63 a.C. Pompeo conquista Gerusalemme e saccheggia il Tempio
Luciano Canfora rievoca per Laterza il primo sacco del Tempio di Gerusalemme, negato da Flavio Giuseppe 150 anni dopo.
Il saggio, “Il tesoro degli Ebrei. Roma e Gerusalemme” di Luciano Canfora (Laterza, pp. 289) racconta, con indescrivibile erudizione accompagnata dalla ben nota lucidità, come finì, nel 63 a.C., l’indipendenza dello Stato ebraico. Ciò avvenne, nel più generale contesto della conquista del Medio Oriente e in particolare dell’area siro-palestinese, ad opera delle legioni romane. La figura dominante dell’aggressione e della spoliazione del tesoro di Stato degli Ebrei fu Gneo Pompeo Magno, in quell’anno (l’anno della congiura di Catilina) potente personaggio della Repubblica romana.
Secondo lo storico gerosolimitano Flavio Giuseppe (37-100 d.C.) e le fonti romane, la causa contingente dell’intervento di Roma fu il conflitto dinastico esploso in Giudea tra Ircano II e suo fratello minore Aristobulo, figli del re Alessandro Janneo. A monte c’era, ovviamente, la spinta imperialistica dello Stato romano, che approfittò del vuoto politico di un’area nevralgica e ricca come la Giudea per occuparla militarmente e annetterla alla Siria.
Inizialmente Pompeo affida a Marco Emilio Scauro la Siria, con il compito di ridimensionare il regno giudaico; il conflitto locale offre a Scauro un’occasione d’oro per intervenire. Si fa dare da Aristobulo 300 talenti e impone a Ircano e al suo sostenitore arabo Areta di togliere l’assedio a Gerusalemme. Ma Pompeo, con una decisione imprevista, punta su Damasco, e lì decide le sorti del conflitto, appoggiando Ircano, che apre le porte di Gerusalemme ai Romani, mentre Aristobulo è fatto prigioniero. La situazione tuttavia sfugge di mano, e una parte radicalizzata degli abitanti della città si asserraglia nella fortezza-Tempio e affronta la prospettiva terribile dell’assedio da parte delle legioni romane.
L’imprevisto della resistenza del Tempio trasforma l’operazione (chiamiamola diplomatica) in un ennesimo bellum iustum (guerra giusta) del “Popolo Romano”, che rendeva legittima la scelta di calpestare il precedente trattato di alleanza tra Roma e Gerusalemme. Nella prospettiva imperiale romana la riduzione della Giudea ad entità tributaria è un capitolo marginale della ben più grande campagna contro Mitridate del Ponto e Tigrane d’Armenia, ma per gli Ebrei tutti la profanazione del Tempio e addirittura dell’inviolabile “Santo dei Santi”, nonché l’uccisione dei sacerdoti sull’altare, il massacro dei resistenti, la deportazione di molti, la decapitazione dei capi costituirono un punto di non ritorno.
Nelle sue opere, scritte a Roma un secolo e mezzo dopo i fatti, Giuseppe Flavio edulcora il racconto dei massacri e dei saccheggi compiuti da Pompeo e dai suoi soldati. Pur descrivendo con toni accorati la carneficina e la profanazione del Tempio, fin nel Santo dei Santi, Giuseppe sostiene (per chiunque conosca la storia di Roma è fantascienza) che Pompeo non avrebbe toccato nulla, né gli oggetti sacri, né il famoso tesoro, frutto del contributo annuale versato da tutte le comunità giudaiche del mondo (tesoro che, tra l’altro, aveva già attirato l’attenzione di Crasso, emblema dell’avidità romana in Oriente, e persino del libertario futuro tirannicida Cassio, soprannominato “il dattero” per le sue aggressive speculazioni commerciali).
Una fonte ebraica coeva dei fatti, i cosiddetti “Salmi di Salomone”, punta invece il dito contro la voracità dei Romani nei confronti del tesoro del Tempio, sul massacro dei capi e sulla deportazione dei vinti a Roma, marchiati sul collo ed esposti nel trionfo di Pompeo. Anche Tacito, più tardi, afferma che la città fu espugnata e le sue mura distrutte, e Appiano di Alessandria parlerà (in toni positivi) di totale distruzione di Gerusalemme e di “estirpazione della razza ebraica”. Il movente economico, dunque, unito all’odio atavico per una religione senza statue di culto, e perciò “senza dei”, fu alla base del genocidio.
Giuseppe scrive dopo che Vespasiano e Tito, i suoi protettori, avevano represso nel sangue la rivolta giudaica del 66-73 d.C., di cui lui stesso era stato un capo. Nelle sue opere incolpa gli estremisti, i briganti zeloti, di aver portato alla rovina il popolo ebraico, e giustifica la propria adesione alla causa romana.
Secondo l’acuta ipotesi di Canfora, Giuseppe scagiona Pompeo (diventato icona e modello per gli imperatori romani) per scagionare Tito dall’accusa di avere, quando aveva già vinto, fatto distruggere il tempio nel 70 d.C. Il revisionismo storiografico di Giuseppe certo faceva comodo ai suoi patroni. Forse, però, lo storico ebreo tentava anche di “salvare il salvabile” dei vinti. Ripensando (e persino falsificando) la storia dei rapporti tra Roma e il Tempio, Giuseppe potrebbe aver voluto creare i presupposti per una sua possibile ricostruzione ed una riabilitazione ebraica nell’ambito dell’impero –una speranza mai sopita nelle comunità ebraiche, inclusi probabilmente i primi cristiani-, che purtroppo di lì a poco, al tempo dell’imperatore Adriano, animò altre rivolte e guerre e una distruzione definitiva.
Livia Capponi
L’articolo è stato pubblicato nel Corriere della Sera del 6 giugno 2021, alla pagina 36.