La gioventù di oggi, sedotta e declassata?
I giovani sono stati incoraggiati ad avere aspettative impossibili?
Nel Supplemento “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” di domenica 12 novembre 2017, alle pp. 6-7, è pubblicata un articolo di Giulia Villoresi che riproduce un dialogo fra Raffaele Alberto Ventura e Valerio Mattioli. Ventura è autore del saggio “Teoria della classe disagiata”, edito da Minimum Fax, libro che ha acceso un grande dibattito. Ventura è nato a Milano nel 1983 ma da tempo vive a Parigi dove si occupa di marketing culturale. Mattioli è nato a Roma nel 1978, giornalista e saggista, esperto di musica e culture pop. Nel 2016 ha pubblicato “Superonda. Storia segreta della musica italiana”, Baldini & Castoldi.
Gennaro Cucciniello
Nel 1899, a un rintocco dalla mezzanotte del Ventesimo secolo, usciva in America “Teoria della classe agiata” di Thorstein Veblen. Il libro fu preso per un testo di satira più che per un trattato socioeconomico: vi si sosteneva che gli intellettuali e i capitalisti erano inutili perché il loro lavoro non produceva beni materiali e che la cultura umanistica era un mero strumento di affermazione sociale. Orde di oziosi istruiti continuavano a spendere risorse e a consumare beni superflui per ostentare il proprio status, minacciando gli equilibri del sistema produttivo. Cinquant’anni dopo, Veblen non era più uno scrittore comico, ma un brillante economista dallo stile “pittoresco e disinvolto”. Oggi, con altrettanta disinvoltura, un giovane di nome Raffaele Alberto Ventura ha scritto il sequel di quel trattato: si intitola “Teoria della classe disagiata” ed è uscito a settembre per Minimum fax, dopo aver lungamente circolato in Rete in versioni continuamente aggiornate, discusse, rielaborate, alla stregua di un “piccolo culto carbonaro”. Adesso è un piccolo caso editoriale. Attestato da tre ristampe in due mesi e da un montare di reazioni, ora entusiastiche, ora sospettose, ora indignate.
La classe agiata, sostiene Ventura, non era abbastanza agiata da sopportare a lungo il cosiddetto “consumo ostentativo” e ha imboccato la via dell’autodistruzione; la fine è arrivata, è qui, ma la ex classe agiata continua a misurare il mondo con l’esperienza dei suoi padri e da essi si fa tenere artificialmente in vita, in attesa che le sue aspirazioni vengano comprese dal mercato del lavoro. Aspirazioni incoraggiate dal sistema educativo e dall’industria culturale, che nel loro impegno ad assicurarsi sempre nuovi consumatori continuano a illudere la classe disagiata, a sollecitarne l’ego: studia, esprimi te stesso, accumula titoli, e vedrai che il sistema ti ripagherà. Il risultato di questa grande bugia è una generazione di trenta-quarantenni avvelenata dal risentimento, che per non retrocedere socialmente spende il poco che resta in “consumi posizionali”: libri, concerti, vestiti, voli low cost. Cultura, direbbe impietosamente Veblen.
Ventura chiama in causa tutta la classe media, ma sono gli intellettuali a sentirsi tirare per la manica. Alcuni, come da tradizione, non vorrebbero essere chiamati così. Tra loro spicca Valerio Mattioli, critico musicale e studioso di culture pop, che ha scritto una lunga critica a Ventura sulla rivista “Che fare”. L’articolo è animato da sincero sdegno. Vi si definisce il saggio di Ventura un “autodafé da aperitivo preserale” o, meno oscuramente, un atto di “auto- denigrazione consolatoria”; l’autore è accusato di miopia politica, ingenuità e pigrizia mentale. E’ il culmine di una polemica tra amici che si celebra fin dalle primissime stesure del libro.
Robinson ha propiziato un nuovo incontro, in un orario poco congeniale ai dibattiti: la colazione. “Basta che non ci costringi a fare foto instagrammate in cui appariamo in mezzo a uova, blini e fette di salmone affumicato perché c’è un limite alla gentrificazione”, è la condizione posta da Ventura. Per Mattioli basta che si possa fumare.
Mi spiegate il vostro dissenso?
Valerio Mattioli. Penso che il libro di Raffaele ridicolizzi una serie di figure e di atteggiamenti senza tenere conto dei veri meccanismi da cui dipendono. E che alimenti una rassegnazione che non aiuta a individuare le vere cause del “disagio”, né a ipotizzare vie d’uscita. Il suo approccio si inserisce in un filone ben preciso, che poi ha costituito la narrazione dominante degli ultimi anni. Un approccio ecumenico, ironico, svagato, che alla fine ha prodotto il dramma in cui viviamo oggi. Poi c’è un problema di generalizzazione. Non si può dire “siamo tutti classe media”. Non si possono mettere insieme il creativo hipster e l’operatore del centro scommesse.
Raffaele A. Ventura. Io sono partito da me, dalla mia esperienza. Da quel sentimento che ho provato uscendo dall’università, quando mi chiedevo: perché non riesco a essere felice? Tutto nasce da quella domanda. Poi è vero, il libro parte dal particolare e vorrebbe abbracciare l’universale. Ed è facile fare ironia sugli intellettuali. Ma è come se loro fossero l’incarnazione caricaturale di tutta la classe media, con i suoi investimenti formativi. Troppo ricca per rinunciare alle sue ambizioni, ma troppo povera per realizzarle.
E’ anche il vostro caso?
RAV. Certo. Ed è vero che il libro comincia col sarcasmo, ma poi si fa sempre più amaro. Forse il lettore disattento non se ne accorge, giudica dall’incipit e dalla copertina. Molte persone, per esempio, pensano che io provenga da una famiglia ricca e radical chic. Lo stesso Valerio ha scritto che la mia lettura è implicitamente classista. Magari le note biografiche che si trovano in Rete sono fuorvianti. Mia madre insegna inglese al liceo, mio padre fa il rappresentante di coltelli.
- Anche io posso parlarti della mia esperienza. Non ho mai voluto lavorare nella cultura. Volevo aprire un alimentari a Centocelle, nella periferia di Roma, dove sono cresciuto. Però mi piaceva anche leggere, fare riviste autoprodotte, ascoltare musica. La cultura per me non è mai stata un “bene posizionale”, uno strumento di affermazione sociale. E se ora ci lavoro è solo perché è qui che ho trovato lavoro.
Valerio crede che liquidare la cultura come “bene posizionale” non tenga conto di tutte quelle esperienze in cui la cultura è soprattutto una risorsa esistenziale, uno strumento di opposizione, più che di omologazione.
RAV. Valerio ha una visione troppo cinica del concetto di bene posizionale. Anche il suo percorso, benché sincero, è “posizionale”. Perché lui, in quanto intellettuale, non sta producendo un bene, ma un segno, cioè qualcosa che serve a produrre un differenza sociale. Il bene posizionale è tutto ciò che facciamo per differenziarci dagli altri.
- Tu neghi qualsiasi dimensione disinteressata della conoscenza. E dimentichi che l’attività intellettuale è il perno del sistema economico ultraconcorrenziale in cui viviamo oggi.
Vuoi dire che sono gli scrittori a far girare l’economia?
- Voglio dire che l’economia oggi si fonda sulle prestazioni cognitive. Dagli operatori del call center a quelli dei centri scommesse. Se lavori in un call center, per esempio, devi essere simpatico, perché poi vieni valutato. E secondo te da dove trai quella simpatia?
RAV. E l’operaio, da dove trae la forza di spostare una leva? E’ ovvio che il lavoro contamini la vita, le risorse interiori.
- E’ proprio qui che voglio arrivare: il disagio proviene dal fatto che il lavoro ormai coinvolge ogni minimo recesso della vita privata. Io mi trovo al punto che qualsiasi pensiero mi passi per la testa penso se e come tradurlo in un’attività. E’ come un riflesso pavloviano. Così si finisce per lavorare sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro.
Questo lo dice anche Raffaele Ventura. Cosa veramente vi divide?
RAV. Siamo d’accordo sul fatto che ci sia un conflitto tra aspirazioni e realtà. Solo che Valerio dice: la realtà è sbagliata, le aspirazioni sono giuste. Io dico: la realtà è realtà, le aspirazioni ci condannano a soffrire.
- Tu proponi di abbassare le nostre aspettative. Io dico: abbassarle ancora? Piuttosto, se il lavoro non c’è più, spogliamolo della sua aura valoriale, aboliamolo e assicuriamo un reddito a tutti.
Possibile?
RAV. Non credo. Il progresso industriale soddisfa i nostri bisogni materiali, ma rende sempre più costosi, scarsi e necessari i beni sociali, quelli che ci garantiscono prestigio e riconoscimento. Ed è per quelli che lavoriamo.
- Questa è un’idea anacronistica. Quelli che chiami “beni sociali” sono beni economici tout court. Invece la fine del lavoro è un tema attuale. Urgente, in tempi di automazione e ipotesi di “stagnazione economica secolare”.
Ma la marginalità ha dei vantaggi, almeno sul piano della creatività? Voglio dire, non si è mai visto un amministratore delegato teorizzare mondi alternativi.
RAV. Il problema è che oggi l’industria culturale è in grado di soddisfare ogni possibile nicchia. C’è stato un assorbimento della controcultura nel linguaggio del marketing. E questo fa sì che, non tanto le idee in sé, ma il loro impatto risulti svalutato.
- Amministratori delegati che propongono mondi alternativi ce ne sono: pensa a quelli della Silicon Valley. Ma sono distopie belle e buone e se vogliamo evitarle tanto più urgente diventa trovare il modo di sganciare la cultura dall’uso che ne fa il mercato.
Giulia Villoresi