La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “L’inferno di Roma”. “Chi cerca trova” 4 settembre 1835
“I popolani romani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie (sincere, non artificiali). Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlar loro ciò che può vedersi delle fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle degl’individui di ordini superiori? Perché non frenati i muscoli del volto all’immobilità comandata della civile educazione, si lasciano alla contrazione della passione che domina e dell’affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito che que’ corpi informa e determina. Così i volti divengono specchio dell’anima (…) E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere (vita comune, vita familiare, folklore) non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio (…) Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee”.
Sono chiare queste indicazioni che Belli aveva scritto nell’Introduzione alla sua opera sterminata (più di 2250 sonetti). La Roma papale, nella sua decrepitezza ma anche per la sua centralità universale, era diventata la sede, eterna, di tutti i mali e le ingiustizie del mondo, un luogo escluso dalla storia e dalle sue illusioni di progresso (le leopardiane magnifiche sorti e progressive). “C’è il senso cupo di un destino immodificabile che”, scrive Asor Rosa, “accomuna nella stessa visione pessimistica del mondo servi e signori, prelati e popolo. Solo un riferimento a un altro suddito marginale dello Stato pontificio, Leopardi, potrebbe far capire la qualità e l’altezza della poesia belliana”.
La plebe di Roma: lavandaie sempre partorienti, poverelli, gatti a pigione, gabelle, ciechi di mestiere, impiegati inetti, pellegrini “sfamati a cazzimperio e miserere”, artigiani facili alle coltellate, concubine tra gli angioloni delle chiese con le trombe in bocca. Erano plebe pagana e corrotta, una plebe eterna e indomabile, a spasso fin dalla nascita tra palazzi, chiese, sculture, piazze, sacre parate. La loro grevità plebea era da secoli immersa nella bellezza universale. Erano loro, in quella Roma del papa-re, il teatro più perfetto al mondo dell’ignoranza infima e malvagia, che però a volte diventava per osmosi saggezza sacra e pagana, pur in un quadro di abbandono e di morte. Alcuni critici hanno definito Belli “un poeta dantesco”. Ma bisognerebbe aggiungere che si fermò all’inferno: l’unico luogo cui si addicono il comico e il grottesco, il lazzo osceno e il pensiero malizioso. In queste poesie Roma appare come un avamposto dell’Oltretomba, attraversato da luci fosche, marcio fino al midollo, in grado però di ghermire il lettore con le sue bellezze vischiose e imprevedibili.
L’opera poetica di Belli si fonda sul magma costituito dalla vita e dai pensieri degli strati più informi della società romana, dominata dalle gerarchie ecclesiastiche, e si traduce in una grande impresa conoscitiva, compiuta attraverso il dialetto. Gli studi più recenti ne hanno giustamente rivalutato la grandezza e, soprattutto, ricostruendo l’itinerario intellettuale formativo del poeta, ne hanno mostrato la curiosità culturale, la conoscenza di tanta filosofia e letteratura europea, la tormentata e drammatica contraddittorietà interiore tra una visione nella sostanza illuministica e un sentire politico schiettamente reazionario.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
“Chi cerca trova” 4 settembre 1835
Se l’è vorzùta lui: dunque su’ danno.
Io me n’annavo in giù p’er fatto mio,
quann’ecco che l’incontro, e je fo: “Addio”.
Lui passa, e m’arisponne cojonanno. 4
Dico: “Evviva er cornuto”; e er zor Orlanno
(n’è testimonio tutto Borgo-Pio)
strilla: “Ah carogna, impara chi sò io”;
e torna indietro poi come un tiranno. 8
Come io lo vedde cor cortello in arto,
co la spuma a la bocca e l’occhi rossi
cùrreme addosso pe venì a l’assarto, 11
m’impostai cor un zercio e nun me mossi.
Je feci fà tre antri passi, e ar quarto
lo pres’in fronte, e je scrocchiorno l’ossi. 14
Se l’è voluta lui: dunque suo sia il danno. Io me n’andavo per la discesa per conto mio, quando ecco che l’incontro e gli dico: “Addio”. Lui passa e mi risponde prendendomi in giro, sfottendomi. Io dico: “Viva il cornuto”; e il signor Spaccone (ne è testimone tutto il Borgo Pio) strilla: “Ah carogna, impara chi sono io”; e torna indietro poi come un prepotente. Come io lo vidi col coltello in alto, con la schiuma alla bocca e gli occhi rossi, corrermi addosso per venire all’assalto, mi piazzai ben fermo con un sasso in mano e restai immobile. Gli feci fare altri tre passi e, al quarto, lo presi in fronte e gli scricchiolarono le ossa della testa.
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).
Le quartine. Il titolo deriva da un libro che il Belli conosceva molto bene, I promessi sposi, cap. IV, 175-178. Ludovico ha ucciso il cavaliere. C’è qualcuno che chiede (“Chi è stato ammazzato? –Quel prepotente. –Oh santa Maria, che sconquasso! -Chi cerca trova. –Una le paga tutte. –Ha finito anche lui”). Nel sonetto del nostro poeta il personaggio è un bullo di quartiere che racconta una sua impresa, cercando di dimostrare di essere dalla parte della ragione; in realtà c’è nelle sue parole un feroce compiacimento nel descrivere il proprio coraggio e la propria abilità. Chi racconta è il protagonista e rievoca l’episodio riportando il suo dialogo con questo “sor Orlanno”, un Golia infame e orribile quanto il suo assassino, che intenzionalmente vuole presentarsi con l’atteggiamento di un Davide. La tecnica narrativa è sapiente. Comincia addirittura dalla fine, dando per scontata nel lettore la conoscenza del fatto conclusivo. Segue una narrazione cronachistica, innocente sembra: “Io me n’annavo in giù pp’er fatto mio” (v. 2), una serie di battute rapide, parole misurate, versi ritmati e spezzati dalla punteggiatura, gesti precisi, quasi rituali, col gusto pungente del motteggio popolare e che non fanno presagire la fine drammatica. Il passaggio alle battute minacciose è rapido e improvviso, “Evviva er cornuto(…) Ah, carogna, impara chi ssò io” (vv. 4-7). Con una presenza scenica da “schizzato strafottente” c’è un attaccabottoni che non smette di esibirsi con sguardo torvo, con aria biliosa, gesti compulsivi, sorriso canagliesco.
Le terzine. La prima strofa ha dettagli e particolari carichi di violenza, “cor cortello in arto” (v. 9: senti l’arrotarsi delle “r” e delle “t”), “co la spuma a la bocca e l’occhi rossi” (v. 10), conclusi anche dal gioco della rima “arto – assarto”. Nell’ultimo verso la nota finale, “je scrocchiorno l’ossi”, il particolare fisico dello scricchiolìo delle ossa frantumate, amplificato magistralmente dall’onomatopea, con l’intreccio consonantico di c di r, di s per rendere il suono rabbrividente del cranio spezzato, esprime il compiacimento crudele e feroce della vittoria, il gusto del trionfo sanguinoso. E’ il demone della collera che sbuffa nelle viscere di ognuno. Questi sono personaggi brutali come lame di coltello. Lupi che inseguono lupi. Quello raccontato è solo un momento isolato di vita popolare: nulla sappiamo di ciò che è venuto prima né di ciò che seguirà. La vita di quel mondo si concentra tutta in quel solo attimo, violento e improvviso, che spezza la monotonia inerte della vita quotidiana di una città morta ma feroce nello stesso tempo. In quella Roma sembra quasi che l’incombere continuo della morte esalti la vitalità elementare della plebe. Nella rissa scompare lo scetticismo sarcastico e amaro del popolano. Nella città morta e immobile il plebeo ora ha una vita intensa ma irrazionale, animale, una fiammata che s’accende improvvisa e che subito si spegne. Non si ostenta più disincanto e cinica indifferenza ma la passione primitiva, ferina. Sembra che Belli li guardi muoversi i suoi personaggi, camminare, agire, sentire. Fa un passo indietro e racconta, o lascia che loro stessi, protagonisti e comprimari, si raccontino.
In un sonetto dall’evidente impianto teatrale la cronaca quotidiana racconta un’ordalia continua, in cui misurare il coraggio e nascondere la debolezza, la paura, insomma la complessità di ciascuno di noi. In realtà ogni agonista ha il suo antagonista che drammaticamente gli somiglia nelle sue fragilità. La solidarietà, ci rivela il poeta, è concetto inesistente e del tutto sconosciuto anche tra i ceti popolari. Con una scrittura asciutta, con un ritmo sincopato e incalzante, con uno stile fermo e distaccato, il giudizio che Belli esprime è severo: nessuna comprensione, nessuna pietà, nessuna esaltazione di un’eroica e coraggiosa abilità.
Due giorni dopo, il 6 settembre 1835, Belli così dipingeva la realtà politica romana dei suoi anni, dando voce alla vena reazionaria e forcaiola:
La cremenza minchiona
Ch’er Papa, co l’annà ttanto berbello
contr’a li giacubbini de la setta,
se possi conzervà Roma soggetta
ciò le mi’ gran difficoltà, fratello. 4
Eh ssi ffuss’io, pe quanto?, pe un’oretta
Governator de Roma e baricello,
vederebbe oggni suddito ribbello
cosa se chiama ar monno aspra vennetta. 8
‘Na brava manettata lesta lesta,
un processaccio, e, appena condannati,
sur carretto, eppoi subbito la testa. 11
E ppe incute a la setta ppiù ppavura,
doppo avelli accusì ghijottinati
je darebbe una bona impiccatura. 14
Che il Papa, che tratta così dolcemente la setta dei giacobini, possa mantenere Roma soggetta al suo potere ho le mie difficoltà ad ammetterlo, fratello. Ah, se fossi io, per quanto tempo?, per un’oretta Governatore di Roma e bargello, si accorgerebbe ogni suddito ribelle cosa può chiamarsi un’aspra vendetta. Una rapida e sicura messa in manette, un processaccio alla brava e, appena condannati, messi sul carretto e poi subito decapitati. E per incutere alla setta più paura, dopo averli così ghigliottinati, darei loro una buona impiccagione.
Gennaro Cucciniello