“Compagni”: parola antica che trapassa i secoli e non muta di significato.
Si sa, l’ideologia è forza motrice della storia e molto spesso le sue manifestazioni in politica cambiano l’uso delle parole. Con il termine “compagno” la mia generazione, o almeno una parte di essa, è vissuta e si è identificata con passione e dedizione. Per noi, in quegli anni Sessanta e Settanta del ‘900, l’impegno politico è stato lottare per un’idea di riforma profonda della società italiana, di riconfigurazione del paesaggio mentale della comunità civile, di messa in discussione –anche con utopismi- del modello economico e dei conformismi sociali. Nessun miracolo è gratis; lo è solo quello del paese dei balocchi. Studiare, perciò, la storia della cultura non è solo un vezzo da snob in convalescenza ma un modo per ricostruire la preistoria dei nostri pensieri, delle nostre domande e delle nostre risposte. E’ un viaggio dentro a noi stessi
Mi è venuta così la curiosità di scandagliare, a questo proposito, il “Grande Dizionario della lingua italiana”, a cura di Salvatore Battaglia, Utet, Torino, 1971, vol. III, pp. 385-7. Parto dalla prima definizione di “Compagno”: “Chi si trova a essere insieme con altri in circostanze particolari e per brevi periodi (in una riunione, in viaggio, in una passeggiata) o per consuetudine di vita; chi condivide lunghi periodi di tempo con altri per necessità di lavoro, di studio, di attività professionale, sportiva, militare: e implica l’idea di una corrispondenza, anche se temporanea, di costumi, interessi, solidarietà”. La ricognizione che segue ci conferma una bellissima peculiarità della nostra lingua italiana: fin dai suoi più antichi inizi letterari essa è già pienamente comprensibile ai lettori moderni, a differenza di tutte le altre grandi lingue europee, e di questo dobbiamo essere riconoscenti alla indiscutibile primazia toscana sulle altre regioni della penisola. I nostri scrittori sono stati italiani ai quali sarebbe piaciuto, alcuni non confessandolo, d’avere una patria in cui riconoscersi. L’unico loro comune denominatore era la lingua. Non era poco. La declinavano secondo gusto e stile individuali, aderendo anche e di necessità alle coordinate del tempo loro. Sono belli i versi di Milosz: “Saranno i poeti i tuoi bastioni,/ segno che l’unica patria è nella lingua”; e ancora: “Eh no, lettore, non abiti una rosa:/ questo paese ha i suoi pianeti e fiumi,/ ma è fragile come il lembo del mattino./ Lo ricreiamo noi giorno per giorno / stimando più ciò che è reale /di ciò che è irrigidito in nome e suono./ Al mondo lo strappiamo con la forza,/ troppa facilità non lo fa esistere./ Dì addio a ciò che è scomparso. Ne giunge ancora l’eco./ A noi tocca parlare in modo rozzo e aspro./ Lo Spirito della Storia si aggira sibilando”. Seppellire la memoria, e in particolare la memoria di una lingua, è più difficile che seppellire i corpi.
Scorriamo i secoli. Nel XIII secolo già Brunetto Latini usava la parola in questa accezione: “Compagno è quelli che per alcun patto si congiugne con un altro ad alcuna cosa fare” (“Rettor.”, 10-23). E nell’Ordine francescano: “Santo Francesco… giugnendo una sera, al tardi, a casa d’un grande e gentile uomo e potente, fu da lui ricevuto e albergato, egli e il compagno” (“Fioretti”, XXI-967). Sveliamo un legame interessante già con la politica di allora: “Con ciò fosse che un tiranno pensasse di costringere con tormenti un libero uomo a manifestare i compagni della contra lui fatta coniurazione, colui la lingua con morso si ricise, e nella faccia la gittò del tiranno crudele: e così i tormenti, che il tiranno materia di crudeltà riputava, il savio uomo gli fece materia di virtude” (Maestro Alberto, 68). E con una prima inserzione poetica: “Del compagno nol dico, ché ‘l mi serbo,/ ché troppo arrosserebbe ne la cera;/ in pasto il tegno e tuttavia lo nerbo,/ ché verrà or con via maggiore schiera” (Rustico, VI-1-129). Dal repertorio religioso traggo due interessanti note che sottolineano la condivisione di un destino: “Acusàl una femena e meselo a tenzone:/ “E quest’è galileo, de Cristo compagnone?” (Gherardo Patecchio, V-68-140); “Tragam for li ladruni, che sian soi compagnuni:/ de spine se coruni, ché rege s’ha chiamato” (Jacopone da Todi, 93-19). Mi piace, infine, fare un’inserzione che sta a metà tra lo scherzoso e l’ironico: la traggo da un’edizione Gallucci, Brancaleone il romanzo, di Age, Scarpelli e Monicelli, 2012, ben più di una sceneggiatura del film del 1966, frutto di un serio studio del nostro medioevo. I tre geniali uomini di cinema inventarono un indimenticabile grammelot, una lingua volgare tra Jacopone da Todi e reminiscenze antiche dei dialetti laziale, abruzzese, marchigiano, umbro, una lingua inventata ma probabile, colta e sgangherata, a cavallo tra il latino maccheronico e un’altra lingua che si stava formando, un po’ parodia un po’ realismo. Basti il coro degli straccioni pentiti in marcia verso la Terrasanta, guidati dal monaco Zenone (rivediamo subito gli occhi spiritati di Enrico M. Salerno e risentiamo la sua stridula voce in falsetto): “Sanza dinari / Sanza calzari / Soli con Deo /Sanza la lonza / Sanza patonza / Sanza bevanda / Sanza mutanda / Soli con Deo / Sanza pagnotta / Sanza canotta”. E il fulminante scambio di battute tra Brancaleone e il cadetto bizantino: “Cedete lo passo”; “Cedete lo passo tu!”.
Nel Trecento padre Dante scriveva così: “E delli Ebrei ch’al ber si mostrar molli, / per che no i volle Gedeon compagni, / quando ver Madian discese i colli” (“Purgatorio”, 24-125); sempre nella stessa cantica ma alludendo a una congiunzione astrale: “Non pur per ovra delle rote magne,/ che drizzan ciascun seme ad alcun fine / secondo che le stelle son compagne” ( Purgatorio, 30-111). E, infine, con una variante nel passo famosissimo del racconto di Ulisse: “Ma misi me per l’alto mare aperto / sol con un legno e con quella compagna / picciola da la qual non fui diserto” (“Inferno”, 26-100). E il Petrarca: “Povera e nuda vai, Filosofia, / dice la turba al vil guadagno intesa. / Pochi compagni avrai per l’altra via; / tanto ti prego più, gentile spirto, / non lassar la magnanima tua impresa” (7-12). E –a chiudere il trittico famoso- Boccaccio: “La mattina desinarono co’ loro parenti, compagni e amici” (“Decamerone”, I-Introduzione-53); e ancora, “Né più forte né più fido compagno di me puoi avere a così fatta cosa” (ibid, 5-1 (19)); “Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare” (ibid, 6-2 (106)). Consultiamo un passo meno conosciuto: “Colui che perse la figura umana / e venne cervo e lacerato fue / dai proprii cani, però che Diana / vide bagnar cun le compagne sue, / non ebbe pena sì grave e profonda / quanto sostegno sol per veder vue” (G. Quirini, IX-12). E il novelliere Sacchetti, con una punta arguta di simpatia per la fraternità animale: “Appena era il ferro entrato nella carne un’oncia, che il porco cominciò a gridare; l’altro che era sotto una scala, sentendo gridare il compagno, corre e dà tra’ calonaci di Torello. Come il ferito sente il compagno venuto alla riscossa, furiosamente dà un guizzo sì fatto, che caccia Torello in terra” (70-26). E lo storico Dino Compagni: “E col Nero Cambi che era compagno degli Spini in corte, … con grande stanzia pregavano il Papa” (1-23). Un altro importante storico fiorentino, Matteo Villani, dà alla parola il significato di membro di una compagnia, di un clan familiare: “Niccola Acciaiuoli…, essendo prima compagno della compagnia degli Acciaiuoli, con animo più cavalleresco che mercantile si mise al servigio dell’imperatrice” (3-9).
Nel Quattrocento ecco il Pulci: “Sappi che morto è quel dragon crudele,/ e liberato ho questo mio compagno,/ che meco or vien come amico fedele,/ ed aren fatto di lui buon guadagno” (4-22); “Rispose Orlando: “Baron giusto e pio,/ se questo buon voler terrai nel core,/ l’anima tua arà quel vero Iddio / che ci può sol gradir d’eterno onore;/ e se tu vorrai, sarai compagno mio / ed amerotti con perfetto amore” (1-44); e con una nota accrescitiva: “Ecco apparir col battaglio Morgante./ Carlo guardava questo compagnone, / e disse: -Mai non vidi un tal gigante-” (10-12); e con una vezzeggiativa: “Io ti promisi, o mio dilettissimo Laurenzio, che ritornando a me con le mie compagnuzze Muse, di loro e di me ti farai parte” (VI-49). Lorenzo de’ Medici: “Con quella confidenzia che sempre ho usata in V. S. m’è parso al presente mandarle Berlinghieri mio carissimo amico e compagno alla Arte della seta, perché in mio nome dica a V. S. alcune cose appartenenti a’ crediti nostri” (624). E da una predica di S. Bernardino da Siena dalla quale si evince l’arguzia e la modernità del nostro santo frate: “L’uno di costoro per sapere qualche cosa di lui dice: “Donde sei, compagnone?”. Elli risponde: “So’ da Milano, mi” (112).
Nel Cinquecento la galleria di citazioni è folta. Partiamo dalle novelle di Matteo M. Bandello: “Aveva tra gli altri Romeo un compagno al quale troppo altamente incresceva che quello senza speranza di conseguir guiderdone alcuno, dietro ad essa donna andasse perendo il tempo de la sua giovinezza col fior degli anni suoi” (2-9, I-729); “Ella, giunto a lei dinanzi il servidore, non volle né lettera né sparviero accettare. Solamente a bocca disse al messo: “Compagno, ne dirai al tuo signore che più non mi venga dinanzi, e che io sono assai chiara de’ casi suoi” (1-27, I-345). Arriviamo alla letteratura politica e storica. Machiavelli apre le notazioni con: “Ma se quello con il quale tu ti aderisci perde, tu sei ricevuto da lui; e mentre che può ti aiuta, e diventi compagno d’una fortuna che può resurgere” (I-73); “Fatto questo pensiero, a quell’ora deputata Francesco ne andò alle case del conte, e lasciati i compagni nelle prime stanze, arrivato alla camera dove il conte era, disse a uno suo cameriere che gli facesse intendere come gli voleva parlare” (I-974). Guicciardini, anche con il significato di unità militare e di corporazione di artigiani: “La guardia di questi luoghi era di Francesco Salamone con la compagnia sua, a chi aiutavano alcuni della terra” (56); “A dì 15 di marzo 1510 io fui eletto dalla compagnia de’ tessitori per loro avvocato in luogo di messer Francesco Gualterotti” (19); altrove nell’accezione normale: “Questo è el fine delle divisione e discordie civile: lo esterminio di una parte; el capo dell’altra diventa signore della città; e’ fautori ed aderenti sua, di compagni quasi sudditi” (188); e anche peggiorativa: “Appresso i capi della parte contraria al frate Savonarola, vedendo che molti giovani da bene, animosi, fieri, e in sull’arme, erano inimici di questo Frate, gli avevano ristretti insieme, e fattone una compagnia, chiamati i Compagnacci, di che era signore Doffo Apini” (2-3-167). Di questo si ricorderà più tardi Collodi nel suo capolavoro: “Bada Pinocchio! Quei tuoi compagnacci di scuola finiranno prima o poi col farti perdere l’amore allo studio” (111). Baldasar Castiglione: “Ma per niuna altra causa fanno (certi cortigiani) tante pecoragini, che per essere estimati bon compagni; questo è quel nome solo che lor pare degno di laude e del quale più che di niun altro essi si vantano” (247) Ed eccoci alla poesia: “Avea (il servo) da lato il can, fido compagno” (Ariosto, 8-4); “Sommamente ebbe Astolfo grata questa / compagna d’arme, e così Sansonetto” (Idem, 18-103). Tasso: “L’onor de la rotta d’Asdrubale fu di Livio Salinatore, percioch’egli trionfò, e Claudio Nerone, suo compagno nel consolato, seguì il trionfo” (II-II-75); “Musa, quale stagione e qual là fosse / stato di cose or tu mi reca a mente:/ qual’arme il grande imperator, quai posse / qual serva avesse e qual compagna gente” (17-3). Chiude il secolo Giordano Bruno, degnamente: “Era un tempo che il leone e l’asino erano compagni, ed andando insieme in pellegrinaggio, convennero che, al passar de fiumi, si tranassero a vicenna” (84).
Il Seicento è polimorfo. Ecco la poesia barocca: “Ne’ cristallini umori / tuffossi e volse che ‘l medesmo esempio / ciascuna parimente / de le compagne vergini seguisse” (Marino, 271). La poesia classicistica: “Del mio grave affanno / pur, sì come presente / n’avessi la cagione, io mi dolea;/ e dagli occhi piovea / calde lagrime spesse,/ compagne de’ martiri” (Chiabrera, 82); “Tosto che là, fra la compagna gente,/ a quella prigioniera alza la faccia” (Idem, 3-12-40). La prosa gesuitica: “Io abbassava gli occhi, e negava loro la presa di quel diletto, che sì gran fatica m’era costato il procacciarlomi, fin talora cercandone tutto un giorno. Tutto il fin qui recitato ebbe il confessore e compagno del santo p. Francesco da lui medesimo: e tale appunto è la memoria che ne distese in carta, raccontando quelle sue antiche ricreazioni” (Daniello Bartoli, 33-6); “Riusciranno meravigliose a sentire queste poche particelle tratte dall’Idrografia del padre Giorgio Fournier, che navigò gran tempo… acciocché la sperienza gli fosse compagna nello scriver che fece quanto, e di bello, e d’utile si comprende dal grande argomento ch’è la filosofia, e l’arte marinaresca” (Idem, 34-110). La prosa scientifica di Galileo: “Io non vorrei già, che Apelle annumerasse in questa schiera, come egli fa, i compagni di Giove (credo che voglia intender de’ quattro pianeti Medicei)” (925); “Si mostra desideroso di essere ascritto nella compagnia, e con grande istanza mi ha domandato la nota dei compagni e le costituzioni accademiche” (I-I-294). E di Magalotti: “Accomodato il primo termometro, si metta l’altro, ma talmente compagno che vada con esso a capello” (21-54). Gli scritti di viaggio: “Io, avendo vilmente sfuggito il naufragio, mi son riserbato a questa solitaria stanza, dove solo i miei gravi tormenti e le mie continue angosce mi saran compagni infino alla morte” (Marini, XXIV-796). Il teatro: “Quasi peregrin, ch’al far de l’alba / si consigli lasciar notturno albergo,/ fra le tenebre ancor s’adatta e veste / il duro piede e a l’incurve spalle / impone il picciol fascio, ove ravolte / porta le sue fortune, indi, ripresa / la sua compagna verga, solo attende / che s’apra l’oriente” (Fed. Della Valle, 226).
Nel Settecento c’imbattiamo da subito nell’esperienza arcade. “Siam del giusto custodi. Al giusto serve / chi compagni ci vuol, non serve a noi:/ ma la giustizia è tirannia per voi” (Metastasio, II-194); “Compagni dalla cuna / tu ci vedesti, e sai / che in ogni mia fortuna / seco finor provai / ogni piacer diviso,/ diviso ogni dolor” (Idem, II-121). E poi in un intelligente volgarizzatore della cultura scientifica dell’epoca: “Non da una pratica materiale venivano essi ciecamente guidati nei loro lavori; erano uomini ripuliti dall’educazione e dallo studio delle lettere, erano piuttosto compagni che servidori di que’ gran personaggi che valeansi dell’opera loro” (Algarotti, I-114); “Concorrono bene spesso ad operare il medesimo moto, e rigonfiano insieme più muscoli a un tratto, e compagni perciò si chiamano, ovvero congeneri; mentre quelli che sono i loro antagonisti, e servono per il moto contrario, appariscono flaccidi e molli” (Idem, I-53). Infine, in un grande illuminista: “Tali riflessioni sembran troppo metafisiche a chi non rifletterà essere utilissimo che le leggi procurino meno motivi di accordo che sia possibile tra i compagni di un delitto” (Beccaria, I-239). A cavallo del secolo: “Al suo signor sottrar l’antica schiava,/ qual di voi l’ardirebbe? –Io primo; e avrommi / compagni a ciò quanti qui son Romani” (Alfieri, XIII-33); “Per altra parte poi, l’avere io ritrovati non pochi di quei compagnoni d’adolescenza, i quali vedendomi ora venire per una via, di quanto potean più lontano mi scantonavano…, questo mi amareggiò non poco” (Idem, I-251).
L’Ottocento si apre con un Foscolo in versione militare: “Questa lettera vi sarà presentata da un uomo ch’io stimo assai assai, e ch’io lodo sempre. Ed alla stima si aggiunge l’amore, perch’egli fu mio compagnone quand’io cavalcava con scimitarra al fianco, e con grossi stivaloni che m’imprigionavano le gambe, e con una divisa che mi strozzava la gola” (XV-421); e in versione amorosa, concubinesca: “Io non l’ho amata; ma fosse compassione o riconoscenza per avere ella scelto me solo consolatore del suo stato, versandomi nel petto tutta la sua anima e i suoi errori e i suoi martiri – davvero ch’io l’avrei fatta volentieri compagna di tutta la mia vita. La sorte non ha voluto; meglio così, forse” (Idem, IV-297). Poi ci sono gli immensi. Manzoni: “Già le sacre parole son porte:/ o compagni sul letto di morte,/ o fratelli su libero suol” (41); “I due compagni di viaggio rimasero soli nella stanza” (Promessi sposi, 23, 393); “Fa chiamar fra Cristoforo, gli fa vedere l’obbedienza, gli dice che vada a prender la sporta, il bastone, il sudario e la cintura, e con quel padre compagno che gli presenta, si metta poi subito in viaggio” (ib, 19, 332); “Fra Cristoforo… andò da ultimo a prender la benedizione del guardiano, e col compagno prese la strada che gli era stata prescritta” (ib, 19, 332); “Intanto alcuni di que’ compagnoni s’eran rimessi a giocare, altri a mangiare, molti a gridare” (ib, 14, 251). Leopardi: “Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,/ da chiuso morbo combattuta e vinta,/ perivi, o tenerella. E non vedevi / il fior degli anni tuoi;/ non ti molceva il core / la dolce lode or delle negre chiome,/ or degli sguardi innamorati e schivi;/ né teco le compagne ai dì festivi / ragionavan d’amore” (21, 47); “E le ridenti piagge benedico:/ poiché voi, cittadine infauste mura,/ vidi e conobbi assai, là dove segue / odio al dolor compagno” (16, 13). Poi, in folla, tanti autori: “Ei non viveva che di studi, in mezzo ai giovani ai quali era compagno ed amico: con essi studiava, con essi passeggiava, con essi lavorava ai commenti dei molti classici che fece ristampare per diffondere la buona lingua” (Settembrini, 1, 58). “Il clero avverso al governo, nemico alla rivoluzione di Francia, indifferente agli affanni del re, ma compagno ne’ comuni pericoli” (Colletta, I-246). “Egualmente privati d’ogni relazione colle famiglie erano gli altri compagni di sventura” (Pellico, II-137). “I casi miei sarebbero ben poco importanti a raccontarsi, e le opinioni e i mutamenti e le conversioni non degne da essere studiate, se non si intralciassero nella storia di altri uomini che si trovarono meco sullo stesso sentiero, e coi quali fui temporaneamente compagno di viaggio per questo pellegrinaggio del mondo” (Nievo, 167). “L’esercito del regno d’Italia erasi fatto compagno di gloria all’esercito francese” (Cattaneo, III, 4-11). In un sonetto del Belli, “Er decane der cardinale” dell’8 marzo 1834: “Nun dubbità, farebbe un ber guadaggno / Su’ Eminenza a ssentì ttutta la gente,/ che, chi batte pe ssé chi pp’er compaggno,/ tutti ciànno da dì quarc’accidente”. “Cominciate le vostre feste, rivolgendo un pensiero di fratellanza ai vostri compagni e ai vostri colleghi delle altre due Università siciliane, che sono in ispirito con voi” (Pascoli, I-182); “Posò nelle mani alla cara compagna / il bambinello, e l’accolse sua madre nel grembo odoroso,/ con un sorriso di lagrime: e l’uomo la vide e compianse” (idem, 1346). “Il bambino agiato mangia il suo pane avanti il bambino povero. Come potrebbe egli credere che la metà del suo pane sia più dell’intiero? E sì: egli ne dà mezzo al scompagnino famelico: il mezzo che gli resta, per un miracolo ben semplice ma ben vero, lo sazia più” (idem, I-255). “Compagni miei, giuriamoci!/ E tu, gran vecchio, giùrati con noi./ Chi ci separerà dal cuor di Cristo?” (D’Annunzio, III-2-195).
Nel Novecento ci imbattiamo subito in un testo celebre: “Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio” (Ungaretti, I-34). Poi, a seguire: “Le mie compagne di quegli anni, ieri fanciulle in capelli, si vestivano curiosamente da donne, ed erano buffe le loro teste leggere sotto il peso dei cappelli che si erano imposte. Molti bottoni e cinture complicarono le loro vesti. Si erano chiuse; era finita” (Alvaro, 7-302). “Ma nell’infinito notturno fui più solo e senza difesa. Solo, col mio dolore, unico compagno, buon compagno, da reclinare la testa in lui e piangere” (Slataper, I-137). “Dio, perché così pallido e stravolto, quella notte? Bere, non beveva, o almeno dal fiato non si sentiva. Ma se fosse ricaduto in mano dei cattivi compagni che lo avevano rovinato, o fors’anche di peggiori?” (Pirandello, 7-201). “In quel momento un italiano faceva chiedere di lui. Il rivoluzionario non si stupì che il visitatore non desse un nome. Certo soltanto un compagno di fede e uno spiantato poteva venire a cercar di lui a Locarno” (Bacchelli, 2-21). “Ma l’odore di terra che giunge in città / non sa più di villani. E’ una lunga carezza / che fa chiudere gli occhi e pensare ai compagni / in prigione, alla lunga prigione che attende” (Pavese, 129). “E ancora la notte d’inverno,/ e la torre del borgo cupa coi suoi tonfi,/ e le nebbie che affondano il fiume,/ e le felci e le spine. O compagno,/ hai perduto il tuo cuore: la pianura / non ha più spazio per noi” (Quasimodo, I-47). “Quella sera egli fu il più allegro compagnone della mensa: ci si sentiva oramai padrone” (Deledda, III-404). “Era la donna da me prescelta, era perciò già mia ed io l’adornai di tutti i sogni…, perché essa doveva divenire oltre che la mia compagna anche la mia seconda madre che m’avrebbe addotto a una vita intera, virile, di lotta e di vittoria” (Svevo, 3-613). “Sarò la tua compagna, vuoi? La tua compagna fedele e umile, tanto umile, sai, che ti ascolterà in silenzio e ti consolerà con le sue carezze” (Moravia, IV-60). “E c’è un figlio che gira e sa stare da solo / e si sa divertire da solo. Ma guarda nei vetri,/ compiaciuto del modo che tiene a braccetto / la compagna. Gli piace, d’un gioco di muscoli,/ accostarsela mentre rilutta e baciarla sul collo” (Pavese, 100).
Tra Otto e Novecento, l’abbiamo già notato, la parola diventa l’appellativo col quale ufficialmente si chiamano tra loro gli aderenti ai partiti d’ispirazione o d’origine marxista. “Compagno”. Nome che fra loro si danno gli iscritti al partito socialista. “Compagno Lenin”. Per gli avversari al socialismo, è voce spesso usata con senso spregiativo” (Panzini, IV-151). “Messa in piedi con spese che spesso si dimostrano ogni giorno più ruinose, l’azienda è pronta a ospitare “i compagni”, che non si fanno aspettare” (Baldini, I-300). “Visto che sei qui, ti dicevamo se venivi una sera su in sezione a farci una conferenza… I compagni sarebbero contenti, sai” (Calvino, I-457).
Etimologia: latino medievale “companio-onis”: “colui che ha il pane (pani) in comune (com)”, calco sul gotico “gahlaiba”, da ga (com) e hlaib (pane) (Devoto-Oli, Le Monnier, Firenze, 1971, p. 530). Il contrasto interessante è con il termine analogo usato dai fascisti, camerata: dallo spagnolo “camarada”, collettivo di “camara” (camera); per metonimia, “gruppo di persone che è ospitato in un locale dormitorio, specialmente nei collegi e nelle caserme (ibidem, p. 366).
Mi piace concludere questa carrellata con le parole di Gesualdo Bufalino: “Ho immaginato che se fossi stato abbandonato in un’isola priva di tutto non avrei voluto altro libro che un dizionario. Tante sono le grida e le musiche che è possibile udire nelle sue viscere vertiginose”.
Suggerisco, infine, la lettura di un capitolo godibilissimo, “La storia e i significati della parola monello”, tratto da un libro fondamentale di Gian Carlo Folena, “Il linguaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale”, Bollati Boringhieri.
Gennaro Cucciniello