PD: quella scissione tra generazioni
Scrive con efficacia, nel suo editoriale di venerdì 17 febbraio 2017, il direttore di “Repubblica” Mario Calabresi: ”Non esiste un solo motivo razionale per spaccare il Pd. Sarebbe una scelta irresponsabile che la stragrande maggioranza degli elettori del più grande partito della famiglia socialista rimasto in Europa non comprende e non comprenderebbe. Viviamo tempi davvero difficili, in cui le democrazie e la coesione sociale sono sempre più fragili, tempi di polarizzazione e di barbarie, di muri, di paure e rabbia. Tempi che richiedono generosità, pazienza, capacità di alzare lo sguardo e coraggio. Il coraggio, prima di tutto, di mettere da parte gelosie, rancori antichi, calcoli di piccola bottega e ridicole prove di forza. Dividere un partito che governa città, regioni e che guida l’Italia significa soltanto una cosa: consegnare il Paese alla sfida tra una destra che non nasconde le sue pulsioni xenofobe e un movimento che cavalca qualunque malumore speculando sulla rabbia e sull’esasperazione”. E, alla fine, Calabresi attribuisce la responsabilità della rottura equamente a Renzi, Bersani e D’Alema.
Ma questa ricostruzione non è del tutto vera. Riandiamo con la memoria al Congresso del 2013. Tra gli iscritti Renzi ebbe il 45% dei voti, Cuperlo il 39%, Civati il 9%. Quando, però, si andò alle primarie tra gli elettori Renzi arrivò al 68%, Cuperlo prese il 18%, Civati il 14%. Gli elettori furono circa 2,8 milioni. Nelle contemporanee primarie per eleggere i dirigenti locali si assistette a brogli, risse, schede comprate e vendute. Qui sta l’origine di tutto lo psicodramma successivo. La dirigenza ex-diessina, che durante la segreteria Bersani aveva avuto il comando della “Ditta” e ne aveva costruito la struttura, si accorse bruscamente di aver perso il consenso di gran parte del corpo elettorale democratico, soprattutto nelle regioni rosse che erano state il bacino del voto comunista, regioni nelle quali le preferenze per Renzi superarono l’80%.
In questi tre anni di segreteria Renzi ha fatto diversi errori: si è illuso di poter modificare la situazione con la sola azione di governo, senza porre mano a una rifondazione profonda del partito e della più generale modalità dell’agire politico; ha sottovalutato l’esigenza di riunire intorno a sé le migliori energie intellettuali del Paese, anche e soprattutto quelle non cortigiane; non ha creato nel Pd uno spazio adeguato per l’elaborazione e la progettualità, per un vero confronto politico che scoraggiasse le correnti di potere (qualcuno dice “bande organizzate”) e favorisse invece le correnti di pensiero; si è lasciato andare talvolta ad arroganze troppo disinvolte; ha affrontato la riforma della scuola investendo una somma enorme ma non considerando con la dovuta attenzione sia il dorso corazzato dell’autoreferenzialità dei docenti sia la delicatezza e le contraddizioni della trasmissione dei processi di apprendimento, quindi –come afferma Fassino- “l’insofferenza della scuola alla riformabilità”.
Ma le responsabilità di D’Alema e di Bersani sono enormi di fronte alla storia della Sinistra riformista: hanno da subito, sfruttando i gruppi parlamentari usciti dalle elezioni del febbraio 2013 (segretario Bersani), costruito un partito nel partito; hanno inanellato una serie continua di ricatti, minacce, tattiche ostruzionistiche per sabotare in Parlamento le decisioni della maggioranza del Pd; non hanno votato la fiducia in cruciali momenti della vita del governo, contando sul fatto che la maggioranza necessitata (Pd + Alfano) non aveva i numeri sufficienti; hanno messo continuamente in discussione la pratica della democrazia come capacità di decidere. In realtà il Congresso del 2013 non è mai finito: la minoranza non ha accettato la sconfitta, non ha legittimato il vincitore, ha sabotato i tentativi di realizzare il suo programma, mentre avrebbe dovuto prepararsi –con lo studio teorico e con l’impegno nell’azione del partito- a vincere nella prossima sfida congressuale. Così il Pd è diventato un prisma composto da una serie di fazioni rivali in difetto cronico di reciproca fiducia; per di più, e questo mi ha impressionato, la minoranza ha avanzato tantissime critiche ma mai si è interrogata su quanto le sue proposte fossero seriamente praticabili nella dialettica dei rapporti di forza in Parlamento. Il problema, come sempre in politica, risiede nelle alternative.
I riformisti, di solito, sono coloro le cui dichiarazioni sono atti che racchiudono un impegno concreto e duraturo di realizzazione. Si ricordino i compagni di una delle ultime frasi del “Manifesto del Partito Comunista” di Marx e Engels: “I comunisti operano per l’unione e l’intesa dei partiti democratici di tutti i Paesi”. Qualcuno ha scritto, Polito mi sembra sul “Corriere della sera”, che si sta preparando “l’esplosione di ogni residuo centro di mediazione, in una frammentazione di stampo weimariano”, ma cosa ci si aspettava da una vittoria del No al referendum costituzionale, un No sostenuto da un fronte così eterogeneo e variamente etero diretto? La bella riforma in sei mesi di D’Alema? No. Avremo il movimento convulso e suicida delle Cinque Sinistre. Si vedranno cose che voi umani, come nel film “Blade Runner”.
In questo articolo Massimo Recalcati affronta il tema doloroso della scissione dall’angolazione psicoanalitica e suggerisce spunti interessanti di riflessione.
Gennaro Cucciniello
Una settimana fa il priore di Bose Enzo Bianchi ha comunicato ai suoi fratelli la decisione di lasciare la guida della comunità che ha fondato e diretto in tutti questi anni. L’ha resa pubblica con una lettera che si apre con una citazione del commento di Agostino al Salmo 41: “Si dice che i cervi quando camminano nella loro mandria appoggiano ciascuno il capo su quello di un altro. Solo uno, quello che precede, tiene alto senza sostegno il suo capo e non lo posa su quello di un altro. Ma quando chi porta il peso è affaticato, lascia il primo posto e un altro gli succede”.
In questa immagine dobbiamo leggere quell’avvicendamento necessario che garantisce la trasmissione dell’eredità nelle generazioni a venire. Enzo Bianchi lascia la testa della fila dei cervi per appoggiare il proprio capo stanco sulla schiena del cervo che chiude la fila. In gioco è un’interpretazione efficace dell’eredità: non si abbandona la comunità, non si esce dal branco, né, tanto meno, si agisce contro di esso, non si minacciano scissioni, ma si decide che è semplicemente venuto il momento del proprio ritiro. Nietzsche ricordava che questa è la saggezza più grande nell’uomo: saper tramontare nel tempo giusto.
Da tempo sostengo che uno dei mali della politica italiana è l’assenza di una giusta interpretazione dell’eredità. Basta guardarsi attorno: in quel che resta della Destra abbiamo la sagoma rediviva di Berlusconi che, anziché sfilarsi dal suo ruolo di leader, lo ripropone incessantemente come sola condizione di aggregazione di un campo ormai sfilacciato, politicamente moribondo ed elettoralmente drasticamente rimpicciolito. Nessuno dopo di lui. Nessun erede, nessun figlio legittimo, nessun discendente. I figli che hanno rivendicato una loro autonomia –come Alfano o Fitto- se ne sono dovuti andare. Nella Destra più estrema sembra che più che un passaggio di testimone si sia compiuto un parricidio: Bossi è innominabile, forse rancoroso nel suo isolamento, in ogni caso senza parola, fuori scena.
Ma è il movimento grillino a mettere più in evidenza la difficoltà della trasmissione simbolica dell’eredità: il vecchio leader non solo esige di vegliare costantemente sui suoi figli, ma impone loro veri e propri contratti che riducono la loro libertà d’azione trasfigurando quella dipendenza in una vera e propria catena. Per questa ragione quando il dissenso verso il capo si manifesta democraticamente la sola possibilità è quella della scissione. Avviene anche in quelle famiglie dove la voce del padre-padrone vorrebbe dettare sempre la Legge: la sola possibilità di crescita per i figli è quella della separazione.
Il caso più interessante resta ovviamente quello del Pd. La salita sulla scena di Matteo Renzi ha squadernato tutte le difficoltà della Sinistra italiana nell’interpretare efficacemente la trasmissione dell’eredità. Il conflitto con Bersani non fu e non è solo un conflitto sui contenuti, ma un conflitto generazionale. L’alleanza tra Bersani e D’Alema –due illustri padri del Pd- contro il loro stesso partito durante la recente campagna referendaria non ha precedenti nella storia della Sinistra italiana.
Renzi ha commesso diversi errori (due macroscopici tra tutti: sulla scuola è andato troppo rapido, non ha ascoltato come avrebbe dovuto le rappresentanze di quel mondo; sul referendum non ha colto, come lui stesso ha ammesso, la sua politicizzazione incombente), ma è indubbio che la sua apparizione sulla scena politica italiana è stata un’irruzione di vitalità in un campo mortificato. Egli non ha voluto lasciare al solo Grillo l’idea benefica e necessaria di un rinnovamento delle nostre classi dirigenti. Per questa ragione è il solo nemico veramente temuto dai Cinque Stelle. Non a caso nei suoi rari discorsi post-referendum Renzi ha giustamente avvertito che gran parte della sconfitta elettorale e del destino del Pd riguarda il rapporto con le giovani generazioni che gli hanno fatto mancare il loro sostegno. In questo contesto D’Alema minaccia la scissione. Qui non si tratta di cervi. La marginalità personale appare, come per Berlusconi, insopportabile. Non c’è alcun pensiero sulla necessità vitale di lasciare spazio ad energie nuove, compiere un passo indietro, arretrare. Tutti questi sembrano gesti inaccessibili.
La minaccia di scissione, quando avviene tra rappresentanti di generazioni differenti, segnala sempre una difficoltà: il passaggio all’atto della scissione mostra un difetto simbolico della trasmissione. In altri termini: la scissione agisce di fatto contro ciò che la trasmissione dovrebbe invece simbolizzare, ovvero l’avvicendamento tra le generazioni. Mentre per Pizzarotti e altri dissidenti dei Cinque Stelle il solo modo per sopravvivere politicamente è quello di andarsene o di essere cacciati, nel caso della Sinistra è il vecchio padre che anziché poggiare la sua testa stanca sul cervo che chiude la fila, minaccia di lasciare il branco. Sono due facce della stessa medaglia.
Massimo Recalcati
Articolo pubblicato in “Repubblica”, venerdì 3 febbraio 2017, p. 33