Belli. Sonetti. “La vita der Papa”

La vita der Papa”, 16 novembre 1833

 

Roma è la città del Papa, del Vice-Dio. Scrivono i critici, sulla scia del nostro poeta, “che Dio stesso non si può concepire che come un tiranno allegramente feroce, che crea gli uomini per dopo prendersi gioco di loro, e che ride a crepapelle se vogliono dare la scalata al Cielo, e che si diverte a tormentare inutilmente gli uomini, così come fece inutilmente morire sulla croce il Figlio”. La crocifissione di Gesù non ha redento il genere umano, spaccato in due dall’abisso delle differenti e incolmabili condizioni sociali. La Città del Papa, col caravanserraglio delle confessioni, delle indulgenze e dei giubilei e con la moltiplicazione dei santi, ha solo reso inutile il Diavolo. La Città del Papa è nata sulla città di Romolo e Remo, dell’odio fratricida. Resta la capitale di un “mondaccio” su cui grava il peccato di Caino, che ha protestato invano contro i privilegi di Abele, il preferito da Dio e l’ultra-raccomandato. Nella Città del Papa la disuguaglianza non è solo nelle ricchezze o nella possibilità di alimentarsi; si è disuguali anche di fronte alla religione, il peccato dei poveri vale poco nel mercato delle indulgenze. E se mai si può pensare di uscire da questa città e da questo mondo, si troverebbe moltiplicata all’infinito la nostra storia sacra e profana. E se gli altri mondi fossero mai abitati, il Papa penserebbe ad estendervi il suo dominio, ad allargare i confini del suo potere”.

Belli ha voluto rappresentare il Papa vedendolo da tutti i lati. E quando lo colloca più su della cronaca spicciola, quando lo vede nella situazione fantastica fondamentale del suo dramma, allora il personaggio assurge all’altezza non solo della commedia ma della tragedia romana. La teocrazia come tirannide senile.

E’ chiaro alla coscienza del nostro poeta che l’inattuabilità del progresso a Roma è dovuta all’onnipotenza del papa, il proconsole di Dio. E in tanti modi sono spiegati i simboli e le forme di questo immenso potere vòlto all’oppressione dell’uomo. Il sostantivo “papa” è in assoluto la parola più citata nei sonetti belliani, a rimarcare l’ossessiva presenza del Vicario di Cristo. Nella sua doppia natura di capo spirituale e politico, o –se si vuole- di capo politico in quanto spirituale, egli dovrebbe essere l’uomo più impegnato e sollecito a risolvere il problema della divisione in classi e dell’ingiustizia: invece è sempre uguale a se stesso, eterno e immutabile, chiuso nel suo sovrano disinteresse per l’umanità dolente, teso solo a realizzare il suo sogno di potenza. In margine al sonetto, “Cosa fa er papa?”, Belli scrive una nota che dovrebbe far accettare la scoperta eterodossia dei suoi versi all’eventuale opinione pubblica: “Se fosse vero quello che qui asserisce il nostro romano, potrebbe San Pietro ripetere quanto già disse di Bonifacio: “Quegli che usurpa in terra il luogo mio,/ Il luogo mio, il luogo mio che vaca / Nella presenza del Figliuol di Dio”, stendendo una cortina fumogena e nascondendosi dietro il severo giudizio di Dante.

A un sovrano di questo tipo quali sudditi possono corrispondere? Se lo scandalo irrimediabile è nella testa del corpo sociale, come meravigliarsi se poi nel popolo trionfano l’indolenza e l’apatia? Il papa proiettandosi nell’aldilà dà al Belli l’idea di Dio, il popolano romano proiettandosi nella storia diventa Caino, l’infelicità umana proiettandosi nell’eternità diventa l’ossessione dell’inferno. Non sarà una casualità inspiegabile ma lo Stato del Papa vedrà nascere nei suoi confini, nello stesso decennio, Belli e Leopardi, rappresentanti importantissimi, anche se diversi tra loro, del pessimismo di estrazione post-illuministica del XIX° secolo.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –diceva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018.

La vita der Papa                              16 novembre 1833

 

Io Papa?! Papa io?! Fussi cojone!

Sai quant’è mejo a fà lo scarpinello?

Io vojo vive a modo mio, fratello,

e no a modo de tutte le nazzione.                             4

 

Lèveje a un omo er gusto de l’ucello,

inchiodeje le chiappe s’un zedione,

mànnelo a spasso sempre in pricissione

 e co le guardie a vista a lo sportello:                               8

 

chiudeje l’osteria, nègheje er gioco,

fàllo sempre campà co la pavura

der barbiere, der medico e der coco:                                11

 

è vita da fà gola e lusingatte?

Pe me, inzin che nun vado in zepportura,

magno un tozzo e arittoppo le ciavatte.                         14

 

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, EDE).

 

                                               La vita del Papa

 

Io Papa?! Papa io?! Fossi uno stolto, un coglione! Sai quanto è più bello fare il ciabattino? Io voglio vivere a modo mio, fratello, e non secondo le intenzioni di tutte le nazioni. Levagli a un uomo il piacere del sesso, inchiodagli le natiche sul trono e sulla sedia gestatoria, mandalo a passeggio sempre in processione, e con le guardie a vista per proteggerlo: chiudigli l’osteria, negagli il gioco, fallo sempre vivere con la paura del barbiere (il rasoio alla gola), del medico (un farmaco velenoso), del cuoco (veleno nel cibo): è questa una vita da desiderare e che possa lusingarti? Per me, fino a quando non vado nella tomba, mangio un tozzo di pane e rattoppo le ciabatte.

 

Analisi.

L’inizio è memorabile, una mirabile rappresentazione di teatro con il nostro poeta (calzolaio) che, ex-abrupto, risponde vivacemente a una battuta provocatoria di un suo interlocutore. Mi ricorda Nino Manfredi che in un film di Luigi Magni impersonava il ruolo di un Pasquino ciabattino.

La sorpresa è stilizzata in un rovesciamento: “Io Papa?! Papa io?!”, e poi subito immediatamente, “fussi cojone”, a incastonare, così, subito nel primo verso, l’antitesi esistenziale e di ruolo. Il sonetto poco indaga sul lavoro manuale del riparare le scarpe e molto,invece, si dilunga in dettagli sulla vita miserevole e piena di insidie del vicario di Cristo.

Questo umile fabbricante di ciabatte crede ingenuamente di poter salire al sommo della scala sociale, ma –riflettendoci bene- respinge vigorosamente l’ipotesi col suo buon senso. Scrive la critica: “la scelta di una vita umile e oscura, motivo letterario di lunga tradizione, è qui realizzata in una figura cittadina semplice e concreta che potrebbe far proprie le parole di Jacopone da Todi: “O amor de povertate,/ renno de tranquillitate!/ Povertat’è via secura,/ non n’à lite né rancura,/ de latron nun n’à pagura / né de nulla tempestate” (Lauda, 36).

 

Nello stesso giorno Belli scrive questo altro sonetto:

 

                                               Er Papa de mò

 

Er Papa d’oggi, Iddio lo bbenedichi,

E’ un omo, crede a mmè, arissettatello.

E’ un papetto de core e de sciarvello

D’avè in ner culo l’antri Papi antichi.                              4

 

E ggnisuno po ddì cche nun fatichi:

Chè nun fuss’antro questo, poverello,

Quanti lavori ha ffatti in Castello

Pe ssarvacce la panza pe li fichi.                                        8

 

Lui se veste da sé: llui s’arispojja:

Lui tiè in testa quer pezzo de negozzio

Che cce vorebbe sotto la corojja.                                        11

 

Lui trotta: lui ‘ggni ggiorno empie un cestino

De Momoriali… E ddichi che sta in ozzio,

Quanno, Cristo-de-Ddio, pare un facchino!                   14

 

                                     

Il Papa di adesso (Gregorio XVI)

 

Il Papa odierno, Dio lo benedica, è un uomo, credi a me, molto a modo. E’ un papetto (era una moneta da una lira romana) amorevole e intelligente, tanto da far sfigurare gli altri Papi precedenti. E nessuno può dire che non lavori: non foss’altro, poveretto, per i tanti lavori che ha fatto a Castel Sant’Angelo per salvare in quel luogo la propria pelle. Lui si veste da sé, lui si rispoglia: lui porta sulla testa quel triregno tanto pesante che ci vorrebbe sul capo una corona di panni ravvolti. Lui corre di qua e di là per il gran da fare: lui ogni giorno riempie un cestino di Memoriali (le suppliche) che riceve…  E tu dici che sta in ozio, quando, Cristo-di-Dio, pare un facchino!

 

                                                                  Gennaro Cucciniello