Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. 34° puntata. 21 Ottobre – 15 Novembre. “L’interminabile trafila delle esecuzioni. Un giudizio storico sui preti rivoluzionari giansenisti. Viene giustiziata larga parte della classe dirigente meridionale”.
Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.
Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.
Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.
“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”. In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.
Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.
Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.
Gennaro Cucciniello
21 Ottobre. Lunedì. Napoli. La Corte va per le spicce. “L’approvazione venuta da Palermo, sento che sia, per Cirillo, Pagano, e tutti gli altri. Venne anche da Palermo dispaccio ordinante che non occorreva farsi relazione, ove la pluralità dei voti fosse per la morte. Intanto domani saranno eseguiti i seguenti infelici, che sono degli ultimi condannati: sacerdote Giovanni Morgera, dannato ieri e dissacrato questa mattina, è di Procida – d. Giovanni Veronese – d. Luigi Bozzaotra: tutti alla forca. Riario, ragazzo di 19 anni. D. Onofrio Colace, che fa la compassione di tutta la città, perché non si puol dare uomo più da bene, più retto per cuore, più probo ed attaccato al Re, e d. Francesco Grimaldi: questi saranno decapitati. Il reato di Colace, per cui fu condannato a morte per tre voti, giacché De Fiore e Della Rossa furono di vita, si è l’aver segnata, essendo dell’alta Commissione sotto la Repubblica la sentenza di morte di quei insorgenti della Torre che andarono a saccheggiare l’eremo dei Camaldoli, ammazzarono il cellario e un altro Padre, vi presero le pissidi e i calici, ed obligarono gli altri Padri ad abbandonare l’eremo. Questi scellerati, che tuttora infamano la Torre, fan morire l’infelice Colace, perché arrestati alcuni, ne furono giudicati e condannati dall’alta Commissione. Altro episodio. Grimaldi, trasportandosi la notta scorsa dalle carceri del Castello del Carmine, ha tentato scappare da mezzo alla truppa, e gli è riuscito; ma raggiunto da un soldato di cavalleria e ferito con tre colpi di sciabola, è stato portato al suo destino. Si è intanto arrestato il capitano di quella pattuglia, e posto in carabozzo segreto, credendosi che avesse dato egli mano a tal fuga. Altre condanne. Ieri furono giudicati i seguenti dei quali, come ho detto, si eseguiranno domani: Morgera, Veronese, d. Francesco Bagni, forca; don Francesco Sacco, don Luigi Mirra relegati a vita; don Placido Spiciati, esiliato per anni sette e don Severio Chiuvena relegato per anni venti. Non è possibile che un cuore umano e sensibile possa reggere in mezzo a questa carneficina, sopra tutto quando si vedono condannati chi non lo merita, e si comincia a dubitare della rettitudine della Giunta. Si rivela un episodio. Dio lo perdoni a quei birbanti della Sala patriottica che si opposero alla Deputazione che si voleva mandare a Palermo, allorché partì da Napoli MagDonald coll’esercito francese: Ho io saputo con accerto quanto vengo a dire. Giuseppe Abbamonte propose che si dovesse fare una deputazione e mandare a Palermo a chiamare il Re, domandando un perdono universale, e lo propose facendo vedere che l’ideata repubblica era impossibile sostenersi senza forza, senza aiuto esterno, senza denaro, senza le provincie. Cirillo, Pagano, e qualche altro lo sostennero, e forse tutto il Legislativo ci divenne, ma saputosi dalla Sala patriottica, da quei scellerati stupidi e riscaldati patriotti, vi si opposero acremente, minacciando di massacrare l’intero Legislativo, per cui non ebbe effetto. In Palermo se n’erano avute le notizie, tanto che si tenne consiglio per risolvere che convenisse fare, e fu risoluto di ammettersi la domanda, solo escludersi dal perdono i capi cospiratori, e quelli che si trovavano ascritti al Glub di Francia; e pure a questi non si assegnava altra pena che quella dell’esilio” (De Nicola, pp. 426-7).
22 Ottobre. Martedì. Napoli. E’ impiccato don Gaetano Morgera, sacerdote. “Indegno Ministro dell’altare, per essere stato il più accanito repubblicano, per essere ascritto alla Sala patriottica, per avere vestiti abiti tricolori e cinta sciabola, per avere usate positive insolenze nel monastero dei frati della Villa di S. Giovanni di Teduccio con introdurre in esso donne, per avere sparlato ed insinuato agli altri a maledire il Governo delle Sacre Persone, per aver fatta seguire la carcerazione di D. Rosa Escobar nella chiesa di S. Giovanni a Teduccio, mentre vi era esposto il Venerabile, e per essersi finalmente armato con altri per resistere all’ingresso delle armi di V. M. verso la Barra” (Filiazioni dei rei di Stato, pp. 256-7).
E’ impiccato Giovanni Varanese, studente di medicina. “Per essere stato un accanito patriota della comitiva di Francesco bagni, per aver stabilito l’albero della libertà nell’Ospedale degli Incurabili, per aver ardito brugiare i ritratti delle Sacre Persone, per evere predicato sotto l’albero, per essere stato a parte di varie spedizioni per impedire e resistere all’ingresso delle armi di V. M.” (Filiazioni dei rei di Stato, 257).
E’ impiccato Luigi Bozzaotra.
E’ decapitato Giuseppe Riario, duca di Corleto, 19 anni. I suoi fratelli Giovanni, Luigi e Vincenzo sono condannati all’esilio.
E’ decapitato Francesco Grimaldi, 40 anni, figlio di Domenico, importante studioso illuminista calabrese. Divenne ufficiale dell’esercito borbonico. Durante la Repubblica fu nella Guardia nazionale aiutante-generale di Cassano-Serra e combatté nella legione comandata da Manthoné. “Era già condannato a morte; era stato trattenuto dopo la condanna più di un mese tra i ferri; finalmente l’ora fatale arriva: di notte, una compagnia di russi ed un’altra di soldati napoletani lo trasportano dalla custodia al luogo dell’esecuzione. Egli ha il coraggio di svincolarsi dalle guardie; si difende da tutti i soldati, si libera, si salva. La truppa lo insegue invano per quasi un miglio; né lo avrebbe al certo raggiunto se, invece di fuggire, non avesse creduto miglior consiglio nascondersi in una casa, di cui trovò la porta aperta. La notte era oscura e tempestosa; un lampo lo tradì e lo scoperse ad un soldato, che l’inseguiva da lontano. Fu raggiunto. Disarmò due soldati, si difese, né lo potettero prendere se non quando, per tante ferite, era già caduto semivivo” (Cuoco, p. 206).
E’ decapitato Onofrio Colace. “Prima delle passate vicende era stato impiegato in commissioni di confidenza, specialmente contro i giacobini. Nell’intrusione dei ribelli ha abbracciato la carica di ministro dell’alta Commissione Militare, ha consumato l’atto del suo Ministero repubblicano, non solo nella prima condanna, ma anche sino alla terza” (Filiazioni dei rei di Stato, p. 254).
23 Ottobre. Mercoledì. Napoli. E’ decapitato Francesco Federici, marchese di Pietrastornina, 60 anni. Aveva completato l’istruzione militare in Prussia e aveva combattutto valorosamente in Lombardia nel 1794 contro i Francesi. Nella Repubblica ebbe importanti incarichi militari e fece parte, insieme ad altri generali, della Commissione istituita il 26 febbraio per formare i nuovi quadri dell’esercito e guadagnare gli ufficiali regi alla causa rivoluzionaria. “era maresciallo in tempo del re; fu generale in tempo della repubblica. Il ministro di guerra Manthoné lo rese inutile, mentre avrebbe potuto esser utilissimo. La stessa ragione lo avea reso inutile in tempo del re. Egli sapeva profondamente l’arte della guerra; ma insieme coll’arte della guerra egli sapeva mille altre cose, che per lo più ignorano coloro che sanno l’arte della guerra. Il suo coraggio nel punto della morte fu sorprendente” (Cuoco, p. 209).
“La Giunta di Stato condanna Giacinto Dragonetti alla deportazione perpetua, Nicola Giannotti a 15 anni di deportazione, Giuseppe Celentano a 3 anni di esilio, Francesco De Angelis a 20 anni di esportazione –per riguardo all’età sua minore di anni 18-, Franco Sacco a perpetua deportazione, Luigi Mirra –autore di un Inno Patriottico- a perpetua deportazione, Saverio Chiurazzo –facchino- ad anni 10 di deportazione (per essere andato, tra l’altro, tutto giorno ad abbracciarsi l’albero della libertà, con espressioni offensive la Monarchia), Placido Spicciati ad anni 7 di deportazione” (Filiazioni dei rei di Stato, pp. 254-7).
24 Ottobre. Giovedì. Napoli. E’ impiccato D. Vincenzo Troisi, sacerdote, 51 anni. Dopo aver soggiornato in Toscana, dove si era legato al vescovo Scipione dei Ricci, i cui scritti filo-giansenisti diffuse e ristampò a Napoli, condannato dal Tribunale ecclesiastico di Firenze, tornò nel Regno. Nel 1788 divenne professore di diritto al Collegio dei nobili e fu poi docente di Storia della religione all’Università. Durante la repubblica fu moderatore della Sala Patriottica, membro della commissione dei sei ecclesiastici, presidente della Commissione ecclesiastica militare. Compose una “Missa pro salute rei publicae”. “Figli della patria! La vostra memoria è cara, perché è la memoria della virtù. Verrà, spero, quel giorno in cui, nel luogo nistesso nobilitato dal vostro martirio, la posterità, più giusta, vi potrà dare quelle lodi che ora sono costretto a chiudere nel profondo del cuore e, più felice, vi potrà elevare un monumento più durevole della debole mia voce” (Cuoco, p. 210). Questa è la motivazione della condanna: “Per essere stato due o tre giorni dopo l’invasione dei Francesi con biglietto di Roccaromana destinato al Monastero di Montevergine, e preso per sé l’appartamento dell’Abate; per essere stato quindi creato membro della Commissione Ecclesiastica, il di cui instituto fu il più terribile contro il Trono, cioè quello d’insinuare ad ogni forza armata le più ree massime repubblicane colla falsa religione; per essere stato destinato correttore degli Incurabili, per aver formata una lettera repubblicana, per aver ordinato alle monache di portar la nocca repubblicana, e proibendo ai preti di batterle, per aver predicato ai vari giovani destinati contro dei realisti servendosi della presente frase: “Estate fortis in bello”, e data loro la benedizione; per aver dato alle stampe una “Messa repubblicana”, ed una orazione “pro salute Republicae” (sic), che rimise a quel Governo di ribelli, ordinando ai preti degli Incurabili di recitarla” (Filiazioni dei rei di Stato, p. 258).
Un giudizio sui preti rivoluzionari giansenisti. “Ci fu un piccolo gruppo di patrioti sacerdoti che considerava la libertà repubblicana la più conforme allo spirito della Chiesa e che intendeva elevare il popolo politicamente e religiosamente. Errori politici, violazioni della libertà di coscienza, eresie vere e proprie dal punto di vista cattolico commisero costoro, ma essi vanno considerati, quali essi furono, uomini di fede, che al dilagare del razionalismo enciclopedista, al diffondersi dell’idea che libertà e religione fossero termini antitetici, vollero conciliare quei termini, e cristianamente morirono. Coinvolgere in unico aspro giudizio la memoria di costoro con frammassoni e con atei, ribelli, turba la nostra coscienza. Dei sacerdoti che parteciparono al governo della Repubblica non pochi erano amici dei giansenisti italiani. Dei sei membri della Commissione ecclesiastica, Troisi, Scotto, Cestari erano legati da amicizia epistolare con Scipione dei Ricci. Che fossero giansenisti, sia pure nei limiti entro cui restò il Ricci, non credo si possa, con sicurezza, affermare; essi aderirono al movimento ricciano più che per altro, per simpatia personale al Ricci, che lottava contro la Curia e che da essa era perseguitato. Essi si collegano sicuramente alla tradizione paesana giurisdizionalista per cui era facile il trapasso dalla lotta contro il predominio della Chiesa nello Stato, all’idea di una Chiesa al servizio dello Stato, monarchico prima, repubblicano poi. Si prestarono perciò ad essere strumenti di quelli per cui non esisteva un problema religioso-democratico, ma soprattutto un problema di polizia ecclesiastica, non riuscirono, nei loro fini di conciliare il popolo alla repubblica, furono complici di atti di violazione della libertà di coscienza e della Chiesa contro i quali il popolo si ribellava” (Rodolico, pp. 151-3).
25 Ottobre. Venerdì. Napoli. “La Giunta di Stato condanna il parroco Aniello De Luise, 75 anni, ad esportazione perpetua; il vescovo Bernardo della Torre a perpetua deportazione” (Filiazioni dei rei di Stato, pp. 259-60).
Si suicida in carcere Antonio Velasco, capitano di marina; durante la repubblica fu membro della Commissione militare inappellabile. “Io ti manderò a morte” –diceva Speziale a Velasco- “Tu?… Io morirò, ma tu non mi ci manderai”. Così dicendo, misura coll’occhio l’altezza di una finestra che era nella stanza del giudice, vi si slancia sotto i suoi occhi, e lascia lo scellerato sbalordito alla vista di tanto coraggio ed indispettito per aver perduto la vittima sua” (Cuoco, 205).
29 Ottobre. Martedì. Napoli. E’ impiccato Domenico Cirillo, 60 anni. Professore di Botanica all’Università di Napoli dal 1760 al 1766, quindi docente di Patologia medica, autore di numerose opere scientifiche che gli procurarono fama europea. Iscritto alla massoneria, nel ’99 rifiutò dapprima la carica di rappresentante del governo, entrò poi nella Commissione legislativa. La sua attività, animata da intenti filantropici, si esplicò nell’organizzazione di un sistema di assistenza sanitaria gratuita. “Era uno dei primi tra i medici di una città ove la medicina era benissimo intesa e coltivata; ma la medicina formava la minor parte delle sue cognizioni, e le sue cognizioni formavano la minor parte del suo merito. Chi può lodare abbastanza la sua morale? Dotato di molti beni di fortuna, con un nome superiore all’invidia, amico della tranquillità e della pace, senza veruna ambizione, Cirillo è uno di quei pochi, pochi sempre, pochi in ogni luogo, che in mezzo ad una rivoluzione non amano che il bene pubblico. Non è questo il più sublime elogio che si possa formare di un cittadino e di un uomo? Io era seco lui nelle carceri; Hamilton e lo stesso Nelson, ai quali avea più volte prestato i soccorsi della sua scienza, volevano salvarlo. Egli ricusò una grazia che gli sarebbe costata una viltà” (Cuoco, pp. 207-8). Un ricordo. “Basilio Puoti lesse la prima volta la Bibbia in quello stesso volume che fu letto dal Cirillo, dal Pagano, e da quegli altri sfortunati nella notte che precedette la loro morte. Lo ebbero da carlo Puoti, allora prete, destinato a dare gli ultimi conforti ai condannati dalla Giunta di Stato; ed il buon zio narrava a Basilio, allora giovanetto di 17 anni, la serena dignità di quegli uomini magni. Li ho trovati, ci diceva, intorno a una tavola che salmeggiavano: uno leggeva un versetto, gli altri traducevano in versi italiani: parlavano dell’anima nostra immortale, dicevano cose mirabili: li ho veduti morire come muoiono i santi. Quel volume è ancora in casa Puoti, io l’ho veduto, vi ho letto alcuni salmi, ho pianto su quelle pagine” (“Ricordi di Luigi Settembrini”, in Battaglini, pp. 135-6). Un elogio. “Scrive il Lomonaco nel suo “Rapporto”: “Cirillo fu sempre eguale a se stesso, sempre semplice, giusto ed umano, si sforzava di medicare le ferite e le piaghe dello Stato, nel medesimo tempo che non trascurava di frequentare gli ospedali e gli asili dell’indigenza” (Croce, “La rivoluzione del ‘99”, p. 257). “D. Cirillo, domandato dell’età, rispose 60 anni; della condizione, medico sotto il principato, rappresentante del popolo nella repubblica. Del qual vanto sdegnato il giudice Speciale, dileggiandolo disse: “E che sei in mia presenza?”. “In tua presenza, codardo, sono un eroe!”. Fu condannato a morire. La sua fama, e l’aver tante volte medicato il Re e i Reali, trattenevano l’iniquo adempimento della sentenza, nel qual tempo Hamilton e Nelson, facendogli dire nelle carceri che, se egli invocasse le grazie del re, le otterrebbe, quel magnanimo rispose aver perduto nello spoglio della casa tutti i lavori dell’ingegno, e nel ratto della sua nipote, donzella castissima, le dolcezze della famiglia e la durata del nome; che nessun bene lo invitava alla vita e che, aspettando quiete dopo la morte, nulla farebbe per fuggirla. E l’ebbe sulle forche. La plebe spettatrice fu muta e rispettosa; poi dicevano che il re, se non fosse stato sollecito il morir di Cirillo, gli avrebbe fatta grazia; ma quella voce menzognera e servile non ebbe durata né credito” (Colletta, p. 384).
E’ impiccato Mario Pagano, 51 anni. A Napoli era stato allievo di Genovesi. Titolare dal 1775 di Giurisprudenza Criminale all’Università, pubblicò nell’83 i “Saggi politici”, la sua opera più famosa. Avvocato dei poveri presso il Tribunale dell’ammiragliato e consolato di mare, partecipò, con il “Ragionamento sulla libertà del commercio del pesce in Napoli” (1789), al dibattito sull’abolizione delle istituzioni annonarie. Difensore dei giacobini nei processi del ’94, arrestato a sua volta nel ’96 e costretto all’esilio, si rifugiò nella Roma repubblicana, dove ottenne la cattedra di Diritto Pubblico. Durante la rivoluzione fu membro del governo provvisorio, presidente del Comitato di legislazione. Rilevante fu il suo contributo alla discussione della legge di abolizione della feudalità, alla riorganizzazione del sistema giudiziario, alla redazione del progetto di Costituzione. “Il suo nome vale un elogio. Il suo “Processo criminale” è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l’orme di Pagano, che vi possano servir di guida per raggiungere i voli di Vico” (Cuoco, 208). Le sue ultime ore. “Già la luce era scomparsa affatto dal nostro carcere, e i colloqui si rallentavano e il silenzio cresceva. Più funeste e paurose di tutte, come sapete, scorrevano a noi le ore della prima metà della notte, perché in quelle soleva decidersi della vita e supplizio d’alcun nostro compagno (…) Mi sento ancora tremare il core quand’io ricordo quel punto che l’uscio della prigione con istrepito e tumulto s’aprì, e i manigoldi vennero dentro, e l’un d’essi con aspetto feroce gridò: “Mario Pagano, il giudice ti domanda”. Lo spettabil vecchio né si commosse, né annebbiò minimamente la pace e mansuetudine del suo sembiante. Ma voltosi ai giustizieri, rispose: “Son nelle vostre mani e pronto e disposto da lungo tempo a quello a cui mi menate. Solo sostenete che io abbracci e saluti questi consorti carissimi di mia fortuna”. E così cominciò ad abbracciare noi tutti l’un dopo l’altro. Fermatosi poi davanti al sogliare dell’uscio, da noi affettuosamente prese commiato, e furono le sue parole quest’esse: “Amici e patriotti, addio. Di me non piangete, ch’io vo all’incontro della vita e della libertà, e il patibolo mi è più corta scala a salire fra gli immortali (…) Io non desidero vendicatori uscenti dalle nostre ossa perché non dubito in guisa alcuna del frutto copioso del sangue che noi versiamo. Forse più generazioni ancora si succederanno di vittime e di carnefici; ma l’Italia è sacra, e starà eterna”. Questo disse, e varcò la soglia fatale” (Una nota di Terenzio Mamiani, in Battaglini, pp. 137-8). “Mario Pagano solamente disse ch’egli credeva inutile ogni difesa; che, per continua malvagità di uomini e tirannia di governo, gli era odiosa la vita; che sperava pace dopo la morte” (Colletta, 384).
E’ impiccato Ignazio Ciaja, 37 anni. A Napoli, a contatto coi circoli giacobini, precisò la sua vocazione di poeta e completò la sua formazione politica. Arrestato per cospirazione nel 1795, fu liberato nel luglio del ’98. Fu membro del Governo provvisorio, segretario del Comitato dell’interno, membro della Commissione Esecutiva.
E’ impiccato Giorgio Pigliacelli, 58 anni, noto avvocato. Durante la rivoluzione fu membro della Commissione militare inappellabile istituita per giudicare con procedure eccezionali i delitti d’insurrezione e di lesa maestà del popolo. Nominato dall’Abrial ministro della Giustizia e di polizia ordinò, nell’ultima fase della repubblica, i severi provvedimenti contro gli allarmisti, gli emigrati e gli insorgenti. “Non è stato certamente l’ultimo degli avvocati napoletani in questi tempi. Era sottile nel sostenere gli articoli di legge, si esprimeva con nettezza, ed il suo perorare era senza impeto, senza declamazione, ma sodo e sistemato” (De Nicola, p. 439).
30 Ottobre. Mercoledì. Napoli. “La Giunta di Stato condanna Ignazio Turco a 15 anni di deportazione, Ferdinando Guerra alla deportazione perpetua, Michele Pierri alla deportazione perpetua, Vincenzo Pignatelli principe di Strongoli a 25 anni di esportazione, Gaetano Vaccarini ad esportazione perpetua, Giuseppe Cioffi ad esportazione perpetua” (Filiazione dei rei di Stato, pp. 260-4).
Calabria. “Grande fu l’eredità del 1799. Anzi, a voler seguire le diverse componenti del pensiero politico ottocentesco, riuscirebbe agevole segnare le numerose linee che legano i momenti essenziali del Risorgimento con la tragica esperienza rivoluzionaria della fine del ‘700. Di recente il Pieri, rifacendosi appunto al brigantaggio calabrese del “Decennio”, ha ricordato la notevole eco che ebbero i fatti di Calabria in Italia e nei paesi d’oltralpe: “Il piemontese Carlo Bianco, esule nel 1821, nel suo singolare trattato “Della guerra nazionale d’insurrezione per bande applicate all’Italia”, apparso nel 1830, ricordava che i Calabresi avevano svelato agli Spagnuoli il segreto di quanto possa una decisa volontà popolare. Ed il Mazzini vide nella Calabria la terra della rivoluzione per eccellenza, e ad essa pensarono i patrioti italiani nella ricerca delle grandi forze latenti nelle masse popolari, forze da eccitare e guidare alla santa impresa della rigenerazione italiana”. Ora, pur fermandosi a questo solo motivo, appare chiaro che le affermazioni del Pieri possono ritenersi valide anche per la reazione popolare del ’99; e per averne conferma, basta ricordare il Pisacane, il quale meditò a lungo sulla spedizione del Ruffo e volle darsi spiegazione delle profonde ragioni che avevano trasformato la marcia di riconquista in una vera e propria guerra sociale” (Cingari, pp. 304-5).
31 Ottobre. Giovedì. Napoli. E’ impiccato don Ignazio Falconieri, 44 anni, sacerdote. Professore di eloquenza e poi rettore al seminario di Nola. Durante la rivoluzione fu commissario organizzatore del dipartimento del Volturno ed ebbe come segretario il suo allievo Vincenzo Cuoco. Riconosciuto reo di aver scritto e diffuso sonetti contro i reali.
E’ impiccato Colombo Andreassi, avvocato aquilano. La motivazione della sentenza: “per aver vestito l’uniforme repubblicana col grado di sergente, sin dal momento ch’entrarono i Francesi in Napoli, poi da tenente, poi da capitano, per essere stato uno dei più fieri sparlatori contro le Sacre persone di V. M. e real famiglia; per essere stato ascritto alla Sala patriottica; per essere stato uno di quelli che servirono in S. Elmo” (Filiazione dei rei di Stato, p. 264).
E’ impiccato Raffaele Fossa, militare. La motivazione della sentenza: “artigliere di V. M., per essersi unito con altri tre nell’entrata dei Francesi sui balconi del Tribunale, armati di schioppo, e fatto fuoco contro quelli che combattevano pel Trono nell’entrata dei Francesi, con aver ammazzato il castagnaro V. Astarita, ed un artigliere che dava fuoco al cannone fuori porta Capuana, e per aver posto in ischerno, entrati che furono i Francesi, la carta del Re” (Filiazione dei rei di Stato, p. 262).
E’ decapitato padre Severo Caputo, frate olivetano. La motivazione della sentenza: “per essere stato in tempo dell’anarchia nelle unioni, in casa di Riario, con Zarillo, Bisceglia, Genzano e Strongoli, per essere andato in quel tempo acquistando fucili e mostrato grave dispiacere quando il popolo la prima volta respinse i Francesi; per essersi spogliato dell’abito religioso subito che entrarono i Francesi, andandoli incontro, ostentando straordinari segni di giubilo, per aver vestito uniforme repubblicana; per essere stato creato presidente del dipartimento del Vesuvio, per avere assistito in casa di Riario allorché fu cantato il Tedeum Calabrese per l’arrivo dei Francesi, per aver tenuto continue combriccole coi patrioti” (Filiazione dei rei di Stato, p. 263).
1 Novembre. Venerdì. “Furono le plebi di campagna e di città, furono le bande, che resero travagliata la vita della Repubblica napoletana, perché non si riuscì a domarle se non in alcune province e per breve tempo; e furono esse che, richiamate le truppe francesi sul teatro di guerra dell’alta Italia, ebbero vittoria sui repubblicani di Napoli, i quali non possedevano un esercito e potevano schierare solo alcune legioni di fresca formazione e poco esperte. Ed esse attorniarono il re e lo acclamarono e lo applaudirono nell’orrenda reazione cui egli dié mano contro tutti i giacobini, vecchi e recenti: una reazione che forse non ha pari nella storia, perché non mai come allora in Napoli si vide il monarca mandare alla morte e agli ergastoli o scacciare dal paese prelati, gentiluomini, generali, ammiragli, letterati, scienziati, poeti, filosofi, giuristi, nobili, tutto il fiore intellettuale e morale del paese: una reazione che suscitò vivissima impressione dappertutto in Europa perché parve un chiaro saggio di quel che l’Ancien régime avrebbe fatto in Francia e altrove, se mai avesse ottenuto il di sopra” (Croce, pp. 206-7).
9 Novembre. Sabato. Napoli. “La Giunta di Stato condanna Vincenzo Pignatelli Marsiconuovo e Rocco Lentini al carcere a vita nel castello di Favignana; Gaetano Tirone e Domenico Sansone ad anni 15 di esportazione, Vito Lauria a perpetua esportazione, Luigi L’Abadessa ad anni 10 di esilio, Casimiro De Alteriis ad anni 5 di esilio” (Filiazione dei rei di Stato, pp. 265-7).
E’ impiccato Giovanni Leonardo Palomba. La motivazione della sentenza: “era causidico, fu dai ribelli eletto uno dei rappresentanti del Governo repubblicano, e membro del Comitato di legislazione, fu uno dei giudici a dirimere la parità dei voti nella causa di sei individui di Casoria, rubricati di voci allarmanti e sollevazione di popolo, fu uno dei firmati alla Sala Patriottica. Fu elettore dei capi di legione e capi di battaglia, ed in altri fogli spiega il carattere attaccato alla Repubblica” (Filiazione dei rei di Stato”, p. 265).
11 Novembre. Lunedì. Napoli. “La Giunta di Stato condanna Antonio Buffo e il prete Gaetano Carcani all’ esportazione a vita, e il prete Gennaro Cestari a venti anni di esportazione” (Filiazione dei rei di Stato, pp. 268-9).
E’ impiccato Pasquale Baffi, 50 anni, titolare dal 1769 della cattedra di lingua greca e latina all’università di Salerno, insegnò anche al collegio della Nunziatella e fu bibliotecario dell’Accademia di scienze e belle lettere e della Reale Biblioteca di Napoli. Del suo valore scientifico nella filologia e nella diplomatica si servì più volte la monarchia borbonica contro le usurpazioni del potere ecclesiastico e della feudalità. Affiliato alle logge massoniche, aderì alla Repubblica e fu rappresentante del governo e presidente del Comitato di amministrazione interna. “A Baffi, già certo del suo destino, fu offerto dell’oppio. Egli lo ricusò; e, morendo, dimostrò che non l’avea ricusato per viltà. Era egli, al pari di Socrate, persuaso che l’uomo sia posto in questo mondo come un soldato in fazione e che sia delitto l’abbandonar la vita, non altrimenti che lo sarebbe l’abbandonare il posto” (Cuoco, pp. 205-6). “La moglie di Baffi raccomanda al giudice Speziale il marito. “Vostro marito non morrà” –gli diceva Speziale-; siate di buon animo: egli non avrà che l’esilio”. “Ma quando?”. “Al più presto”. Intanto scorsero molti giorni: non si avea nuova della causa di Baffi. La moglie ritorna da Speziale, il quale si scusa che non ancora avea, per altre occupazioni, potuto disbrigar la causa del marito; e la congeda confermandole le stesse speranze che altra volta le avea date. “Ma perché insultare questa povera infelice?” –gli disse allora uno che era presente al discorso… Baffi era stato già condannato a morte; ma la sentenza s’ignorava dalla moglie. Chi può descrivere la disperazione, i lamenti, le grida, i rimproveri di quella moglie infelice? Speziale con un freddo sorriso le dice: “Che affettuosa moglie! Ignora finanche il destino di suo marito. Questo appunto io voleva vedere. Ho capito: sei bella, sei giovine, vai cercando un altro marito. Addio” (Cuoco, 202-3).
13 Novembre. Mercoledì. Napoli. E’ impiccato don Francesco Guardati, frate benedettino.
16 Novembre. Sabato. Napoli. La Giunta di Stato condanna all’esilio perpetuo, con la confisca dei beni, Camillo Colangelo, 31 anni; i fratelli Francesco Pignatelli, principe di Strongoli, 24 anni, Diego Pignatelli, duca di Monteleone, Vincenzo Pignatelli, 22 anni; Vincenzo Porta, 47 anni, matematico; Giovanni Riario Sforza, duca di Corleto, coi fratelli Luigi e Vincenzo; Francesco Saverio Salfi, 40 anni, studioso; i fratelli Antonio e Nicola Vitaliani, membri di una famiglia che ebbe altri due figli uccisi per la causa repubblicana.
Nota bibliografica
- Cingari, “Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799”, Messina, 1957
- Colletta, “Storia del reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
- Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
- Croce, “Storia del regno di Napoli”, Laterza, Bari, 1972
- Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
- Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
“Filiazioni dei Rei di Stato condannati dalla Suprema Giunta etcc. ad essere asportati da’ Reali Dominij”, Napoli, 1800
- Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale”, Firenze, 1926