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G. G. Belli, Le donne romane. “Le crature”, 26 dicembre 1834
Le donne occupano quasi metà della vastissima opera di Belli: tipi, personaggi, caratteri pieni di una vivacità, di una umanità straordinarie. Si nota infatti che, mentre nei protagonisti maschili è più intensa la carica di amarezza e di ribellione, nei confronti delle donne tratteggiate nei Sonetti si evidenzia la fondamentale “pietà” del poeta, la sua partecipazione profonda e più struggente e la sua meditazione sull’uguale destino di oppressione, di prevaricazione, di ingiustizia che le accomuna, quale che sia la loro classe di appartenenza. Esse, le donne, condividono con tutti i poveri fragilità e mali ma, in più, sono prevalentemente brutalizzate dalla loro rozza riduzione a “sesso”.
Ma qualcuno ha fatto notare che la figura della donna, anche della madre, è spesso villana, feroce, carica di violenza; il loro linguaggio è crudo, diretto. E’ vero. Ma da questo si può dedurre non solo lo sforzo della rappresentazione veritiera e priva di qualsiasi velo ipocrita da parte del poeta, ma anche e soprattutto l’intuito che lo spinge a cogliere nella sfrenatezza e nell’eccesso della parola la fondamentale debolezza della condizione femminile, l’impossibilità delle donne di adoperare una vera forza e, dunque, lo stravolgimento violento di chi si sa vinto e conosce, nell’inutilità brutale del proprio linguaggio, una ribellione senza speranza. Questo spiega anche, secondo me, l’ossessiva presenza del sesso che caratterizza questi personaggi femminili. Gli attributi sessuali, in un linguaggio duro concreto senza eufemismi, testimoniano di questa unica identità della donna, identità consapevole fino alla brutalizzazione di sé. Dai sonetti (“La puttana abbruciata, Li fiori de Nina”) in cui inutilmente le donne lamentano che la colpa del “contagio, del mal francese” ricada sempre su di loro a tutta una serie di prostitute che testimoniano, con la loro affollata presenza in città “er primo gusto der monno”, la rozzezza del desiderio maschile (favorito a Roma da un governo che sa di dover compiacere a frotte di pellegrini e a migliaia di prelati sfaccendati e danarosi), fino al commovente ingenuo tentativo delle prostitute di salvarsi, di ritrovare una loro dignità, nella capacità di rispettare una regola, interrompendo il mestiere per “annà a le quarantora”, o tenendo fede al voto fatto “a la Madonna de l’Archetto”, o perfino concedendosi gratis in suffragio di quell’anime sante e benedette. Una pietas, quella di Belli, nei confronti delle donne, che si intravede infine, attraverso la condizione degradata delle loro persone a solo oggetto del desiderio sessuale maschile, nell’orrore con cui viene descritta la loro vecchiaia: “Viè a vedé le bellezze de mi’ nonna./ Ha du’ parmi de pelle sott’ar gozzo:/ è sbrozzolosa come un maritozzo;/ e trìttica più peggio d’una fronna…/ Bracc’ e gamme so’ stecche de ventajo;/ la voce pare un son de raganella;/ le zinne, borse da colacce er quajo./ Be’, mi’ nonna da giovane era bella…”. Qualcuno ha suggerito che la poesia scritta dalle donne nel tempo nostro “parla veloce”. Io preferisco ricordare un verso di Sandro Penna: “Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà”.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
Gennaro Cucciniello
“Le crature” 26 dicembre 1834
Voi sentite una madre. Ammalappena
la cratura c’ha ffatta ha quarche giorno,
già è la prima cratura der contorno,
e ssi je dite che nun è, ve mena. 4
Conosce tutti, dice tutto, è ppiena
d’un talento sfonnato, è ffatta ar torno,
va quasi sola, è ttosta come un corno,
e ttant’antri prodiggi ch’è una scena. 8
E sta prodezza poi sarà un scimmiotto,
tonto, moscio, allupato, piaggnolone
pien de bava e lattime e cacca-sotto. 11
A le madre, se sa, li strilli e ‘r piaggne
je pareno ronnò de Tordinone,
le madre ar monno so ttutte compaggne. 14
Le creature
Voi state ad ascoltare una mamma. Appena il suo piccolo bambino ha trascorso qualche giorno dalla nascita, per lei già è la prima creatura del vicinato, e se le dite che non è vero, vi picchia. Già conosce tutti, già parla benissimo, è piena di talenti, è ben tornita, già cammina da sola, è forte e tosta, e fa tante altre cose che è una scena teatrale. Poi va a finire che questo miracolo di natura poi diventerà uno scimmiotto, stupido, moscio, famelico, piagnucoloso, bavoso e cacasotto. Alle madri, si sa, gli strilli e i pianti dei figli sembrano arie di bravura dei cantanti d’opera. Al mondo le madri sono tutte compagne.
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).
Le quartine. M’immagino il nostro poeta, cronista girandolone e commentatore saputo, soffermarsi nell’angolo d’una piazza e parlare con un gruppetto di amici. Vuole condividere con loro la sua opinione sulle mamme romane e lo fa con una sortita teatrale: “Voi sentite una madre”. L’uditorio si sintonizza sull’ascolto e Belli sciorina la parlata senza interruzioni della madre orgogliosa, con le giuste sottolineature e le argute notazioni umoristiche. Fate caso alla rima in A: i versi “ammalappena / la cratura” (vv. 1-2), “è ppiena / d’un talento sfonnato” (vv. 5-6), con l’enjambement che enfatizza il racconto, si smorzano e si chiudono con modi spicci nel “ve mena” (v. 4) e “ch’è una scena” (v. 8). C’è la consapevolezza di creare un gioco di fari incrociati. E’ una storia intensa di ordinaria quotidianità, quasi un girotondo pensoso e divertito, con l’ansia leggera del poeta-narratore e affabulatore di essere uno di loro, mescolato ai suoi ascoltatori.
Le terzine. I sogni mirabolanti dell’orgoglio materno si trasformano, nel ghigno sarcastico e amaro del popolano chiacchierone, in una previsione cinica. E’ il cinismo e il disincanto di chi ha imparato con l’esperienza che la vita non fa sconti a nessuno, in special modo ai poveracci. E sempre la rima sottolinea la curva del commento: “e sta prodezza poi sarà un scimmiotto” (v. 9) – “pien de bava e lattime e cacca-sotto” (v. 11). La nota finale riprende un proverbio popolare napoletano: “anche ‘nu scarrafone è bello ‘a mamma sua”; il verso belliano è più musicale, “a le madre, se sa, li strilli e ‘r piaggne / je pareno ronnò de Tordinone”. Ma è insuperabile, per finezza e bellezza, la chiusa: “le madre ar monno so ttutte compaggne”. Quella Roma che tante volte, nei sonetti, è immaginata come una Babele violenta ed efferata, un autentico regno del caos, una commistione eterna di sacro e profano, la bocca del regno dei morti, qui –d’incanto- si trasforma in un paesaggio di vita, di fecondità, di fraternità, tutto al femminile. E anche la strofa, prima esitante, diventa poi più cantabile e simmetrica.
In questo stesso giorno, 26 dicembre 1834, Belli scrive quello splendido sonetto intitolato “Er ferraro”, un’autentica ode al lavoro manuale e al sacrificio di un povero artigiano romano (v. la mia analisi nella sezione “Belli. I lavoratori”). Poi, sempre in questa giornata, scrive:
“L’abbito nun fa er monico”
L’abbito nun fa er monico? Eh, se vede!
Provete intanto una sorvorta sola
de presentatte ar Papa in camiciola,
e ppoi sappime a dì come t’aggnede. 4
Senza er landàvo sai che tte succede?
Che ssi tt’hanno da dì mezza parola
pare, per dio, che je s’intorzi in gola;
e quanno parli tu nun te se crede. 8
Hai tempo, fijo caro, d’arà dritto
e d’èsse galantomo immezzo ar core:
tristo in ner monno chi sse mostra guitto. 11
Qua er merito se taja dar zartore.
Qua la vertù in giacchetta è un gran dilitto.
Una farda ppiù o meno, ecco l’onore.
L’abito non fa il monaco
L’abito non fa il monaco? Eh, si vede! Tu prova intanto anche solo una volta a presentarti davanti al Papa in giacchetta da popolano, e poi mi saprai dire come t’andò. Senza il landeau (i popolani romani chiamavano così –col nome di questo cocchio- l’abito da cittadino) sai che ti succede? Che se devono dirti mezza parola sembra, per dio, che gli s’intoppi in gola; e quando parli tu non ti si crede. Hai voglia, figlio caro, di comportarti correttamente e di essere galantuomo nell’intimo del tuo cuore: è infelice nel mondo chi si mostra misero. In questa città il merito si taglia e cuce dal sarto. Qui la virtù, indossata con un abito misero e succinto, è un gran delitto. Una falda in più, una falda in meno, ecco dove sta l’onore. E poi dicono che l’abito non fa il monaco.
Gennaro Cucciniello