7 dicembre 1941. Pearl Harbor, Hawaii. Attacco giapponese agli Usa.

7 dicembre 1941, Pearl Harbor, Hawaii. Attacco giapponese agli Usa. Dalla sconfitta all’egemonia.

Quel “giorno dell’infamia” suscitò negli Usa una forte rivincita.

 

 

“La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera, ospita nel numero del 5 dicembre 2021, a p. 16, un articolo di Tiziano Bonazzi che analizza le distruzioni di Pearl Harbor e l’azzardo giapponese.

 

Un ponte bianco, coperto, lungo 60 metri, posto attraverso lo scafo sommerso dell’Arizona, è il monumento ai 1177 marinai caduti il 7 dicembre 1941 quando la corazzata venne affondata dagli aerei giapponesi. Lo scafo si intravvede sott’acqua, una parte emerge ancora, e ancora di tanto in tanto affiorano macchie scure di nafta rilasciate dai serbatoi; sono le lacrime dell’Arizona. Non lontano, attraccata a terra, si trova la Missouri, la corazzata sulla quale venne firmata la resa giapponese il 2 settembre 1945. Ilk simbolismo è voluto, il Memorial dell’Arizona e la Missouri rappresentano la sconfitta iniziale e la vittoria finale degli Usa nella Seconda guerra mondiale. Due milioni di persone visitano il Memorial ogni anno e il 7 dicembre qui si tiene la cerimonia principale del National Pearl Harbor Memorial Day. Il ricordo è vivo.

L’attacco giapponese ebbe inizio alle 7,48 del mattino, portato in due ondate da 358 aerei decollati da sei portaerei. Vennero affondate quattro corazzate, altre quattro furono danneggiate e affondati o seriamente danneggiati furono tre incrociatori, tre cacciatorpediniere e naviglio minore, 188 aerei furono distrutti, quasi tutti a terra. Morirono 2403 militari e civili e 1247 rimasero feriti. Sfuggirono all’attacco le tre portaerei della flotta del Pacifico che non erano nella base. I giapponesi persero solo 29 aerei e cinque minisommergibili che avevano tentato di entrare in porto. E’ evidente che gli americani erano stati colti di sorpresa. Nei giornali di bordo di varie navi si legge di derrate alimentari, soprattutto gelato e latte, che si stavano caricando all’arrivo degli aerei.

Il giorno dopo l’attacco, in un drammatico messaggio al Congresso, il presidente F. D. Roosevelt definì il 7 dicembre “un giorno che vivrà nell’infamia” e chiese di dichiarare guerra al Giappone, cosa che il Congresso subito fece. Per i giapponesi, tuttavia, non si era trattato di una mossa infame, bensì necessaria per impedire agli Usa di ridurre il Giappone a una potenza secondaria. Un’azione volta a cacciare gli occidentali dal Pacifico e a restituire l’Asia agli asiatici attraverso la Sfera di coprosperità asiatica, precisata proprio a fine 1941, che costituiva l’ossatura dell’ideologia giapponese di egemonia militare e razziale nel Sud-est asiatico.

Usa e Giappone avevano iniziato a espandersi nel Pacifico nell’Ottocento con lo scopo di conquistare il mercato cinese; ma non erano entrati in conflitto, anzi, i rapporti erano stati ottimi fino all’invasione giapponese della Manciuria nel 1931 e soprattutto all’attacco alla Cina del 1937. Gli Usa reagirono alla possibilità che cadesse l’amica Repubblica cinese mettendo in atto un embargo su prodotti e materiali strategici, rafforzato dopo la firma del Patto Tripartito tra Giappone, Germania e Italia nel 1940, e l’invasione dell’Indocina francese diretta a fermare i rifornimenti americani ai cinesi. Nel 1940 era evidente che la guerra in Europa e quella in Asia si venivano fondendo in un’unica guerra mondiale, con gli Usa in una posizione difficile perché la fortissima corrente isolazionista americana impediva a Roosevelt di dichiarare guerra alla Germania, così come precludeva una guerra nel Pacifico.

Il 1941 fu confuso e contraddittorio con intense trattative diplomatiche che non potevano portare da nessuna parte; ma che non si intendeva interrompere, un po’ nella speranza di un accordo, un po’ come un velo dietro il quale perseguire i propri fini. Per convincerlo a ritirarsi dalla Cina, gli Usa strinsero il Giappone in un embargo sempre più duro fino a bloccare i fondi giapponesi nelle banche americane necessari per l’acquisto di petrolio; quasi una dichiarazione di guerra perché il Giappone non aveva petrolio. Gli americani avevano anche decrittato il codice radio della marina nipponica e sapevano che si stava preparando un attacco; ma non avevano capito né dove, né quando. Si supponeva che sarebbe avvenuto nelle Filippine o a Guam e la confusione era grande sia a livello politico che militare. L’attacco a Pearl Harbor era invece stato pianificato da mesi; ma l’ordine venne dato solo a fine novembre, quando a Tokyo la Marina riuscì a imporre la propria volontà dopo duri contrasti nel governo e nel Consiglio imperiale.

Pearl Harbor non fu un’iniziativa sconsiderata come è stato spesso detto per la grande differenza fra il potenziale industriale e militare delle due nazioni. I giapponesi sapevano di non poter sconfiggere gli Usa e di non avere i mezzi per proseguire la guerra per più di un anno. Il loro scopo era immobilizzare la flotta americana per il tempo necessario a conquistare posizioni tali da formare una cintura difensiva tanto forte da convincere gli Usa a un accordo favorevole al Giappone. L’attacco riuscì, in parte anche per una serie di manchevolezze sul campo e nella catena di comando americana per cui la base di Pearl Harbor non venne messa in allerta, e i contemporanei attacchi aerei contro le isole di Wake e Midway (quest’ultima teatro mesi dopo di una battaglia decisiva) e il bastione britannico di Singapore lo completarono.

La mossa militare era riuscita; quello che non riuscì fu lo scopo politico. Il termine infamia usato da Roosevelt ebbe una risonanza profonda nel pubblico americano, spaccato tra isolazionisti e interventisti, però unito in una cultura cristiana che faceva degli americani un popolo protetto da Dio e inarrivabile nella sua moralità politica, per cui attaccarlo, specie se in modo infame, significava scagliarsi contro la storia e la divinità. Gli americani si raccolsero attorno alla bandiera per una guerra che non poteva essere limitata come voleva il Giappone; ma doveva portare alla distruzione del Male. Un’unità che oggi è di nuovo in forse perché quella comune cultura non esiste più. Tuttavia Pearl Harbor resta nella memoria nazionale e viene ricordata o per tutelare un nazionalismo anche aspro o per vivere la nostalgia di una sconfitta che divenne vittoria e aprì la strada all’egemonia americana in Occidente. Un evento dopo il quale le sconfitte militari non hanno più avuto lo stesso esito.

                                                        Tiziano Bonazzi