La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “Tempo e Natura”. “Li venticinque novemmre”, 18 novembre 1831.

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. Tempo e Natura. 2- “Li venticinque novemmre”

 

E’ cosa nota che Belli, sperimentatore irrefrenabile in fatto di soluzioni linguistiche, andasse in giro per Roma munito di penna e foglietti, annotando con precisione di cronista esclamazioni, modi di dire, interi brani di dialoghi che sentiva dai suoi interlocutori popolari. E’ anche vero che il romanesco di allora non era una lingua molto omogenea. Per più ragioni. Nella prima metà dell’Ottocento l’antico dialetto romanesco –che era più simile al napoletano  (come si può dedurre dalla trecentesca e bellissima “Vita di Cola di Rienzo”)- era quasi scomparso dalla città. Da una parte, infatti, il sacco del 1527 e le epidemie avevano quasi spopolato Roma dei suoi abitanti originari, dall’altra lo Stato Vaticano ha sempre avuto una classe dirigente non locale. I cardinali arrivavano qui dalla Lombardia, dall’Emilia come dalla Campania e dalla Sicilia. In particolare la Curia romana è stata soggetta a una forte toscanizzazione già dal ‘400, con il risultato che anche la borghesia aveva preso a sdegnare un dialetto col quale si esprimevano solo le classi popolari e che perciò immediatamente denunciava il basso livello sociale di chi lo parlava. Diventata la lingua dei miserabili e dei reietti (a differenza del milanese usato da Porta, che era parlato dal popolo ma anche dalla famiglia Manzoni), il dialetto romanesco acquista anche una sua grandiosa espressività, tragica e grottesca insieme: è un volgare duro, sguaiato, incazzoso e sfottente, la lingua del sesso, della violenza, della miseria estrema, dell’empietà, del ghigno beffardo e sarcastico con il quale l’oppresso reagisce ai soprusi.

A volte sembra che quei popolani non conoscano la differenza tra umano e disumano. Tutto ciò che accade confonde il loro agire con l’agire naturale degli elementi. La violenza di un temporale, il flagello del vento, l’implacabilità del sole, l’avarizia della terra, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo non sono semplici dettagli atmosferici ma la culla di sordide e violente tragedie. A volte i personaggi non sanno neppure perché uccidono e se uccidono, a volte non ricordano neppure perché fuggono e da chi. C’è uno stordimento che confonde torti e colpe e allinea le loro azioni all’istinto degli animali braccati. E’ un’umanità minore e dannata che, inconsapevole, agisce fuori dalla storia. Non conoscono la trama della loro infelicità, non ne intuiscono le conseguenze: continuano a vivere dentro la sventura ignari del proprio destino. Ma così riescono ad assaporare anche tante gocce di breve contentezza.

“La coscienza che nulla può cambiare (nella mente del popolano le rovine della Roma antica testimoniano questo) accomuna tutti i personaggi. Allora unica difesa dei poveracci è il buon senso, la capacità di prendere la vita con filosofia; dalla descrizione di questo atteggiamento nascono parecchi sonetti nei quali donne e uomini, vecchi e disillusi, traggono le conclusioni della loro esperienza per trasmetterla a chi non sa ancora come vanno le cose del mondo. Sono questi i temi della meditazione sulla morte, sulla vecchiaia, sulla fugacità della bellezza, sull’illusorietà delle speranze in un domani migliore, risvolto amaro delle risate beffarde, degli insulti triviali e degli scherzi”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

Li venticinque novemmre                         18 novembre 1831

 

Oggiaotto ch’è ssanta Catarina

se cacceno le store pe le scale,

se leva ar letto la cuperta fina,

e ss’accenne er focone in de le sale.                                      4

 

Er tempo che ffarà quela mattina

pe Natale ha da fallo tal e quale.

Er bugiardello cosa mette? brina?

la brina vederai puro a Natale.                                             8

 

E cominceno già li piferari

a calà da montagna a le maremme

co quelli farajòli tanti cari!                                                     11

 

Che belle canzoncine! oggni pastore

le cantò spiccicate a Bettalemme

ner giorno der presepio der Zignore.                                              14

 

Tra otto giorni sarà la festa di S. Caterina d’Alessandria: si metteranno le stuoie su per le scale, si leverà dal letto la coperta sottile e si accenderà il braciere nelle sale. Il tempo che farà quella mattina sarà quello che si ripeterà tale e quale a Natale. Il lunario cosa prevede? Brina? La brina la vedrai anche a Natale. E in quel giorno cominciano già i suonatori di pive e cornamuse a scendere dalla montagna alle pianure con quei mantelletti rattoppati tanto carini! Che belle canzoncine! Ogni pastore le cantò tali e quali a Betlemme nel giorno del presepe del Signore Gesù.

 

Sonetto: (ABAB, ABAB, CDC, EDE).

Le quartine. Le strofe servono da antefatto per descrivere l’atmosfera pre-natalizia che si respirava in città verso la fine di novembre. L’indicazione è molto precisa ed è contenuta tutta nel titolo e nella data che accompagna il sonetto: gli otto giorni –dal 18 al 25- inquadravano il periodo che segnava per tutti i romani l’inizio dell’inverno meteorologico e che coincideva con il preannuncio del Natale. Fa sempre nostalgia ricordare le abitudini tradizionali, si evocano ricordi, si gustano consuetudini: la rima in B (le scale, le sale, tal e quale, Natale) inquadra tempo e spazio, fotografa interni ed esterno delle case, si accompagna ad altri dettagli (il focone acceso, la cuperta fina che va sostituita, le stuoie cavate). I gesti sono usuali e quasi standardizzati: la ripetizione (se cacceno, se leva) dei versi 2-3, l’allitterazione (ss’accenne) del verso 4 introdotta dal polisindeto, l’incrocio a chiasmo (brina? La brina) dei vv. 7-8 sono tutti accorgimenti utili ed efficaci.

Le terzine. C’è un sapere artigiano, una buona conoscenza delle regole, una felice dose di intuito. La prima strofa è visiva. La città rivede aggirarsi per le sue strade gli zampognari, coi loro tipici indumenti da montagna. L’incipit, “e cominceno”, del v. 9, col suo conclamato polisindeto, dà proprio l’idea d’uno sciamare lento e avvolgente di questi personaggi, strani ma nello stesso tempo usuali e familiari. La seconda strofa è tutta auditiva. Roma sembra immersa in un silenzio incantato, rotto all’improvviso dall’esclamazione, “Che belle canzoncine”, un ricordo che riporta il nostro soggetto-parlante ai tempi della sua adolescenza, cullata dalla frequentazione dei presepi e dalle letture evangeliche sentite in chiesa nelle liturgie natalizie. Il narratore intesse presente e passato, parole e sentimenti, realtà e immaginazione, una calibrata selezione di fatti e sensazioni, la vita accidentata delle cose belle che un tempo hanno dato felicità. Siamo coscienti che in ognuno di noi continuano a vivere le età che abbiamo avuto.

Altre volte, nel corso degli anni, il nostro poeta tornerà a commentare gli usi e i costumi della città in questo particolare periodo dell’anno. Ho scelto questo sonetto scritto una quindicina d’anni dopo:

 

La novena de Natale                                       23  dicembre  1844

 

Eh, siconno li gusti. Filumena

se fa venì queli gruggnacci amari

de li cechi: Mariuccia e Madalena

chiameno sempre li carciofolari;                                          4

 

e a me me pare che nun zii novena

si nun zento sonà li piferari.

Co quel’annata de cantasilena

che sserve, benemìo!, so ttroppi cari.                                              8

 

Quann’è er giorno de santa Caterina

che li risento, io ciarinasco ar monno:

me pare a me de diventà reggina.                                        11

 

E quelli che de notte nu li vonno?

Poveri scemi! Io poi, ‘na stiratina,

e me li godo tra viggij’e ssonno.                                            14

 

Eh, secondo i gusti. Filomena si fa venire sotto casa quei grugnacci amari dei ciechi (che cantavano litanie e altre preghiere a pagamento). Mariuccia e Maddalena chiamano sempre i suonatori e cantori girovaghi; e a me sembra che non sia novena se non sento suonare i pifferai. Con quell’andamento da cantilena che serve dirlo, bene mio (è un’esclamazione di piacere), sono troppo carini. Quando arriva il giorno di S. Caterina (il 25 novembre) e io li risento (era questo il giorno nel quale cominciavano i pifferai a suonare per le strade), io rinasco al mondo: mi pare di diventare regina. E quelli che di notte non vogliono sentirli suonare? Poveri scemi! Quanto a me, una stiratina dentro il letto, e me li godo nel dormiveglia, tra la veglia e il sonno.

Gennaro  Cucciniello