A. Machado, “Il male di vivere senza Leonor”, 1913

Antonio Machado (1875-1939), “Il male di vivere senza Leonor”, 1913

 

Una notte d’estate

-era aperto il balcone

e la porta di casa mia-

la morte in casa entrò.

Si avvicinò al suo letto

-nemmeno mi guardò-

con dita delicate,

qualcosa di molto esile spezzò.

Silenziosa e senza sguardo

ancora la morte mi passò

davanti. Che hai fatto?

La morte non rispose.

La mia bimba rimase tranquilla

sofferente il mio cuore.

Ahi, quel che la morte ha rotto

era un filo tra noi due!

 

Una noche de verano

-estaba abierto el balcòn

y la puerta de mi casa-

la muerte en mi casa entrò.

Se fue acercando a su lecho

-ni siquiera me mirò-

con unos dedos muy finos,

algo muy tenue rompiò.

Silenciosa y sin mirarme,

la muerte otra vez pasò

delante de mi. Que has hecho?

La muerte no respondiò.

Mi nina quedò tranquila,

dolido mi corazòn.

Ay, lo que la muerte ha roto

era un hilo entre los dos!

Da “Poesie complete”, CXXIII

 

La prima volta che ho letto questa poesia, non avendo coordinate e conoscendo Machado solo superficialmente, l’ho completamente fraintesa: ho pensato che fosse il lamento di un padre per la perdita della figlia e che la perdita non fosse la morte fisica ma, con più sottile crudeltà, la fine della possibilità di comprendersi (la morte metaforica di un’intesa parentale, insomma) –mi aveva ingannato quel “la mia bambina restò tranquilla”, v. 13. Invece basta inserire la poesia nel suo contesto, in quella particolare posizione dei Campos de Castilla, per verificare che la “nina” è in realtà la moglie e che la morte è realissima: avvenuta in una notte d’agosto del 1912. “Nina” in spagnolo è sia “bambina” che “ragazza”, ma nel caso particolare i due significati rischiano di sovrapporsi: Leonor, diciottenne quando morì, aveva quindici anni al momento delle nozze (lui trentaquattro) –poco più di una bambina, in effetti (“su voz de nina”, la sua voce di bambina, lo accompagnerà negli anni del rimpianto).

“Restò tranquilla” è la chiave di sobrietà in cui il testo si iscrive, una sobrietà che è legittima difesa; nessun gesto drammatico né parola di disperazione, la morte non c’è neppure bisogno di esplicitarla. Si sente che la poesia è frutto di una tecnica “in levare”: le frasi semplici, parallele, senza subordinate –il dolore è così forte che non sopporterebbe le complicazioni e gli approfondimenti della sintassi. La scena si svolge in un’atmosfera incantata e nel quasi assoluto silenzio (solo un attonito “che hai fatto?” a cui non viene data risposta). Quel che la morte ha da compiere non richiede violenza, la ragazza non cambia attitudine: la sua sopravvivenza è così fragile che troncarla è questione di un soffio. Tutto è già deciso (la tisi non perdona), la morte non guarda in faccia perché non c’è più niente da spiegare –si muove per casa con la familiarità di una serva o di un ladro che ha preso informazioni; passa e ripassa davanti al poeta che non osa nessun gesto, avverte solo un definitivo male al cuore.

La personificazione della Morte è tipica della poesia popolare, e anche il metro appartiene al folclore spagnolo trattandosi di un romance (che consiste in una serie di versi in cui i pari hanno rima assonanzata mentre i dispari restano sciolti); nel nostro componimento i versi sono ottosillabi assonanzati con parole tronche in –o-; i sedici versi si raggruppano dal punto di vista narrativo in quattro quartine. Anche il ricorso al metro popolare ha psicologicamente una funzione difensiva: un dolore così è difficile sopportarlo da soli, alludere al folclore vuol dire sentirsi parte di una collettività, di un destino che colpisce universalmente gli uomini; vuol dire rifugiarsi nella saggezza e nella pazienza popolare. Il padre di Machado era un esperto di poesia folclorica; e il figlio aveva già scritto, in quel metro, un lungo poema che il giovane Lorca gli sentì leggere durante un incontro a Segovia.

La posizione di questo testo nella raccolta Campi di Castiglia, dicevamo; è un crinale decisivo per la carriera di Machado, coincidente col suo trasferirsi, subito dopo la morte di Leonor, dalla Castiglia all’Andalusia. L’Andalusia era la terra dell’infanzia e lui aveva chiesto al Ministero di essere trasferito lì (come insegnante di francese) nel tentativo di allontanarsi dai luoghi dello strazio; ma è come se il paese natale gli fosse diventato straniero, perché “falta el hilo que el recuerdo anuda”- manca il filo capace di annodare i ricordi. Quel che la morte ha tagliato non è tanto (tradizionalmente) il filo della vita di Leonor, quanto il filo che li univa –cioè una condanna alla solitudine, alla mancanza di senso, perché quel filo tra loro era la forza che legava il poeta a tutto il resto. Proprio dalla solitudine era partita la sua poesia (la prima raccolta si intitolava Soledades): la solitudine era essenzialità, verginità di un alfabeto che metteva in relazione l’intimismo emotivo e gli elementi primari della natura (acqua, cielo, alberi). Poi erano venuti l’impegno civile, l’adesione ai “valori spirituali” del paesaggio castigliano promossi da Miguel de Unamuno, la consapevolezza che la poesia è “cosa cordiale” –che non riguarda solo l’io ma anche un “tu” e un “noi”. Ora la morte di Leonor sembra averlo punito proprio in questa raggiunta estroversione: la morte è entrata perché il balcone era aperto, come la porta di casa. La serena notte estiva, in cui era solito passeggiare “solo, come un fantasma”, è stata il teatro che ha visto assassinare la socialità nel suo punto più tenero e indifeso.

“Quando ho perso mia moglie”, scrive nel 1913 a Ramòn Jiménez, “ho pensato di spararmi un colpo, ma il successo del mio libro mi ha salvato”; si tratta della prima edizione dei Campos, quella uscita pochi mesi prima della tragedia. Nelle aggiunte alla seconda edizione sono poche le poesie di dolore (tra cui la nostra); presto vengono esorcizzate dallo stoicismo, dal senso del dovere, dalla volontà di essere esemplare. La grazia non verrà mai a mancare del tutto –ma la tomba di Leonor resterà come un segno mai espiato, un oscuro tradimento del sé profondo, un peso che non permette più di volare.

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 19 ottobre 2014, p. 56