Grotta di Lascaux: erudizione, narrazione.

Grotta di Lascaux: erudizione, narrazione.

Gwenn Rigall ripercorre l’avventura di un gigantesco monumento del Paleolitico. E dal nulla nasce l’arte.

 

La fede dei graffiti, tra avventura e interpretazione. Su questa soglia si situa “Il tempo sacro delle caverne” di Gwenn Rigal (Adelphi). Un libro piuttosto eccentrico che, nel sottrarsi a ogni approccio di tipo impressionistico-letterario, riesce a saldare erudizione e narrazione, conoscenza storica e leggibilità. Per un verso, Rigal muove dalla sua esperienza personale di guida nella grotta di Lascaux, suggerendo un approccio affabile, non rivolto a una ristretta comunità di specialisti. Per un altro verso, egli intervalla il suo racconto con riferimenti archeologici, antropologici ed etnografici, rendendo conto anche delle scoperte più recenti e dei continui progressi scientifici e tecnologici (dalle procedure stratigrafiche alle modellazioni 3D). Per farci entrare nell’esistenza e nella mente dei primi artisti europei.

Lascaux è stupore. Un miracolo che genera in chi osserva un sentimento di danza dello spirito. E’ la rivelazione dell’inatteso, come scrisse Georges Bataille in “Lascaux. La nascita dell’arte” (edito nel 1955, tradotto in italiano da Abscondita, poi Mimesis): “Questa straordinaria caverna non finirà mai di sconvolgere chi la scopre: non finirà mai di rispondere a quell’attesa del miracolo che costituisce, nell’arte come nella passione, l’aspirazione più profonda della vita”. Lì, aggiungeva il grande scrittore, l’arte è stata inventata dal nulla.

Dunque, eccoci nella Cappella Sistina della preistoria. Ne sono artefici anonimi e involontari artisti: i Cro-Magnon, troppo spesso descritti come uomini bassi e pelosi, capaci di esprimersi solo attraverso borborigmi. Quei cacciatori seminomadi, invece, erano particolarmente minuti e non avevano lineamenti scimmieschi. “Erano uomini del tutto moderni, sia sul piano fisico che su quello intellettuale, e si esprimevano in linguaggi perfettamente articolati, seppure a noi sconosciuti”.

Alti, robusti, di carnagione bruna, poco longevi, impegnati a sopravvivere nel clima rigido dell’epoca servendosi del fuoco, di utensili, di armi e di vestiario, questi individui misteriosi vivevano in gruppi numericamente limitati. Ma, soprattutto, si concedevano a cerimonie che avevano valenze, di volta in volta, magiche, religiose, sciamaniche, apotropaiche o animistiche: amavano rifugiarsi dentro grotte fredde, umide, avvolte in un buio sepolcrale, interrotto solo dal gocciolio di un ruscello, dal rumore dei passi di qualcuno. Lì sembrava che il tempo scorresse con maggiore lentezza rispetto a quel che avveniva nella vita di ogni giorno. I Cro-Magnon dedicavano intere giornate a percorrere e a esplorare i reticoli sotterranei, lasciando tracce del proprio transito. Per padroneggiare la fredda e angosciosa estraneità delle pareti delle caverne, intervenivano un po’ ovunque: in alto, su luoghi scoscesi, dentro pozzi naturali. Era una forma di espressività sorgiva, originaria. Incidere, disegnare, dipingere, scolpire, modellare. Una ritualità che si è affermata per circa 30 mila anni (tra i 40 mila e i 12 mila anni fa), omogeneamente diffusa su un territorio molto vasto (esteso dall’Atlantico agli Urali), esito di quella che si può considerare la prima civiltà europea. Una civiltà, ricorda Rigal, “dotata di marcati regionalismi, certo, ma comunque fortemente strutturata dalle sue invarianti culturali”.

Servendosi di pigmenti naturali (argilla, ocra, caolino, gesso) e organici (carbone di legna e ossa), mescolati con leganti (acqua e grasso) e con additivi minerali (talco e quarzo), i nostri antenati realizzano capolavori muti. Ingenue drammaturgie, nelle quali convergono metafisica e magia. Vi si incontrano segni, animali, esseri umani. Innanzitutto, punteggiature, croci, impronte digitali informi. E, poi, cavalli, bisonti, uri, cervidi, stambecchi e mammut, ritratti quasi sempre a riposo e frontalmente. Infine, uomini: nudi, spesso bestializzati, ridotti a schemi. Si esalta la dimensione realistica degli esseri animali e umani, che tuttavia vengono collocati in un’aura di irrealtà, onirica, fantasmatica. Come attori di un miraggio o di una messa in scena ingannevole, incuranti delle regolari proporzioni anatomiche.

Ci imbattiamo in mitologie difficili da decifrare: L’uomo di fronte al bisonte o all’orso; l’uomo crivellato di linee. Si tratta di epiche inintenzionali che, sottolinea Rigal, evocano una sorta di racconto delle Origini. E’ come se la vita scaturisse dalle profondità delle grotte.

Eppure, l’enigma poetico di queste macchine iconografiche va ricercato altrove. I Cro-Magnon, secondo Rigal, si propongono di mettere in contatto lo spettatore con un altro mondo situato dall’altra parte della roccia. Un rilievo, questo, che potremmo collegare all’epilogo del libro di Bataille dedicato a Lascaux. Vi si elogia il talento di quegli artisti senza nome che, per la prima volta mettono in dialogo l’essere e il mondo che li circonda. E creano dal nulla una bellezza scandalosa.

Contrariamente a quel che sembra ritenere Rigal, questa bellezza, però, non è morta con la fine dell’era glaciale, ma è diventata patrimonio visivo comune. Nella modernità, è stata riattivata e sottoposta a tante ipotesi di riscrittura. Si ricordino le azioni dei graffitisti statunitensi i quali, pensando il proprio mestiere come una diversa forma di action painting, negli anni Settanta hanno invaso New York con segni ermetici policromi. Interi quartieri, facciate di palazzi, pareti e vagoni della metropolitana sono stati occupati da affreschi selvaggi e spontanei, vitalistici e indocili. Una pittura del desiderio, all’origine della quale c’è una torsione audace: portare sulle facciate dei palazzi quello che i loro lontanissimi antenati avevano dipinto sotto terra. E’ un’intuizione cui si sono ispirati, nel nostro tempo, street artist e writer. Ma non solo. Anche il cinema deve molto all’arte delle caverne, come ha sottolineato Werner Herzog nel 2010 in uno struggente film-documentario intitolato “Cave of Forgotten Dreams”, cronaca claustrofobica di un viaggio nella grotta Chauvet, passeggiata in quello che fu un luogo di culto o di cerimonie: nei cavalli in movimento e nei bufali dalle corna e dalle zampe multiple disegnati lungo le rocce ondivaghe della grotta c’è già, in potenza, l’invenzione di quella straordinaria macchina mitopoietica che è il cinema. Graffitisti, street artist, writer e cineasti hanno rilanciato quella che Norman Mailer, in un libro del 1973, definì the faith of graffiti. Dimostrando che la contemporaneità più autentica non coincide mai con l’adesso, ma è attraversata da molteplici ed eterogenee temporalità. Mescola il presente più immediato e il passato più remoto. E’ permeata di slanci visionari. Ed è percorsa da anacronismi.

 

                                                        Vincenzo Trione

 

L’articolo è pubblicato ne “La Lettura” del 22 maggio 2022, supplemento culturale del Corriere della Sera, alle pp. 40-41.