La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La Bibbia romanesca. 2- La tirannia di Adamo nel Paradiso terrestre. 19 dicembre 1834

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “L’abbibbia romanesca”. 2- La tirannia di Adamo nel Paradiso terrestre.

 

Le poesie di Belli sono quadretti di genere, bozzetti naturalistici, un’infilata di macchiette popolane o sono costruite su una matrice molto più complessa e profonda? In questo sonetto il suo popolano è stato definito “un dottoretto plebeo”: attraverso l’inusuale interprete il poeta rilegge anche le Sacre Scritture, unificando comico e tragico. L’illustrazione colorita e ingenua della Genesi biblica ha tutte le tonalità del comico ma nasce da un sentimento tragico della vita: la comparsa dell’uomo sulla terra sembra un fatto del tutto fortuito e da subito si accompagna a severe proibizioni la cui violazione suona sinistramente fatale. Il realismo è demitizzante e perfino blasfemo. Quella Bibbia tanto raccomandata e idoleggiata dai romantici è letta dal Belli con la spregiudicatezza di Voltaire. Anche se rilegge la Bibbia, il nostro poeta è tutto al di qua, nel mondo dei vivi e del grande apparato ecclesiastico, la monarchia assoluta e per diritto divino con cui ai romani (e oggi agli italiani) tocca convivere, ne scopre anzitutto le umane debolezze, mimetizzate appena dal rosso cardinalizio. Tanti sonetti, che insistono sull’effetto comico del linguaggio plebeo e sull’ingenuità oggettiva del popolano che parla, dissimulano sempre un’ironia di tipo illuministico e approdano ovviamente a risultati sconsacratori.

Momenti ed episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento sono presi come spunto per un gruppo di sonetti nei quali il poeta rappresenta l’interpretazione, da parte dei popolani romani di ciò che si sentiva in chiesa nelle prediche e nelle letture e di quello che ci si raccontava nelle osterie e nelle case: se ne ricava una geniale mescolanza di “alto” e di “basso”, di verità rivelata, di prosopopea pedagogica clericale e d’immediatezza d’immagine del parlare quotidiano.

“C’è un dato stilistico ma anche ideologico: il poeta Belli, il letterato, nel momento in cui descrive la realtà popolare della sua Roma scompare, cede completamente la parola al personaggio che racconta, che descrive, che impreca, dice arguzie o protesta. Non solo i testi sono scritti nella lingua di questi personaggi ma ne riportano in maniera diretta le idee e i sentimenti. Ma rimane un dubbio. In quale misura il poeta mescola la sua voce a quella del personaggio? La rappresentazione è strumento di denuncia d’una realtà degradata o si ferma alle soglie della descrizione realistica di un mondo da cui il poeta si sente comunque estraneo? La risposta a queste domande impegna ancora la critica”.

La tensione verso la rappresentazione realistica spiega anche la sua puntigliosità filologica; l’adesione completa tra poesia e oggetto descritto si concretizza proprio nella lingua che assume caratteri assai vicini a quelli del parlato. “D’altra parte proprio la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che il poeta rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative ma nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona. E la parola esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con cui il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

“Le bestie der Paradiso terrestre”                                 19 dicembre 1834

 

Prima d’Adamo, senza dubbio arcuno

er ceto de le bestie de là ffori

facéveno una vita da siggnori

senza dipenne un cazzo da gnisuno.                                    4

 

Gnente cucchieri, gnente cacciatori,

no macelli, no bòtte, no diggiuno…

E riguardo ar parlà, parlava oggnuno

come parleno adesso li dottori.                                             8

 

Venuto però Adamo a ffà er padrone,

ecchete l’archibbuci e la mazzola,

le carrozze e ‘r zughillo der bastone.                                              11

 

E quello è stato er primo tempo in cui

l’omo levò a le bestie la parola

pe pparlà ssolo e avé raggione lui.                                       14

 

Prima della creazione di Adamo, senza dubbio alcuno, gli animali di laggiù (di quei luoghi lontani e di quelle terre straniere) facevano una vita da signori senza per nulla dipendere da qualcuno. Nessun cocchiere per aggiogarli, nessun cacciatore per ucciderli, non c’erano macelli, né percosse, né digiuni imposti da padroni crudeli. E per quello che riguarda il parlare, tutti parlavano come adesso parlano i dottori. Venuto che fu Adamo a padroneggiare, eccoti gli archibugi e la mazzola (era lo strumento usato dal boia per bastonare i condannati a morte, prima di essere uccisi e squartati), ecco le carrozze e il sugo del bastone. E quello fu il primo episodio nel quale l’uomo tolse alle bestie la parola per parlare solo lui ed avere ragione solo lui.

Nella “Genesi” biblica è scritto (1, 20-28): “Poi Dio disse: “Producano le acque in abbondanza animali viventi, e volino degli uccelli sopra la terra per l’ampia distesa del cielo”. E Dio creò i grandi animali acquatici e tutti gli esseri viventi che si muovono, i quali le acque produssero in abbondanza secondo la loro specie, ed ogni volatile secondo la sua specie. E Dio vide che questo era buono. E Dio li benedisse, dicendo: “Crescete, moltiplicate ed empite le acque dei mari, e moltiplichino gli uccelli sulla terra”. Così fu sera, fu poi mattina: e fu il quinto giorno. Poi Dio disse: “Produca la terra animali viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali salvatici della terra, secondo la loro specie”. E così fu. E Dio fece gli animali salvatici della terra, secondo le loro specie, il bestiame secondo le sue specie, e tutti i rettili della terra, secondo le loro specie. E Dio vide che questo era buono. Poi Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza, ed abbia dominio sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sul bestiame e su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. E Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. E Dio li benedisse; e Dio disse loro: “Crescete e moltiplicate e riempite la terra, e rendetevela soggetta, e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra”.

 

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, EDE).

Le quartine. Nelle prime due strofe è narrata la situazione, sicuramente edenica, goduta dagli animali prima della creazione dell’uomo. E’ adottato, si può dire senza ombra di dubbio, un punto di vista animalista. Il ceto de le bestie faceva una vita da signori; soprattutto non era schiavizzato, viveva le giornate in piena e libera autonomia. La seconda quartina è emblematica nel descrivere questa felice, idillica ambientazione. L’uso sistematico delle ripetizioni (gnente nel verso 5, no –iterato per ben tre volte- nel verso 6, parlà – parlava – parleno nei versi 7 e 8) rivela splendidamente un quadro di beata indipendenza. Nei vv. 5-6 io rilevo un chiasmo ironico: i cacciatori sono legati ai macelli, i cocchieri vetturini richiamano le percosse e la fame che erano sopportate dai cavalli nel trasporto dei passeggeri, soprattutto turisti, per le strade di Roma. Le bestie, infine, erano sapienti, avevano il dono della parola, discutevano tra loro con addottorata calibratura ed equilibrio.

Le terzine. L’arrivo di Adamo, padrone spietato, cambia drammaticamente l’orizzonte e la rima in C (padrone-bastone) ne rivela compiutamente il significato. Nei versi 10 e 11 la coppia dei sostantivi (archibucci-mazzola, carrozze-bastone) completa l’esempio descritto nella strofa precedente e richiama la tendenza esagerata davvero della caccia agli animali innocenti e dell’assoggettamento al basto di muli, cavalli e asini. Nella strofa finale l’uomo toglie alle bestie l’uso della parola, s’impadronisce del linguaggio con un atto di rapina. Dio è complice in questo furto? Nel racconto biblico è scritto che Dio diede all’uomo il dominio sugli altri esseri viventi ma doveva essere davvero un dominio così tirannico e spietato? Ad Assisi, seicento anni prima, Francesco aveva predicato e cantato la comunione con la natura. A Roma Belli, pensando ai primi momenti della creazione, sembra voler ritrarre la realtà del 1834: è il regime arbitrario e violento del potere papale che toglie ai cittadini la parola, pe pparlà ssolo e avé raggione lui. Da questa constatazione deriva il tono tragicomico e pensoso, l’ironia romanescamente feroce.

 

Otto mesi prima Belli aveva già affrontato questo argomento da un’altra angolazione e aveva raccontato, in metafora fantasiosa, la ribellione degli animali.

 

Chi la tira la strappa                  16 aprile 1834

 

Fatto Adamo padron de l’animali,

incominciò addrittura a arzà l’ariaccia.

Nun zalutava, nun guardava in faccia…

come fussino là ttutti stivali.                                                  4

 

Nun cer’antro pe lui che can da caccia,

caval da sella, scampaggnate, sciali,

pricissione coll’archi trionfali,

musiche, e cianerie pe la mojaccia.                                      8

 

E l’animali, a ttutte ste molestie,

de la necessità, come noi dimo,

faceveno vertù, povere bestie.                                                           11

 

Nun ce fu ch’er zerpente, che, vedute

tante tirannerie, disse p’er primo:

“Mo ve buggero io, creste futtute”.                                      14

 

Diventato Adamo padrone degli animali (per volontà di Dio), cominciò addirittura a levarsi in superbia. Non salutava, non guardava in faccia… come fossero, in quell’Eden, tutti degli stivali (dei sottoposti al suo servizio). Per lui non c’erano altro che cani da caccia, cavalli sellati, divertimenti in campagna, gozzoviglie, processioni con gli archi di trionfo, musiche e abiti eleganti per la sua mogliaccia di Eva. E gli animali davanti a tutte queste molestie, facevano –come noi diciamo con un proverbio- della necessità virtù, povere bestie. Solo il serpente, visti tanti atti di tirannia, disse per primo: “Adesso vi frego, vi inganno io, persone altezzose e violente”.

In Genesi, 3, 1-5, è scritto: “Or il serpente era il più astuto di tutti gli animali dei campi che l’Eterno Iddio aveva fatti; ed esso disse alla donna: “Come! Iddio v’ha detto: Non mangiate del frutto di tutti gli alberi del giardino?”. E la donna rispose al serpente: “Del frutto degli alberi del giardino ne possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero ch’è in mezzo al giardino Iddio ha detto: Non ne mangiate e non lo toccate, che non abbiate a morire”. E il serpente disse alla donna: “No, non morrete affatto; ma Iddio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri s’apriranno, e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male”.

 

                                                           Gennaro  Cucciniello