9 luglio 1971: l’America scopre la Cina
Il viaggio segretissimo di Kissinger. L’incontro con Zhou Enlai.
Ne “La Lettura”, inserto culturale del Corriere della Sera del 4 luglio 2021, è ospitato questo articolo di Guido Santevecchi, che commenta questo incontro, preparatorio del viaggio di Nixon del 1972.
“Dottor Kissinger, c’è una notizia speciale che la riguarda: lei è disperso”. Fu così che Zhou Enlai accolse il consigliere per la sicurezza nazionale degli Usa 50 anni fa, il 9 luglio del 1971 a Pechino. Una frase da spy story, adatta alle circostanze di quel primo incontro segreto. La battuta del premier comunista fu annotata da Winston Lord, giovane assistente di Kissinger, che la trascrisse in un memorandum di 110 pagine con l’intestazione “Top secret / sensitive /exclusively eyes only”. Sarebbe rimasto chiuso per 30 anni nell’archivio della Casa Bianca.
Oggi politologi da una parte e dall’altra del Pacifico studiano quell’operazione diplomatica che ha cambiato rapporti ed equilibri di forza tra Occidente e Oriente e si chiedono se la distensione tra le due superpotenze possa essere resuscitata con nuovi colpi di scena. La nostalgia è forte a Pechino, che ha il culto della storia, onora Kissinger con il titolo di “zhongguo renmin de lao pengyou”, “vecchio amico del popolo cinese”, e lo ha ricevuto e ascoltato in più di 80 occasioni dopo quello sbarco avvolto nel mistero. L’abbraccio spettacolare del 1971 tra Usa e Repubblica popolare cinese è stato definito in diversi modi. “Diplomazia triangolare, minuetto, tattica della volpe contro quella del riccio”, anche “la costruzione di Frankenstein”. Ogni etichetta rispecchia una parte di realtà, come il nome in codice dato all’operazione: “Marco Polo”. Nixon aveva deciso di inserirsi nel varco della rivalità feroce tra Mosca e Pechino giocando su due tavoli, creando relazioni più strette sia con la Cina, sia con l’Urss di quelle che i due paesi comunisti avevano tra di loro. E ora è lecito pensare che la grande solidarietà anche personale ostentata da Xi Jinping e Putin sia una replica teatrale del vecchio gioco triangolare e che l’incontro di giugno a Ginevra tra Joe Biden e lo zar russo sia un tentativo di contromossa americana.
Torniamo alla storia. Per mesi americani e cinesi si erano scambiati segnali a distanza, attraverso intermediari stranieri, lungo canali tortuosi: furono registrati 136 contatti, da Parigi a Varsavia, senza alcun esito. “Noi avevamo dato a quei tentativi il nome in codice di “Minuetto”, perché come in un ballo a coppie ci muovevamo a piccoli passi, cercando di prendere le misure dei passi, ma era difficile”, ricorda il professor Tao Wenzhao dell’Accademia delle scienze sociali di Pechino.
I colloqui esplorativi naufragavano subito sugli scogli delle dichiarazioni cariche di ideologia. La diffidenza era stata coltivata per 20 anni, da quando Mao Zedong il 1° ottobre 1949 aveva proclamato la nascita della Repubblica Popolare e Washington si era schierata dalla parte di Chiang Kai-shek, arroccato a Taiwan. Poi, i tre anni di guerra in Corea, quando un’armata di volontari cinesi si era battuta contro le forze Onu guidate dagli americani. L’immagine simbolo restava quella del Segretario di Stato americano John Foster Dulles, che durante la conferenza di pace sulla Corea a Ginevra, nel 1954, aveva rifiutato di stringere la mano a Zhou Enlai. Nel gennaio del 1969, appena eletto presidente, Nixon aveva cercato di rompere l’isolamento arrabbiato (come lo definì). Alexander Haig, che al tempo era il numero due del National Security Council ricordò così: “Kissinger uscendo dallo Studio ovale mi disse, “Al, il capo vuole aprire relazioni con la Cina”. Io risposi: “Devi aver capito male, lui è un guerriero della guerra fredda”. Kissinger rispose: “Penso che sia fuori di testa”. Nixon invece era lucido. Voleva agganciare i cinesi per aprire un altro fronte e circondare l’Unione Sovietica. Ma i primi tentativi non portarono a niente. Da commedia l’episodio accaduto a Varsavia nel 1970. L’ambasciatore americano in Polonia era stato incaricato di consegnare un messaggio ai cinesi, ma nessun diplomatico comunista voleva correre il rischio di farsi vedere vicino a un nemico imperialista. L’occasione arrivò in un luogo improbabile: una sfilata di moda jugoslava nella capitale polacca. Quando gli americani videro in sala alcuni funzionari cinesi cominciarono a gesticolare, cercando di avvicinarsi. Quelli, che non avevano ricevuto istruzioni da Pechino, si alzarono e si diressero rapidamente verso l’uscita per togliersi d’imbarazzo; cominciò un inseguimento; alla fine un americano gridò in polacco, l’unica lingua che avevano in comune: “Siamo dell’ambasciata degli Usa, dobbiamo incontrare il vostro ambasciatore… il presidente Nixon vuole riprendere i colloqui”.
Anche Mao aveva i suoi canali di comunicazione sottili. Uno dei preferiti era Edgar Snow, il giornalista americano che nel 1936 lo aveva intervistato a Yan’an, l’approdo della Lunga Marcia tra i monti dello Shanxi. Era stato Snow a scattare la famosa foto in cui il condottiero comunista indossava un berretto con la stella rossa. Nell’autunno del 1970 Snow fu invitato a Pechino per ascoltare nuovamente il Grande Timoniere. La diplomazia cinese però trattò quell’intervista in cui Mao accennava al possibile dialogo con Nixon come un messaggio infilato in una bottiglia e affidato all’oceano. A Snow fu detto di non mettere le virgolette alle frasi del presidente e di non pubblicare l’articolo prima di tre mesi. Mao era stato troppo furbo, immaginando che il giornalista sarebbe stato comunque subito interrogato a Washington e avrebbe rivelato la proposta di accogliere Nixon nella Città proibita “da capo di Stato o da turista”. Non fu così, perché la Casa Bianca lo considerava un mezzo comunista. Quando l’intervista uscì su Life, il 30 aprile 1971, era ormai stata superata dagli eventi e (forse) dal caso.
Era il 4 aprile del 1971 a Nagoya, in Giappone. Campionati del mondo di ping pong. Il giocatore americano Glen Cowan, un giovane hippy indisciplinato, aveva perso il pullman della sua squadra; stava partendo quello cinese e lui salì: non è mai stato chiarito se per errore, per provocazione o perché gli fosse stato offerto un passaggio. Comunque un gesto contro il protocollo, perché a quei tempi agli atleti di Pechino era vietato anche solo rivolgere la parola agli yankee capitalisti. Sul bus, però, c’era un giocatore cinese tanto amato nel suo Paese da potersi permettere un’infrazione ardita: Zhuang Zedong, tre volte campione del mondo, che aveva inventato un modo rivoluzionario di tenere la racchetta e quel giorno inventò anche la diplomazia del ping pong. Su quell’autobus era salita la storia, ma all’inizio fu il gelo. “Erano passati dieci minuti e nessuno della nostra squadra aveva osato guardare lo straniero in faccia. Ma io pensai che era solo uno sportivo, non un politico. Mi alzai, chiamai l’interprete e andai a salutarlo”, raccontò poi, in innumerevoli occasioni, Zhuang. Quello che il campione cinese disse all’avversario americano Cowan è entrato nella leggenda: “Anche se il governo degli Stati Uniti non è amichevole nei confronti della Cina, gli americani sono amici dei cinesi. Ti farò un regalo per provartelo”. Il cinese tirò fuori dalla borsa una sciarpa di seta con stampata un’immagine dei monti Huangshan, c’erano dei fotoreporter e l’istantanea finì sui giornali.
Si racconta che, vista la foto, Mao ordinò subito di invitare la squadra americana in Cina. Ma non andò esattamente così, perché anche il vecchio rivoluzionario era incerto sulla reazione delle masse cinesi. Le ore che portarono alla decisione furono raccontate anni dopo da Wu Xujun, infermiera-assistente del leader. Mao, che era già malato, prendeva sonniferi prima di mangiare. Le pillole erano così potenti che gli toglievano subito lucidità, perciò il Timoniere aveva disposto che “le sue parole, dopo aver preso i sonniferi, dovevano essere ignorate e dimenticate”. Alle 11 di quella notte del 4 aprile “si ridestò e parlò, biascicava le parole e mi ci volle tempo per capire, voleva che telefonassi a Zhou Enlai per fargli invitare i giocatori americani. Ero sbalordita e impaurita, gli chiesi se le sue parole contassero in quel momento, nonostante i suoi ordini riguardo i tranquillanti. Lui sembrò assopirsi di nuovo, ma dopo un poco aprì gli occhi e mi disse: “Piccola Wu, perché non fai quello che ti ho chiesto? E fai in fretta, altrimenti perderemo questa occasione”. La pallina ora era nel campo americano.
Dopo quello per gli sportivi, a Washington arrivò un messaggio di Zhou Enlai che offriva un incontro a un alto funzionario della casa Bianca. La scelta del negoziatore non fu pacifica. Nixon temeva che il consigliere gli potesse rubare la scena. Scartò il vicepresidente Nelson Rockfeller perché era un dilettante; George Bush, allora ambasciatore all’Onu, perché troppo debole e poco sofisticato. Alla fine, incaricando Kissinger, gli ordinò la massima segretezza, per evitare conflitti interni all’amministrazione e domande di consultazioni dagli alleati.
Il 1° luglio 1971 la delegazione americana partì per un lungo viaggio: “Scegliemmo di fare tappe snervanti e noiose in diverse capitali, da Saigon a Bangkok, New Delhi e infine Rawalpindi, per scoraggiare i giornalisti”, ha scritto nelle sue memorie Kissinger. Solo il generale dittatore del Pakistan, Yahya Khan, era al corrente del piano, perché godeva della fiducia di entrambe le parti e la sua collaborazione logistica era essenziale. La sera dell’8 luglio, durante un banchetto in Pakistan, Kissinger finse un malore, lasciò la sala, salì in auto e andò all’aeroporto. L’apparecchio pachistano lo aspettava sulla pista. A bordo c’erano quattro inviati cinesi; Kissinger aveva con sé tre giovani assistenti; i due agenti del Secret Service erano ignari della destinazione: “Quando videro i cinesi sull’aereo pensarono a un tentativo di rapimento, quasi gli venne un infarto”.
Nella fretta fu fatto un solo errore: la borsa ventiquattrore con la biancheria di ricambio di Kissinger restò nel bagagliaio dell’auto. Per scaricare la tensione del volo, un collaboratore gli disse: “Henry, non ti sei ancora seduto al tavolo con i cinesi e sei già senza camicia”. Raccontano che l’assistente John Holdridge gli diede una delle sue, fuori misura perché era 15 cm più alto, tanto da farlo sembrare un pinguino. E sul colletto c’era l’etichetta made in Taiwan. Un segno del destino.
Eccoli di fronte a Zhou Enlai. Seconda annotazione dell’incontro: “Il premier Zhou offre sigarette agli ospiti”. “Nessuno le vuole? Ho trovato una comitiva di non fumatori?”. Il plenipotenziario cinese era rilassato, in apparenza; Kissinger aveva fretta, perché contava solo su una finestra di 48 ore prima di dover ricomparire in Pakistan senza creare sospetti.
C’erano molte questioni da discutere. E qui entra in gioco la teoria della volpe e del riccio, evocata dallo storico Niall Ferguson. La volpe americana aveva molti obiettivi: il primo era organizzare la visita di Stato di Nixon a Pechino; poi ricevere garanzie cinesi per il disimpegno militare dal Vietnam; stabilizzare la Corea; mettere pressione sui sovietici; rallentare la corsa agli armamenti; chiudere la guerra d’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan. Zhou Enlai era un riccio, voleva parlare di Taiwan: “Per voi ha scarso valore strategico, per la Cina è una ferita aperta, se non risolviamo subito la questione, sarà inutile andare avanti”. Kissinger cercava di mantenere l’ambiguità: “Come studioso di storia posso prevedere che l’evoluzione politica andrà pacificamente verso la direzione che cercate…”. Zhou voleva risposte più nette. Alla fine l’americano accettò di riconoscere la Repubblica popolare cinese come unico governo legittimo della Cina, affidando Taiwan alla sua sorte “in un orizzonte temporale compatibile con le esigenze interne degli Stati Uniti”.
In seguito, Kissinger ha fatto due osservazioni in materia: “La diplomazia non deve essere sentimentale ma prevedibile” e “Pechino si è dimostrata estremamente flessibile sui tempi dell’applicazione del principio che esiste una sola Cina, i presidenti americani hanno abilmente perseguito una posizione di equilibrio, avvicinandosi alla Repubblica popolare e mantenendo le condizioni per lo sviluppo della democrazia a Taipei”. Ora Xi Jinping dice che la questione della riunificazione non può più essere lasciata alle generazioni future e da mesi gli aerei cinesi compiono sortite quotidiane intorno all’isola, in azioni che sembrano prove generali.
L’11 luglio del 1971 Kissinger tornò in segreto a Rawalpindi e parlando con i suoi compagni di viaggio diede prova di quella mancanza di sentimentalismo che predicava: “Yahya Khan non si è divertito tanto dall’ultimo massacro”, disse riferendosi alla strage di bengalesi compiuta dai pachistani.
Il 15 luglio fu annunciato l’accordo per la visita di Nixon a Pechino. Il 21 febbraio del 1972 Nixon incontrò Mao e il 28 febbraio dichiarò che c’è solo una Cina, brindando alla settimana che ha cambiato il mondo. La volpe si credeva vincitrice. 50 anni dopo, Xi Jinping annuncia che “l’Oriente è in ascesa e l’Occidente in declino”. Viene in mente un’ultima ammissione di Nixon, in un’intervista del 1994: “Volevamo aprire la Cina al mondo, mi chiedo se abbiamo creato un Frankenstein”.
Guido Santevecchi
Bibliografia: Henry Kissinger, “Cina”, Mondadori 2011; “Ordine mondiale”, Mondadori 2015. Gavin Menzies, “La Cina scopre l’America”, Carocci 2003. Graham Allison, “Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?”, Fazi 2018. Matteo Dian, “La Cina, gli Stati uniti e il futuro dell’ordine internazionale”, il Mulino.