La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “L’Inferno romano”. “Chi vva la notte, vva a la morte”, 21 gennaio 1832
“I popolani romani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie (sincere, non artificiali). Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlar loro ciò che può vedersi delle fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle degl’individui di ordini superiori? Perché non frenati i muscoli del volto all’immobilità comandata della civile educazione, si lasciano alla contrazione della passione che domina e dell’affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito che que’ corpi informa e determina. Così i volti divengono specchio dell’anima (…) E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere (vita comune, vita familiare, folklore) non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio (…) Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee”.
Sono chiare queste indicazioni che Belli aveva scritto nell’Introduzione alla sua opera sterminata (più di 2250 sonetti). La Roma papale, nella sua decrepitezza ma anche per la sua centralità universale, era diventata la sede, eterna, di tutti i mali e le ingiustizie del mondo, un luogo escluso dalla storia e dalle sue illusioni di progresso (le leopardiane magnifiche sorti e progressive). “C’è il senso cupo di un destino immodificabile che”, scrive Asor Rosa, “accomuna nella stessa visione pessimistica del mondo servi e signori, prelati e popolo. Solo un riferimento a un altro suddito marginale dello Stato pontificio, Leopardi, potrebbe far capire la qualità e l’altezza della poesia belliana”.
La plebe di Roma: lavandaie sempre partorienti, poverelli, gatti a pigione, gabelle, ciechi di mestiere, impiegati inetti, pellegrini “sfamati a cazzimperio e miserere”, artigiani facili alle coltellate, concubine tra gli angioloni delle chiese con le trombe in bocca. Erano plebe pagana e corrotta, una plebe eterna e indomabile, a spasso fin dalla nascita tra palazzi, chiese, sculture, piazze, sacre parate. La loro grevità plebea era da secoli immersa nella bellezza universale. Erano loro, in quella Roma del papa-re, il teatro più perfetto al mondo dell’ignoranza infima e malvagia, che però a volte diventava per osmosi saggezza sacra e pagana, pur in un quadro di abbandono e di morte. Alcuni critici hanno definito Belli “un poeta dantesco”. Ma bisognerebbe aggiungere che si fermò all’inferno: l’unico luogo cui si addicono il comico e il grottesco, il lazzo osceno e il pensiero malizioso. In queste poesie Roma appare come un avamposto dell’Oltretomba, attraversato da luci fosche, marcio fino al midollo, in grado però di ghermire il lettore con le sue bellezze vischiose e imprevedibili.
L’opera poetica di Belli si fonda sul magma costituito dalla vita e dai pensieri degli strati più informi della società romana, dominata dalle gerarchie ecclesiastiche, e si traduce in una grande impresa conoscitiva, compiuta attraverso il dialetto. Gli studi più recenti ne hanno giustamente rivalutato la grandezza e, soprattutto, ricostruendo l’itinerario intellettuale formativo del poeta, ne hanno mostrato la curiosità culturale, la conoscenza di tanta filosofia e letteratura europea, la tormentata e drammatica contraddittorietà interiore tra una visione nella sostanza illuministica e un sentire politico schiettamente reazionario.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
“Chi vva la notte, vva a la morte” 21 gennaio 1832
Come sò lle disgrazie! Ecco l’istoria:
co cquell’infern’ uperto de nottata
me ne tornavo da Testa-spaccata
a ssett’ora indov’abbita Vittoria. 4
Come llì ppropio dar Palazzo Doria
sò ppe ssalì Ssanta Maria ‘nviolata,
sscivolo, e tte do un cristo de cascata,
e bbatto apparteddietro la momoria: 8
stavo pe tterra a ppiaggne a vvita mozza,
quanno c’una carrozza da signore
me passò accanto a ppasso de bbarrozza. 11
“Ferma”, strillò ar cucchiero un zervitore;
ma un voscino ch’esscì da la carrozza
je disse: “Avanti, alò; cchi mmore more”. 14
Chi cammina di notte per le strade di Roma rischia la morte
Come sono le disgrazie! Ecco, ora vi racconto la storia: in quella notte infernale di tempesta io tornavo dalla casa di Vittoria –in via di Testa-spaccata (vicino all’attuale piazza Venezia)- a sette ore di notte, dopo l’Ave Maria. Come proprio in quel punto, dal palazzo Doria sto per risalire Santa Maria in Via lata (era l’antico nome del Corso), scivolo e casco malamente battendo la testa nella parte di dietro: ero per terra e piangevo “a goccioloni” quando una carrozza signorile mi passò accanto lentamente, a passo di barroccio. “Ferma”, gridò al cocchiere un servitore; ma una vocina che uscì dalla carrozza gli disse: “Avanti, andiamo; chi muore muore”.
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).
Il racconto è drammatico ma il distacco del poeta è assicurato dall’andamento e dalla concisione della cronaca popolare (ecco l’istoria, v. 1, Belli si è trasformato in cronista impassibile di un avvenimento fosco ma del tutto quotidiano), e anche dall’essenzialità dell’azione, asciutta e scabra nella rapidità delle terzine, suggellate dalla chiusa tremenda di quella voce in falsetto (v. 14). Il ritmo delle quartine è più lento ma serve a preparare lo scenario, il fondale e non già ad indugi complici e compassionevoli; tanto che la descrizione della caduta è altrettanto rapida ed essenziale, senza fronzoli.
Il senso cupo di un destino immodificabile grava sulla scena ma le notazioni sono precisissime sia per la scansione temporale (definita dai ritmi della liturgia religiosa) sia per il disegno quasi topografico degli spazi tra il Corso e piazza Venezia. Mi affascina comunque l’idea che il nostro poeta stia lì, in un angolo, a guardare e a raccogliere il lamento di questo poveraccio, a farsi accanito indagatore di quella zona di confine che sta tra noi e la realtà, tra noi e la dimensione sociale, tra la vita individuale e il destino collettivo. Un realismo, il suo, originale e toccante, che fissa figure indelebili sulla tela della vita, storie anonime che chissà quante volte si sono ripetute nella distesa notturna di Roma. Mi ricordo di una lettera di M.me de Sévigné a M.me de Grignon, del 5 febbraio 1674, sull’arcivescovo di Reims che quasi schiaccia un poveretto con la sua carrozza a sei cavalli, e poi vorrebbe anche farlo bastonare.
Quanto al “voscino” del v. 13 ( “voce sottile, o di donna o di effeminato”, annota il Vigolo) ci si ricorda che le invenzioni linguistiche belliane sono affermazioni di un ordine mentale mai repressivo e chiuso ma sempre germinante e imprevedibile. Vocino sottile ma tanto più crudele e spietato.
Questi sono giorni di grande e febbrile creatività per il nostro poeta. Sempre il 21 gennaio 1832 ha scritto “Li soprani der monno vecchio” (v. la mia analisi) e il 20 gennaio “Er ricordo” (ibidem, la cronaca spietata e impassibile del suicidio di un povero prete francese).
Il 10 febbraio di questo stesso anno, a riprova della sua misoginia, ecco questo
“La vita de le donne”
La donna appena arriva ar rifriggerio
de godé li bbimestri o er bonifiscio,
incomincia a ccapì che ccos’è cciscio
e principia a ppeccà dde disiderio. 4
Po’ appena è bbona de sonà er zarterio
e dde fa ar maschio cuarche bbon uffiscio,
incomincia a rrubbà la carne ar miscio
e principia a ppeccà de cazzimperio. 8
Ma cquanno che ppe vvia der zona-sona
diventa un orto che gnisuno stabbia,
e ffa ttele de raggno a la ficona, 11
vedenno er ciscio nun tornà ppiù in gabbia,
se dà ppe ccorpo morto a la corona,
sin che in grazzia de ddio crepa de rabbia. 14
La donna appena arriva all’età delle mestruazioni incomincia a capire che cos’è l’uccello e inizia a peccare di desiderio. Poi, appena è capace di suonare il salterio e di compiacere il maschio, incomincia a rubare la carne al gatto e inizia a peccare di pinzimonio. Ma quando, passando gli anni, diventa un orto che nessuno coltiva e fa tele di ragno alla sua vagina, vedendo che l’uccello non torna più alla sua gabbia, si dà interamente alle preghiere, fino a quando in grazia di Dio muore di rabbia.
Gennaro Cucciniello