La carta non è morta. Regge il confronto con il digitale.

La carta non è morta. Regge il confronto col digitale.

 

L’articolo, scritto da Giuliano Aluffi, è stato pubblicato ne “Il Venerdì di Repubblica”, 22 aprile 2016, pp. 69-70.

 

“Le notizie sulla mia morte sono fortemente esagerate” disse Mark Twain quando un quotidiano, per una svista, pubblicò un suo prematuro “coccodrillo”. Forse oggi si può dire lo stesso per la carta: non solo non è stata uccisa dal digitale ma è in ripresa. Il dato più significativo viene dagli USA: nel 2015 le vendite dei libri sono cresciute del 12,4%; quelle degli e-book sono invece calate del 12,3%. C’è stata quindi un’inversione di tendenza rispetto al periodo compreso tra il 2008 e il 2010, quando, sempre negli Stati Uniti, le vendite di e-book erano salite del 1260%, facendo tremare gli editori.

La buona salute della carta stampata si vede anche da un altro dettaglio: Penguin Random House, Hachette e Simon & Schuster stanno costruendo nuovi magazzini, o allargando quelli esistenti, per i loro volumi. E’ vero, 400 milioni di tonnellate di carta prodotte nel mondo ogni anno sono davvero troppe per il nostro fragile Pianeta, ma a ridurre il taglio degli alberi non devono essere necessariamente gli e-book. Sono possibili altre misure, anche drastiche: nello Stato di New York, per esempio, da inizio aprile i medici non possono più usare la carta per prescrivere i farmaci, con pene pecuniarie severissime per chi contravviene.

Anche negli uffici però la carta sembra oggi riconquistare spazio grazie al “mobile printing”, le applicazioni che facilitano l’invio di documenti da smartphone alle stampanti, sempre più evolute. E sondaggi recenti suggeriscono che gli impiegati europei amino più i report cartacei che quelli digitali.

Sembra del resto che la carta aiuti a lavorare e a studiare meglio. Secondo gli scienziati che in questi anni l’hanno messa a confronto con il digitale riguardo a comprensione e memorizzazione di un testo, il vantaggio cognitivo della carta è proprio la sua fisicità.

La neuro scienziata Maryanne Wolf, docente alla Tufts University e autrice di “Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge” (2012), in una recente intervista alla BBC ha sostenuto che, in una scala che va dalla massima distrazione alla massima concentrazione, la lettura su monitor coincide con l’estremo della distrazione, quella sulla carta con l’estremo opposto e l’e-book sta nel mezzo.

Forse questo dipende anche dal fatto che concentrarsi nella lettura di un testo su monitor è molto più faticoso “fisicamente”: la luminosità dello schermo e l’angolo di lettura diverso da quello che abbiamo con i libri, infatti, ci costringono a chiudere le palpebre con meno frequenza (0,4 volte al secondo contro le 0,6 volte per la carta) e ciò secca di più gli occhi, come mostra uno studio del 2013 di ricercatori dell’Université Paris 6. E poi c’è una questione biologica. Scrivere, e quindi leggere, sono attività recentissime nel cammino evolutivo umano: non abbiamo strutture genetiche dedicate alla lettura e possiamo solo usare una capacità che si è evoluta per altri scopi –il riconoscimento degli oggetti- riadattandola a lettere e parole. Per il nostro cervello, in pratica, le parole sono oggetti fisici e i testi luoghi veri e propri, dove anche i significati dei singoli termini hanno coordinate precise. Lo suggeriscono studi che mostrano come, quando ripensiamo a un’informazione che abbiamo appreso leggendo, tendiamo a ricordare con una certa accuratezza il punto fisico del libro dove l’abbiamo assorbita. Quindi, se vogliamo immagazzinare conoscenza, le pagine di carta, dove ogni informazione è davvero in un punto preciso collocato nello spazio, risultano una mappa meno spaesante dello spazio virtuale di un e-book.

Questo però non significa che proprio tutto debba finire su carta, come sognano i burocrati di ogni tempo. Altrimenti poi si rischia di dover intervenire come ha fatto il governo belga nel 2003 con l’Atto di riduzione dei documenti: un repulisti di leggi e leggine contrarie al buon senso, come la necessità di un permesso scritto, per i ciechi, per portare il bastone.

“La storia d’amore tra la carta e la burocrazia è antica e consolidata. L’esempio più impressionante è quello dell’impero mangolo: i mongoli erano rozzi guerrieri analfabeti delle steppe ma, dopo aver conquistato tutta l’Asia, si resero conto che non avrebbero mai potuto governarla senza la carta, e così ne divennero entusiasti difensori”, dice Alexander Monro, giornalista collaboratore di Washington Post e New Scientist, nel saggio “The paper trail: an unexpected history of a revolutionary invention” (“Il cammino della carta: storia inaspettata di un’invenzione rivoluzionaria, Knopf, pp. 368, euro 27,90). “L’affinità tra carta e potere è riflessa anche dalle trasformazioni della parola cinese “wen”: quando l’uso della carta in Cina si era ormai affermato prese il senso di letteratura, ma tremila anni fa significava “civiltà, ordine””.

Tra i fan della carta si segnala anche Filippo II di Spagna: raccomandava che gli venissero rivolte soltanto petizioni e notifiche scritte, così da avere più tempo per replicare. Ribattezzato per questo “il re di carta”, era solito tenere in mano dei fogli, anche se del tutto irrilevanti, in ogni occasione pubblica, solo per insinuare nei presenti il sospetto che avesse delle informazioni riservate su di loro. Insomma il mezzo diventava messaggio già secoli prima di McLuhan.

Il critico letterario tedesco Lothar Muller, autore di “White magic: the age of paper” (Magia bianca: l’era della carta, Polity, pp. 311, euro 22,35), conferma: è proprio con Filippo II che, attraverso la carta, il potere inizia a trasferirsi dal corpo del sovrano alla sfera dell’invisibile, a una sorta di macchinario impersonale eppure –in qualche modo- ostile, che fa presagire l’ombra da Grande Fratello degli Stati moderni.

Ma se la carta nella Spagna del ‘500 diventò sinonimo di burocrazie oppressive, appena un secolo prima, da noi, era stata fucina di meraviglie. “Anche in Italia, come in Spagna, la carta arrivò grazie all’Islam, ma gli allievi superarono subito i maestri, per due motivi: Mulini più avanzati, che permettevano di lavorare più in fretta, e maggiore accesso, grazie alla rete fluviale, alle grandi quantità d’acqua necessarie a fare la carta”, spiega Monro. “La carta italiana batte presto tutte le altre per costo e qualità. La conferma più curiosa è l’uso, da parte dei musulmani, di carta con il marchio della croce impresso dalle cartiere italiane per stampare libri con versetti islamici”.

La carta contribuì inoltre a rivoluzionare la nostra architettura. “Nel Rinascimento la sua grande economicità rese possibile disegnare progetti mai visti prima, provare molte più soluzioni rispetto al passato, prima di passare alla costruzione. Brunelleschi, per esempio, fu uno dei più convinti sostenitori della carta. E sempre più progetti messi nero su bianco significavano anche un’inedita capacità di scambio di idee e innovazioni tra città e città”. Così la carta, e solo la carta, permise ai geni del Rinascimento di trasformare in realtà concrete e spettacolari la bellezza immateriale nelle loro menti.

 

                                                                       Giuliano Aluffi