza decisiva di Antonello da Messina, le grandi prove di Carpaccio e Cima da Conegliano, stavano emergendo Tiziano e Sebastiano del Piombo; vi aveva fatto rumore il soggiorno di Durer che vi aveva dipinto la “Festa del Rosario” (oggi a Praga), circolavano incisioni di altri maestri tedeschi; erano un fatto recente la permanenza di Leonardo e i contatti con i pittori emiliani (Costa, Francia, la scuola ferrarese) e col Perugino. Proprio nel 1505, anno fatidico, il cardinale Pietro Bembo aveva pubblicato a Venezia gli “Asolani”.

L’ambiente della capitale della Repubblica veneta era, perciò, splendido e grandioso, ricco e stimolante. Venezia, tra l’altro, era anche la capitale mondiale del libro: in quegli anni, tra calli campielli e canali, si stampava un terzo dei libri pubblicati in Europa. Nei ritratti di alcuni personaggi (autori Tiziano, Lotto, Palma il Vecchio) c’è anche un nuovo protagonista, il libro, un oggetto sofisticato e semplice insieme, appena entrato nell’uso quotidiano. Laura da Pola, ricca gentildonna “fotografata” da Lorenzo Lotto (la tela è alla “Carrara” di Bergamo), tiene il suo tascabile con la sinistra. Soprattutto, si andava già nettamente delineando l’autonomia artistica di Venezia nei confronti di Roma, dove la “maniera moderna” di Michelangelo e Raffaello avrebbe puntato sulla centralità dell’uomo, mentre Venezia cercava l’accordo fra uomo e natura.

Ma in città ferveva anche un vivissimo dibattito religioso ed era all’ordine del giorno il tema d’una riforma radicale della Chiesa e della cristianità. La polemica investiva la corruzione delle alte gerarchie ecclesiastiche e della Curia vaticana, la necessità di ritrovare la purezza del Vangelo e di esaltare l’umile apostolato dei semplici, l’intreccio tra l’impegno attivo nel mondo al servizio dei poveri e la perfezione spirituale della contemplazione monastica. Non si dimentichi che siamo all’indomani del pontificato scandaloso di Alessandro VI Borgia e della predicazione infiammata e del supplizio di Girolamo Savonarola. “Nei primi secoli del cristianesimo i calici erano di legno e i prelati d’oro. Oggi i calici sono d’oro e i prelati di legno”. Era il 1493 quando Savonarola pronunciava questa invettiva contro la Curia romana. Ancora un ventennio e la protesta di Lutero infiammerà la Germania e l’Europa.

Questo mio articolo vuole essere un invito a riguardare e a confrontare le tre opere in questione, a studiarle nei dettagli, a rifletterci con attenzione.

Giovanni Bellini, Madonna con il Bambino e i santi Pietro, Caterina d’Alessandria, Lucia, Girolamo, Venezia, chiesa di S. Zaccaria.

 

Il grande pittore –che sarà definito nel 1507 da Marin Sanudo “il più excelente pitor de Italia”- è ormai vecchio, ha quasi ottanta anni. La cappella –che nella tradizione ha fatto sempre da sfondo a queste pale- sembra aprirsi in un portico arioso. La luce giunge radente e riempie di pulviscolo dorato il cavo d’ombra sotto il mosaico. Nella nicchia –in linea perpendicolare con una lampada che scende dal soffitto- la Madonna è seduta in trono con dolce maestà e il Bambino alza la piccola mano a benedire i fedeli (che le committenti immaginano in preghiera davanti all’altare); in basso, ai piedi del trono, un angelo musico suona una viola mentre i santi ai lati si dispongono tranquilli a formare un’architettura di lucida misura spaziale. Rosse, gialle e turchine, le vesti dei santi fanno da quinta alla luce, stemperando il colore nell’atmosfera, una tonalità calda e soffusa che avvolge di pacificata naturalezza personaggi, paesaggi, architetture. Pietro è con le chiavi e con un libro chiuso, Caterina con la palma del martirio e la ruota spezzata, Lucia è malinconicamente concentrata e offre i suoi occhi cavati, Girolamo è immerso nella lettura di un libro aperto. Tutti sono esseri vivi e reali ma nello stesso tempo sacri e degnissimi. L’edicola, pur riprendendo il modello della belliniana “Pala di S. Giobbe” –dipinta venti anni prima-, si apre ai due lati su limpide vedute di campagna e così lascia entrare la luce del pomeriggio che avvolge le figure con morbidi effetti d’atmosfera e ne fa risaltare ancora di più l’intima concentrazione di riflessione e di preghiera. La luce lagunare sembra sfumare i contorni troppo netti delle cose e fondere il colore in una luminosità diffusa, di valore ormai tonale; colpiscono la pastosità e la ricchezza delle tinte. C’è un accordo bellissimo fra l’architettura dipinta nel quadro e quella reale della chiesa, per cui lo spazio di questa sembra continuare all’interno di quella.

Sono totalmente assorti anche Pietro e Girolamo. Quest’ultimo, eremita vescovo, sta leggendo un libro spalancato. Dietro di lui stanno due alberelli, due pioppi, uno è ricco di foglie, l’altro è quasi del tutto spoglio. I critici interpretano: Girolamo è dottore della Chiesa, con la profondità del suo studio fa rivivere l’albero secco delle Scritture, l’albero della tradizione antica sempre esposta a rischi di contestazione; però Girolamo è anche cardinale e così trasferisce la sua esperienza di studio all’interno dell’organizzazione ecclesiastica. Ma perché si sforza di leggere con tanta intensità anche se di fronte a lui c’è, totalmente spiegata, la rivelazione diretta del mistero –l’incarnazione, la passione, la morte e resurrezione di Cristo-, un mistero che scavalca ogni contemplazione e rigore intellettuale? E’ una domanda suggestiva alla quale Bellini e Lotto (come vedremo più avanti) rispondono in modo diametralmente opposto. A. Gentili spiega molto bene questo tema analizzando la figurazione di Pietro. L’apostolo ha nella mano destra un libro chiuso e con la sinistra impugna le chiavi. Dietro di lui c’è un fico intorno al quale si arrampica l’edera. Sono tutte “figure dell’albero della croce”: il fico, perché offre spontaneamente il suo dolce frutto ristoratore come la croce offre Cristo, frutto dolce del ventre di Maria, ristoro della grazia; l’edera perché, saldamente radicata nel terreno e con radici robuste, abbraccia qualsiasi cosa le si appoggi, come la croce –saldamente fondata nella verità della fede- sostiene chiunque ad essa si affidi con fedeltà ed affetto. Sono questi i riferimenti immancabili al ruolo petrino, alla Chiesa in quanto magistero e assistenza. Ma non bisognerà trascurare il riferimento complementare al Vangelo di Giovanni (1, 35-51) dove si narra il reclutamento dei primi apostoli: chi sta sotto il fico è colui che si sottomette alla legge divina e ne comprende la saggezza, colui che è chiamato da Cristo l’eletto. “In verità, in verità vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figliuolo dell’uomo”. La pala ratifica così il ruolo superiore di Pietro rispetto a Girolamo: col fico, simbolo di elezione spirituale, e con l’edera, simbolo di tenace attaccamento, di eterna fedeltà al mandato. Il libro chiuso di Pietro è saggezza codificata e indiscussa, bagaglio acquisito a causa della scelta di Gesù Cristo che gli ha conferito le chiavi. Il papato non ha bisogno di leggere e interpretare i testi sacri, ha l’ispirazione diretta dello Spirito Santo; i dotti, invece, dovranno sforzarsi di leggere e approfondire, di studiare e ristudiare e così potranno aiutare la Chiesa nella sua difficile missione.

Le monache patrizie della chiesa di S. Zaccaria, committenti del dipinto, avevano voluto dal vecchio e autorevole Bellini l’elogio significativo e multiplo dell’organizzazione ecclesiastica: una considerazione moderata dei buoni uffici di Girolamo, intellettuale eremita e contemplativo, e un’esaltazione incondizionata del ruolo di Pietro, capo indiscusso e funzionario efficiente. Avevano ancora voluto, nello stesso tempo, la chiara proposta dell’esempio di Caterina e Lucia, vergini savie e composte, martiri eroiche, alle giovani donne educate nel loro istituto esclusivo e privilegiato. In sintesi: un riconoscimento obbligato alla tradizione contemplativa e la piena affermazione della scelta attiva, a ogni livello, nelle istituzioni.

Lorenzo Lotto, Madonna con il Bambino e i santi Pietro, Cristina, Liberale e Girolamo, chiesa parrocchiale di S. Cristina al Tiverone, Quinto di Treviso.

 

Il nostro pittore è un giovane di 25 anni, orgoglioso e già sicuro della sua arte, tanto che in un atto notarile di questo 1505 si fregia dell’appellativo roboante di “pictor celeberrimus” e ancora in questo dipinto traccia il suo nome in vistosi caratteri lapidari proprio al centro della base del trono di Maria come mai neppure il glorioso maestro Bellini aveva osato fare. Lorenzo si collega alla Pala di S. Zaccaria col motivo del mosaico absidale a spirali d’acanto nella nicchia dell’edicola e con l’apertura laterale con l’albero e il cielo. Tuttavia alla luce più sfumata e morbida di Bellini contrappone –ricordandosi dell’esempio di Antonello a S. Cassiano- una luce più ferma e nitida che individua le geometrie dell’architettura e le fisionomie dei personaggi. E’ già una sua risposta polemica al Giorgione di Castelfranco (come vedremo) ma anticipa anche, quasi profeticamente, la sua rinuncia ad affermarsi a Venezia.

Lo spazio della cappella è definito da pilastri e architravi; la Madonna è sul trono, nella mano destra ha un libro poggiato sulle ginocchia e con la sinistra cinge il corpo del Bambino Gesù. Uno scambio di sguardi e un dialogo intenso unisce Maria e il Bambino (un po’ corrucciato) a S. Cristina; la presenza del cardellino, che secondo una tradizione si sarebbe macchiato col sangue di Cristo in croce, sembra suggerire che il colloquio spirituale riguardi il tema della Passione e Morte di Gesù. Questo dato crea un legame con la lunetta, un capolavoro di doloroso realismo: nella “Pietà” il gruppo serrato delle figure di Cristo (corpo possente, definito con perfetta anatomia) e degli angeli che si stagliano –con bellissimi contrasti di colore- sul fondo scuro crea un’emozione intensa e struggente, una devozione patetica e accesa, e si qualifica come una fisionomia desunta da modelli dureriani. Forse fu il committente a imporre questa cimasa al di sopra della Sacra Conversazione; forse fu il nostro pittore a volerla, uomo profondamente cristiano e che sarà sempre sensibile –fino alla morte- al coinvolgimento nel valore salvifico del sacrificio della croce, tema largamente diffuso nella sensibilità religiosa del primo ‘500. Egli, fin dalla giovinezza, aderisce pienamente alla rinascita di valori religiosi, al desiderio di ritorno alle fonti evangeliche che sono aspirazione sincera di quei ceti medi e popolari con i quali si mescolava per il suo lavoro quotidiano e dell’Ordine domenicano che frequentava a S. Zanipolo a Venezia. La figurazione –il complesso intreccio dei gesti degli angeli che sorreggono e abbracciano il corpo di Gesù- appare in stretta consonanza con le pratiche di devozione contemplativa, incoraggiate dagli Ordini Mendicanti, volte a coinvolgere in modo diretto e profondo l’affettività dei riguardanti. Soffermiamoci sull’uso delle mani, sulla loro posizione, sul loro movimento: tutto il loro tracciato è un incedere di dolore attorno al corpo nudo, seduto. Quel corpo ora non è che un pesante uomo inerte, abbandonato –nel silenzio della morte- alle cure d’amore e di pietà di quelle mani, tra luci affilate e gelide, con colori freddi a forti contrasti.

Torniamo alla figura di Maria: busto e testa sono troppo grandi rispetto al manto sulle ginocchia, la figura si fa avanti e quasi si comprime per entrare tutta nella lama della luce, segni rivelatori di una composizione improntata a un principio di asimmetria e di tensione, al punto che alcuni critici vi hanno riconosciuto una volontaria contrapposizione rispetto al sereno e composto equilibrio della pala belliniana. Lotto disegna con durezza, incide i contorni, raccorcia fortemente il campo visivo così che i personaggi, investiti da una luce fredda, sembrano quasi indotti a un dialogo più immediato e diretto con l’osservatore. C’è acuto realismo nella resa dei particolari, fin dal gioco intarsiato del tappeto turco ai piedi della Madonna e dalla seta della bandiera e dal metallo delle armi del santo guerriero: Liberale ci guarda con occhio bruciante, quasi di sfida (qualcuno dice che è il ritratto del committente, altri parlano di un autoritratto); la sua armatura riflette virtuosisticamente sulla superficie luce e colori; sul suo piede destro si è posato un insetto, dipinto con insolita vivezza, quasi un trompe l’oeil. La santa ha sul capo un velo meravigliosamente trasparente ed ostenta una lucida macina da mulino. Ai due lati del gruppo ci sono anche qui Girolamo e Pietro, il vescovo eremita ha tra le mani un libro chiuso, Pietro è concentrato nel leggere le pagine di un libro ben aperto, i vecchi santi hanno volti rugosi e accigliati, le vesti accartocciate e rigide.

Lorenzo ha ripreso la medesima struttura della Pala belliniana ma ne ha capovolto polemicamente il significato teologico. Ancora A. Gentili ci guida nell’interpretazione: adesso è Girolamo ad ostentare con severa e concentrata sicurezza il libro chiuso, con il Cristo della Passione al centro della legatura, mentre Pietro deve scrutare con cipiglio preoccupato le pagine del libro aperto. Girolamo è l’eletto posto sotto il fico e in piena luce, mentre alle spalle di Pietro c’è un buio compatto. Pietro, sempre saldamente in possesso delle sue chiavi, è immerso nella lettura di quel libro che sembra procurargli qualche difficoltà di comprensione: è l’immagine di una Chiesa insidiata dalle tenebre, che deve tornare ad imparare da pagine difficili nelle quali unico contenuto e modello esemplare è l’esperienza della Passione e Morte di Cristo. Alla Chiesa dell’organizzazione, alla Chiesa attiva esaltata dal Bellini per la nobile società veneziana di S. Zaccaria Lotto contrappone –per una sede modestissima e per un oscuro prete del contado- la Chiesa dell’imitazione di Cristo, la Chiesa contemplativa. L’opera fu consegnata nel maggio del 1506; subito dopo il nostro pittore parte per Recanati, chiamato dai domenicani della città marchigiana.

Giorgione, Madonna in trono col Bambino tra i santi Liberale e Francesco, Duomo di Castelfranco Veneto (Treviso).

 

Qui non c’è la consueta architettura con la nicchia absidale, il fondo è un vasto paesaggio, due soli santi in basso, la santa immagine liturgica della Madonna col Bambino non è in chiesa ma in piena natura. E’ una straordinaria novità. Sembra (ma non è sicuro) che il nostro pittore abbia compiuto il proprio apprendistato presso Giovanni Bellini ma già da questa prima opera (Giorgione ha poco più di venticinque anni) rivela una cultura assai complessa che esorbita da un semplice tirocinio di bottega. Il confronto con la Pala di S. Zaccaria, contemporanea, ci consente di capire pienamente le sue innovazioni: l’assetto compositivo dell’immagine si stacca dall’impaginazione belliniana e ancor prima antonellesca per adottare lo schema semplificato dell’impianto triangolare a piramide (forse ripreso da pittori emiliani come Costa e Francia, aggiornati sulle novità centro-italiane), con lo spazio che è definito da una pacata, equilibrata successione di piani paralleli.

Osserviamo il dipinto un po’ più da vicino e adottiamo il metodo della visione a due piani. In basso c’è un sarcofago stemmato che funge anche da basamento del trono di Maria. E’ un parallelepipedo scuro di porfido, una concreta allusione al vero sarcofago con le spoglie del giovane soldato Matteo Costanzo, morto nel 1504, che è situato nella cappella. Questo spiegherebbe l’atmosfera di mestizia che pervade la pala, un dolore che induce la Vergine e il Bambino a rivolgere gli occhi verso il sepolcro sottostante, che vela lo sguardo di Francesco e proietta l’ombra dell’elmo sul volto del giovane santo guerriero. Il pavimento con riquadri di grigio e di bianco, il gradino, i tappeti colorati, il dossale rosso scuro sono definiti plasticamente; il parapetto di velluto rosso, che fa da quinta, isola i due diversi discorsi spaziali. Ma già in questa parte l’elemento naturale è il colore, i piani sono di colore e misurano le distanze attraverso le diverse reazioni dei colori alla luce. Ci sono due assorte figure di santi, definiti ancora in prospettiva sul pavimento a riquadri: a destra Francesco d’Assisi (che guarda da un lato e sembra fare un gesto accorato), a sinistra Liberale –titolare del Duomo di Castelfranco- o Giorgio –titolare della cappella- o Nicasio –martire dell’Ordine dei Cavalieri Gerosolimitani a cui apparteneva il committente- (che fissa lo spettatore), modellate con trapassi morbidi tra luce e ombra contro il parapetto che separa lo spazio vicino al riguardante dal paesaggio aperto sul fondo. L’opacità dimessa della veste francescana fa da contraltare al bronzeo sfolgorio dell’armatura di Liberale.

La Madonna è seduta sul trono col Bambino sulle ginocchia, sopra un basamento altissimo e in arretrato rispetto alla superficie del quadro, e i due sono immersi nello spazio naturale di colline con boschi e castelli fino alle montagne lontane e azzurrate, quasi a volerci dire che solo le figure divine possono trovare un pieno rapporto con la natura. Il gruppo sacro fa da cerniera tra i due piani in cui è suddivisa la scena, quello in basso dove si accampano le figure dei santi e quello del fondo oltre il velluto rosso che si dilata sull’ampio paesaggio. La posizione elevata di Maria serve al pittore per darle la funzione di tramite tra il sacro e il profano, fra l’intimità raccolta della zona inferiore e l’apertura verso il mondo. La Vergine ha una veste verde oro, il manto rosso carminio, sulla sua testa e intorno al corpo del Bambino due veli bianchi e già tra questi tre colori si stabilisce un rapporto tonale; anche il paesaggio è fatto di velari paralleli e le sue linee ripetono le linee dell’orizzonte. I colori dell’abito di Maria si fondono ai verdi dell’erba, allo scuro delle macchie, all’ambra e all’azzurro violetto del paese lontano. In questa parte Giorgione è veramente innovatore: abbandona ogni legame col paesaggio di fine ‘400 e dà vita a un’immagine diretta della natura vivente, avvicinandosi così al nuovo naturalismo di Durer –in quegli anni a Venezia- e agli studi dal vero di Leonardo. Le tinte sono date a macchia, i toni sfuggono a ogni precisazione di disegno e di chiaroscuro, sono evocate con immediatezza la luminosità e le vibrazioni dello spazio naturale, c’è il valore atmosferico del colore. Ad avvolgere i protagonisti sacri non c’è che la natura: un castello del placido entroterra trevigiano, una macchia di pioppi autunnali bagnata d’ombra sotto un cielo compatto che è pura luce fatta colore, e nella campagna apparentemente tranquilla si notano tracce inquietanti di guerra, la torre malconcia e soldati in riposo. Una luce non ancora crepuscolare ma quasi di tramonto, di pomeriggio avanzato, conferisce al quadro una tonalità dorata suggestiva ma non riesce a nascondere un’atmosfera tesa e sofferente, silenziosa e presaga, da contestualizzare alle vicende belliche di questo inizio di secolo e che minacciavano la Repubblica di Venezia. Natura e storia si compenetrano.

Parliamo ora della novità di linguaggio più importante di questa opera, anche se molte anticipazioni sono già state date. Tutta la critica concordemente sostiene che questo è un testo decisivo per l’affermazione del tonalismo, corrente stilistica veneta che fa affiorare l’immagine dal fondo attraverso un graduale scalarsi di toni sfumati della luce e dei colori, prevalentemente chiari, e non grazie a forti contorni grafici. Questa tecnica fa risaltare l’effetto dell’impasto cromatico (si devono rendere i colori e le vibrazioni della natura), i timbri sono smorzati, l’atmosfera naturale circola liberamente in tutto il dipinto con effetti di assoluta unità e continuità psicologica e spaziale. Risultano decisive le variazioni di intensità del colore in relazione alle variazioni diffuse e calde della luce di questo tardo pomeriggio veneto.

C’è, infine, un dibattito critico marginale ma interessante da riportare. Argan rileva: “i gradini del trono sono visti dall’alto, i braccioli dal basso, è uno scarto di prospettiva, inesperienza del giovane pittore? Busto e testa di Maria sono piccoli rispetto al volume del manto sulle ginocchia”. Adorno replica: “non vi è nessuno scarto prospettico dovuto a inesperienza giovanile ma è il contrario perché la linea d’orizzonte si trova in un punto intermedio fra il basamento del trono e i braccioli. Il punto di fuga –estremamente rialzato- si trova al di sopra del pannello che separa le due zone, in modo che lo sguardo dell’osservatore va al di là del divisorio immergendosi nella vastità spaziale. Un altro errore sarebbe nelle misure di Maria e del Bambino, troppo piccole rispetto ai santi, ma anche questo non è vero: semmai il pittore ne ha aumentato la grandezza per evitare che l’applicazione scrupolosa e meccanica della legge prospettica le diminuisse al punto da far perdere loro il ruolo di protagonisti. La prospettiva lineare serve per realizzare lo spazio nell’ambiente anteriore; al di là la distanza è indicata dalla disposizione dei colori che non degradano, come in Leonardo, ma variano passando dalle tonalità più calde dei primi piani a quelle più fredde dello sfondo. Certo, il senso atmosferico che emana dal paesaggio è una conseguenza delle ricerche di Leonardo ma alla prospettiva aerea del toscano Giorgione sostituisce la prospettiva cromatica del Bellini. Dalla molteplicità dei toni riposanti nella morbida luce attenuata, dall’atteggiamento rilassato dei personaggi, dalla loro pensosità, dal distendersi del paesaggio silenzioso, nasce la dolce sognante malinconia, il raccolto intimismo del quadro”.

Le figure centrali della Madre e del Bambino, così minute e delicate da sembrare fuori proporzione, sono in realtà un’umanissima ma assoluta divinità, davanti alla quale il credente da sempre non si sofferma solo per una preghiera ma per una profonda riflessione sui valori più alti della fede cristiana.

Gennaro Cucciniello