Giovanni Falcone. L’uomo che sconfisse la Cupola mafiosa. 1° parte.

Giovanni Falcone. L’uomo che sconfisse la Cupola mafiosa.

Il 23 maggio 1992 Cosa nostra uccide il magistrato che 5 anni prima, con il maxiprocesso, ha inflitto alla mafia la prima sconfitta da quando esiste. E’ l’inizio della stagione delle stragi.

 

Questa è la prima parte di uno speciale, scritto da Attilio Bolzoni, che il quotidiano “la Repubblica” ha dedicato al venticinquesimo anniversario della strage di Capaci, in cui –insieme a Falcone- morirono la moglie, Francesca Morvillo, e i tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Il testo è stato pubblicato venerdì 19 maggio 2017, pp. 25-32.

 

 

E’ un pomeriggio caldo, di luce violenta. Un sabato italiano del 1992. A Roma, dopo quindici scrutini e quindici fumate nere, deputati e senatori non riescono ancora ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Patti segreti, bagni di sole, sudori di potere e di calura mentre la velina di una piccola agenzia giornalistica avvisa “di un botto esterno, qualcosa di drammaticamente straordinario” che potrebbe influenzare la corsa al Quirinale. Premonizioni.

Poi la terra trema, sembra una scossa di terremoto. Ma è una carica di 500 kg d’esplosivo che ingoia Giovanni Falcone, al km 4+773 dell’autostrada che corre dall’aeroporto fino alla città. Allo svincolo di Capaci, prima della grande curva. Falcone alle 17, 56 minuti e 48 secondi muore. La sua seconda vita era cominciata 13 anni prima.

Le tribù di Palermo.

Sua Eccellenza Giovanni Pizzillo, primo presidente della Corte di Appello di Palermo, il magistrato più alto in grado del distretto giudiziario, una mattina spalanca la porta della stanza del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici e urla: “Voi state rovinando l’economia con le verifiche della Finanza. Carica di altri processi quel Falcone, in maniera che cerchi di scoprire nulla, perché tanto i giudici istruttori da quando mondo è mondo non hanno mai scoperto nulla”. E’ la fine del 1979. Palermo è una città avvolta in un silenzio spettrale. La giustizia è marcia, la mafia non esiste, le cause si decidono fuori dalle aule, le assoluzioni si barattano nei “villini a mare” di Mondello. I Principi del Foro in dibattimento fanno scena: “Signor Presidente, la prova!, mi deve portare la prova!”. Avvocati di corridoio, che sono lì per guardare, per vedere chi entra e chi esce dalle cancellerie. Avvocati di controllo, che devono sempre sapere se qualcuno sbaglia a parlare durante un interrogatorio. Gli ergastoli sono destinati solo agli “scafazzati”, gli schiacciati dalla vita, gli ultimi, relitti umani che sopravvivono in una Palermo che è un recinto, popolata da tribù che si proteggono una con l’altra.

In questa sacca infetta, il giudice della sesta sezione penale dell’ufficio istruzione Giovanni Falcone ha appena firmato un ordine di sequestro per alcuni assegni scambiati alla sede centrale della Cassa di Risparmio per le province siciliane. Sono già sulla sua scrivania, tutti sistemati per ordine di data, allineati uno dietro l’altro, “girati” sempre agli stessi nomi. Inzerillo Santo. Di Maggio Rosario. Gambino Tommaso. Inzerillo Pietro. Di Maggio Salvatore. Gambino Giuseppe. Sono tutti imparentati fra loro e tuttio hanno fratelli o cugini emigrati in Usa, a Cherry Hill, nello Stato del New Jersey. E’ una grande famiglia.

Falcone arriva a loro inseguendo i movimenti di un costruttore che in città considerano un benefattore: dà lavoro ad almeno diecimila edili. Si chiama Rosario Spatola, ha un’impresa all’Uditore e una fedina penale immacolata. Spatola ha appena vinto un appalto per 442 alloggi bandito dall’IACP. Il presidente dell’ente è Vito Ciancimino, che è stato sindaco di Palermo per nove giorni e padrone di Palermo per vent’anni. Spatola è sposato con una certa Filippa Inzerillo, che è la sorella di Totuccio Inzerillo, anche lui imprenditore ma pure l’uomo di fiducia di Stefano Bontate. Il capo mafia di Palermo. Lo chiamano “il Principe”, in una città soffocata da antiche leggi non scritte lo ossequiano come una divinità. Bontate è l’erede più moderno di un’aristocrazia criminale che vorrebbe Palermo immobile.

Studiando quegli assegni e indagando sugli intrecci familiari, il giudice entra negli affari e nei segreti di un’organizzazione. Falcone sospetta di un traffico di stupefacenti: eroina che parte dalla Sicilia e soldi che tornano nelle banche palermitane. E poi c’è anche un grande mistero dietro gli Spatola e gli Inzerillo. E’ appena scomparso da New York –rapito? Fuggito?- un finanziere che in quegli anni controlla almeno il 40% delle azioni che passano dalla Borsa di Milano. Il presidente del Consiglio Andreotti lo ha appena incoronato come “il salvatore della lira”, ma Michele Sindona è sparito all’improvviso dopo una agitatissima telefonata fatta da una cabina di Manhattan. Falcone scopre che si nasconde in Sicilia sotto falso nome. E’ ospite, e forse anche un po’ prigioniero, di tutti gli amici del “benefattore” Rosario Spatola. Sua Eccellenza Pizzillo è molto preoccupato.

Il ritorno nella sua città.

Quarant’anni non li ha ancora fatti e ha deciso di tornare nella sua città. L’ha lasciata nel 1964, dopo sei mesi come uditore proprio al Palazzo di Giustizia di Palermo. Un anno di pretura a Lentini. E poi altri dodici anni a Trapani. Come sostituto procuratore, giudice istruttore e di sorveglianza, prima tanto penale e alla fine anche un po’ di civile. E’ un tribunale piccolo quello di Trapani, ma è anche un osservatorio molto speciale che gli fa incontrare per la prima volta la mafia. Ha la faccia di Mariano Licari, “uomo di rispetto” di Marsala, invischiato in una misteriosa compravendita di terreni che aveva lasciato due cadaveri a terra. Falcone pensa di avere in mano la carta giusta per incastrare il mafioso: è un funzionario delle tasse, un testimone che accusa Licari. In dibattimento qualcuno si accorge però che i giurati popolari vengono avvicinati e intimiditi, il processo viene trasferito a Salerno. E ricomincia dall’inizio. Licari viene assolto.

Trapani, provincia apparentemente sonnolenta dove tutti conoscono tutti, tutti frequentano tutti, tutti coprono tutti. Piccola borghesia di provincia e mammasantissima al riparo dalla legge, tanti sportelli bancari quanti ce ne sono in Svizzera e in Lussemburgo, logge segrete, intoccabili i fratelli Minore e ancora più intoccabili di loro quei cugini di Salemi che fanno gli esattori, Nino e Ignazio Salvo. Ricchissimi, potentissimi, mafiosissimi. Trapani, la città siciliana che qualche anno dopo il regista Damiani –e non certo per caso- sceglierà come set per la prima Piovra, la fiction che fa conoscere agli italiani la mafia degli intrighi finanziari, degli insospettabili, della politica che si struscia con le Cupole.

Falcone e sua moglie Rita Bonnici –si erano conosciuti a una festa a Palermo nel 1962 e si erano sposati due anni dopo- hanno amici fra i giudici e gli avvocati trapanesi. Rita è bruna, bella, con tanta voglia di vivere. E’ lei che lo trascina. A San Vito Lo Capo, allo stagnone di Mozia con le sue saline, al “Ciclope”, couscous, busiate al pesto e Corvo bianco di Salaparuta. La felicità del matrimonio dura poco, i due si separano, provano ancora, si lasciano definitivamente. E il magistrato fa domanda per tornare a Palermo. E’ l’inverno del 1978. Falcone trova un’altra città. Più cupa, cattiva. E’ l’inizio di una nuova esistenza.

Per qualche mese è alla sezione fallimentare, poi chiede il trasferimento all’ufficio istruzione. Lì si è appena insediato il nuovo capo, Rocco Chinnici, uno che non ha simpatie per i notabili di Palermo e gira per le scuole a parlare di mafia. Lui la pronuncia con due “effe” quella parola, all’antica, come si usava nell’800. Dice maffia. Chinnici ha sostituito Cesare Terranova, assassinato il 25 settembre del 1979. Il 21 luglio di quell’anno hanno ucciso il capo della squadra mobile Boris Giuliano. A marzo è caduto Michele Reina, segretario provinciale della DC. A gennaio hanno sparato al giornalista Mario Francese. Palermo non è più quella di prima. Il consigliere istruttore Chinnici assegna a Falcone un fascicolo. Sul primo foglio c’è quel nome: Rosario Spatola.

La Corte dei miracoli.

L’indagine su “Rosario Spatola+42” diventerà due anni dopo l’inchiesta su “Michele Greco+160”, inchiesta che nel 1985 si trasformerà nella sentenza ordinanza “Abbate Giovanni+706”, ottomilaseicentosette pagine, quarantadue volumi con un incipit: “Questo è il processo all’organizzazione mafiosa denominata Cosa nostra, una pericolosissima associazione criminosa che, con la violenza e l’intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore”.

Un’investigazione dietro l’altra e un’investigazione dentro l’altra per scoprire che non ci sono poche o tante “famiglie” che regnano su Palermo e sulla Sicilia, ma c’è una e una sola organizzazione che ha un vertice, un governo che si chiama “Commissione”. E’ la scoperta della mafia. Per arrivare a capire cos’è e quanto potere ha, Falcone rivoluziona un sistema d’indagine. Non segue più un singolo indiziato ma un gruppo di indiziati legati da vincoli di sangue che insieme fanno impresa, che insieme vincono appalti, che insieme esportano la “pasta” –la morfina base- nel New Jersey, che insieme corrompono pubblici funzionari e insieme taglieggiano commercianti e ordinano omicidi.

Falcone suggerisce agli ufficiali di polizia giudiziaria pedinamenti e appostamenti nelle borgate, firma decreti di intercettazione telefonica, studia tabulati bancari, archivia nei suoi appunti migliaia di dati sui mafiosi e sui loro amici che stanno in Turchia o nel Sud Est asiatico. Comincia ad esplorare anche la terra di nessuno che c’è in Sicilia, i complici negli apparati statali, alla Regione, in Parlamento. Lo fa con accortezza, muovendo lentamente un passo dopo l’altro, ossessionato dai riscontri per ogni intuizione, alla maniacale ricerca di una conferma investigativa per ogni sospetto. Tutto nel più assoluto segreto. “La prova, signor Presidente, la prova!”.

Come riferimento per la sua indagine Falcone conserva in un piccolo armadio gli atti di due processi. Uno celebrato a Catanzaro contro la mafia palermitana, 114 imputati. L’altro a Bari contro la mafia di Corleone, 64 imputati. Al tempo i dibattimenti con quei personaggi del grande crimine si trasferivano lontano dalla Sicilia per “legittima suspicione”, legittimo sospetto. Troppi condizionamenti e troppe paure. Il primo processo si era chiuso alla vigilia del Natale del 1968 con una raffica di assoluzioni. Tutti liberi i Chiaracane, i Manzella, i Di Peri, Tommaso Buscetta e Stefano Bontate, i Nicoletti. E così pure il secondo, nel giugno del 1969. Tutti assolti per insufficienza di prove i Bagarella, Totò Riina e Bernardo Provenzano, Luciano Liggio. Più che Corti d’Assise quelle sembravano Corti dei miracoli. Magistrati docili, processi costruiti con una manciata di indizi, rapporti di polizia arrangiati, liste di nomi seguite da altre liste che contenevano burocraticamente solo i precedenti penali di ciascun imputato. Non c’era altro.

Il giudice Falcone ha la consapevolezza che bisogna istruire altrimenti i processi di mafia. Proprio come ha cominciato a fare con le sue indagini nelle banche. Perché quei boss sennò restano sempre liberi e innocenti, con trucchi e cavilli i loro consigliori “buttano i processi in nullità” e all’Ucciardone i mafiosi passano solo in transito. Per la “villeggiatura”, dicono loro. Tutti alla settima sezione, al terzo piano, territorio proibito per gli altri detenuti. Un carcere nel carcere riservato agli uomini d’onore, celle aperte, l’infermeria a disposizione per i summit, il vitto carcerario rifiutato perché “è il mangiare del governo”. All’Ucciardone entrano anche i latitanti. Di giorno le aragoste, di notte le buttane. Quando a Palermo arriva il giudice istruttore Falcone per questo mondo è l’inizio della fine.

Falcone è solo ma non proprio solo. Accanto a lui, c’è un altro magistrato. Si chiama Paolo Borsellino, segue le indagini sull’omicidio del commissario Boris Giuliano e sulla misteriosissima “mafia del Parco”. E anche quella sulla morte del capitano Emanuele Basile, il comandante della compagnia dei carabinieri di Monreale ammazzato la notte del Santissimo Crocifisso, il 4 di maggio del 1980. Prima, all’Epifania, hanno ucciso anche il presidente della regione Piersanti Mattarella. Dopo, ad agosto sempre del 1980, il procuratore capo della repubblica Gaetano Costa. Palermo è in guerra. E barricati nei loro fortini ci sono una dozzina di uomini che investigano sui vivi e sui morti della città. Si muovono come ombre.

Guglielmo Incalza all’”investigativa” della Mobile, il tenente Diego Minnella e il capitano Tito Baldo Honorati del reparto operativo dei carabinieri, il maresciallo Angelo Crispino e il colonnello Elio Pizzuti della Guardia di Finanza. Poi ne arrivano altri. Ciccio Accordino, Beppe Montana, Ninni Cassarà. Poliziotti. E Angiolo Pellegrini, un ufficiale dell’”anticrimine” dell’Arma. Sono loro che danno la caccia ai mafiosi. Ma loro sono anche le prede.

“Quel giudice è un problema”.

Il salone da barba è il luogo più vietato. Gente che va e viene, vetrine all’affaccio, rischioso. E al cinema non ci va più, bisogna liberare tre file avanti e tre dietro. Nemmeno al ristorante. Ci prova una volta. Una sera entra in una trattoria di Mondello, si siede con un amico in un angolo e i vicini cambiano tavolo. Da quando ha in mano l’indagine su Rosario Spatola il giudice Falcone è l’uomo più protetto d’Italia. Le strade della città sono attraversate da cortei blindati, garitte, elicotteri che sfiorano i tetti dei palazzi. Un pomeriggio sta tornando a casa e sente dire a un passante: “Certo, che per essere protetto in questo modo, deve aver fatto qualcosa di veramente malvagio”. C’è una Palermo che lo ammira e c’è una Palermo che lo detesta. Ci sono quelli disturbati dal rumore delle sirene e altri terrorizzati dalle sue inchieste. A tutti dà voce Patrizia Santoro, “un’onesta cittadina” che invia una lettera al “Giornale di Sicilia” che (molto) volentieri la pubblica: “Regolarmente tutti i giorni –non c’è sabato o domenica che tenga- al mattino, nel primissimo pomeriggio e alla sera –senza limiti di orario- vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora, mi domando: non è che questi egregi signori potrebbero essere piazzati tutti insieme in villette di periferia della città, in modo tale che sia tutelata l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione?”. L’amministratore del condominio di via Notarbartolo dove abita gli fa recapitare una raccomandata: “Decliniamo ogni responsabilità per i danni che potrebbero essere recati alle parti comuni dell’edificio”.

Falcone fa paura. Anche dentro il suo Palazzo di Giustizia. Denigrato apertamente da un paio di colleghi, come Beniamino Tessitore e Giuseppe Prinzivalli. Altri si fingono amici, come Vincenzo Geraci. E’ malvisto da procuratori capi, procuratori generali, presidenti di sezione di Tribunale e di Appello, mummie che escono allo scoperto solo alle inaugurazioni degli anni giudiziari e patiscono quel magistrato che sta dimostrando una notevolissima capacità investigativa e ha un sacro rispetto delle regole, mai accomodante, che si muove con una decisione fino ad allora sconosciuta. Uno da tenere alla larga. Dentro il Palazzo Falcone ha pochissimi amici. In procura solo uno: Giuseppe Ayala. Si vedono anche fuori. Ayala, che è uno dei pubblici ministeri ai quali i giudici istruttori inviano gli atti sulle indagini di mafia, è il suo contatto con quel poco di vita lontano dal bunker dove è rinchiuso. E’ un sepolto vivo sempre più famoso, Falcone. In Sicilia e in Italia. E anche negli Usa. Almeno una volta la settimana parla al telefono con Richard Martin, il procuratore che sta indagando sulla Pizza Connection, siciliani che esportano negli States quintali di stupefacenti e che hanno scelto come quartiere generale un paio di pizzerie di Brooklyn. Ha un rapporto fraterno con Louis Freeh, che da lì a poco viene nominato direttore dell’Fbi. E’ in intimità con Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di Manhattan e che sarà poi anche sindaco di New York. Tutti e tre gli americani –che hanno messo gli occhi sui Gambino di Cherry Hill- non fanno un passo senza chiedere prima un consiglio a lui.

Ma il giudice che ci invidiano in America sta cominciando a diventare un “problema” per l’Italia. Magistrati e avvocati lo chiamano “giudice planetario” per le sue missioni in Thailandia e in Canada. “Ma dove vuole andare a parare questo Falcone?” sussurrano nei corridoi e al bar del Palazzo. Siamo nei primi anni ’80 e per Palermo è già un corpo estraneo. E’ un magistrato mal tollerato dalla magistratura, ha una sapienza giuridica che non piace ai tecnici del diritto, è slegato dai partiti e dalle fazioni della corporazione. E’ fuori posto, Falcone. In tribunale. A Palermo. A Roma. E’ un italiano fuori posto in Italia.

Francesca la incontra a casa di amici e se ne innamora. Anche lei è magistrato, alla procura dei minori. Figlia di magistrato e sorella di magistrato, Alfredo Morvillo, che è un sostituto procuratore. Una relazione come tante. Ma cominciano a circolare pettegolezzi nel Palazzo, veicolati da qualche toga e dai soliti due o tre avvocati. Il pretesto per un intervento “moralizzatore”. E’ sempre Pizzillo, il primo presidente –quello che voleva “caricare di processi Falcone” per non farlo indagare sulle banche- che un giorno lo convoca e gli comunica che scriverà al CSM. “Date scandalo”, dice. E gli fa capire che sta partendo una proposta di trasferimento per “incompatibilità ambientale”. Falcone non fa una piega.

Ha altro a cui pensare. Agli attacchi che gli arrivano da Corrado Carnevale, l’”ammazzasentenze”, il primo presidente della sezione penale della Suprema Corte che ha già cassato quasi 500 verdetti di processi di mafia e terrorismo. E’ in agguato “la leggenda in ermellino”, al varco ad aspettare l’inchiesta di Falcone iniziata con il boss Spatola. Sta aspettando il maxiprocesso di Palermo per distruggerlo. In un’Italia che si scopre supergarantista con i mafiosi, c’è un “partito” contro Falcone “che vuole arrestare tutti”. Ogni giorno il giudice ingoia veleno. Il foglio della città, il “Giornale di Sicilia”, l’organo ufficiale del potere palermitano, gli dedica velenosi commenti su “come si fa veramente il giudice” e sulle “comiche finali di strani magistrati che popolano il proscenio giudiziario dei nostri tempi”. E altri articoli contro una struttura giudiziaria specializzata nella lotta alla mafia, che hanno appena creato all’ufficio istruzione. Il seme l’ha gettato Rocco Chinnici. Ma il vecchio consigliere è morto anche lui: un’autobomba, il 29 luglio del 1983. Un mese prima hanno ucciso il capitano dei carabinieri Mario D’Aleo, l’ufficiale che aveva sostituito Emanuele Basile a Monreale. Un anno prima è toccato al segretario regionale del Pci Pio La Torre e al prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Palermo città mattatoio. Al posto di Chinnici arriva da Firenze Antonino Caponnetto. Dopo una settimana riunisce tutti nella sua stanza e annuncia che ora c’è un gruppo di magistrati che si occuperà solo di indagini di mafia: Falcone, Borsellino, Guarnotta, Di Lello. Il pool. Dicembre 1983.

 

                                                        Attilio Bolzoni