Il teatro religioso a Roma nei primi anni della Controriforma
Questo testo è estratto da un capitolo della mia tesi di laurea, discussa nel lontano aprile 1968, relatore il prof. Giovanni Macchia, correlatore il prof. Giorgio Melchiori, pp. 123-146. La ricerca si intitolava: “Il teatro e lo spettacolo a Roma durante i pontificati di Gregorio XIII e Sisto V”.
Premessa.
Prendendo a parlare degli sviluppi del cosiddetto teatro religioso a Roma, o meglio delle manifestazioni variamente teatrali che le autorità ecclesiastiche credettero utile promuovere, è necessario fare una premessa. Nei primi anni del ‘500 c’era stata nella città una vita artistica multiforme e ricca, permeata da un’altissima tensione intellettuale. Leone X aveva consolidato lo Stato, aveva raccolto intorno a sé una società di banchieri, di ricchi borghesi, di diplomatici, intellettualmente brillanti, raffinati, intraprendenti; però il momento di felice concretezza che questa società aristocratica e conservatrice aveva saputo raggiungere era stato breve ed effimero. Gli ideali erano stati la stabilità, la stasi, l’immobilismo, ma essi furono incapaci di realizzare concretamente queste loro aspirazioni, in connessione con una serie di decisivi avvenimenti politico-religiosi quali, nel 1517, la pubblicazione delle tesi di Lutero a Wittenberg, le successive rivolte dei contadini in Germania, la morte di papa Leone nel 1521 e il sacco di Roma nel 1527.
I bagordi che avevano avuto luogo nelle sale dei palazzi vaticani non erano però che la spia di un più generale rilassamento dei costumi, di un involgarimento dello spirito religioso in tutte le classi sociali, e magari di un revival di tutta una tradizione di superstizioni, di paure, di magie stregoniche. Se papa Adriano VI nel 1522 così poteva scrivere al suo nunzio Chieregati: “Sappiamo bene che anche presso questa Santa Sede già da anni si sono manifestate molte cose detestabili: abusi in cose ecclesiastiche, lesioni dei precetti, anzi che tutto s’è cambiato in male. Non è pertanto da fare meraviglia se la malattia s’è trapiantata dal capo nelle membra, dai papi nei prelati. Tutti noi abbiamo deviato dalla strada del giusto e da lunga pezza non v’è stato più alcuno che abbia fatto bene” (P. Brezzi, “Le riforme cattoliche dei secoli XV e XVI”, Roma, 1945, p. 45), non è men vero che l’analisi del buon pontefice peccava un po’ di semplicismo nell’individuare e nel caratterizzare le cause di quel dilagante malcostume. L’esempio disgregatore era partito da Roma ma rifletteva puntualmente anche la condizione di una società in frenetico movimento, in anni che stavano preparando enormi mutamenti storici e politici e un notevole rimescolamento anche di classi sociali. Il malcostume ecclesiastico e laico era generale, l’impreparazione dottrinale del clero comunissima, i litigi fra i vari ordini monastici cose di tutti i giorni, inesistente la disciplina, il prestigio di preti e frati bassissimo e infinite sono le testimonianze dei cronisti e degli scrittori dell’epoca, riflettenti in vario tono, sardonico e irridente in alcuni, amaramente pensoso in altri, le penose condizioni della religione. Un sacerdote, ad esempio, Lorenzo Davidico, così osserva e descrive il modo di vivere e di sentire dei suoi confratelli: “Quanti non vanno nel habito conveniente secondo li sacri canoni, sono concubinarii, simoniaci et ambitiosi? Quanti portano arme a guisa de soldati et de secularazzi, bravandole con questo o con quello? Quanti dicono due Messe al giorno, che Dio volesse ne potessero dir bene una in vita sua? Ohimé, pare che hoggi si faccia una bottega e mercantia del sangue di Christo: non accade dica altro di questo, perché la cosa è tanto grossa che la si palpe con le mane e con li piedi. Quanti vanno all’altare con li propri figlioli a cerca? Et di quelli chi li porta il libro, chi li dà l’acqua alle mane e chi l’aiuta a vestire e disvestire, finita la messa (…) Non ti meravigliare, lettore, perché il tutto ho per esperientia visto in diversi lochi con li proprj occhi (…) Quanti prestano usura, fanno molti contratti illiciti e mercantie de bovi e de cavalli? Quanti vendono le sepulture, il sonar delle campane, il portare della croce avanti alli morti, il dire officii per quelli, et li sacramenti della chiesia? Quanti sono cazzatori, balestrieri sfrenati e scopeteri? Quanti sono per la sua accidia così inimichi delli divini officii, per non haver gusto di devotione, che stanno molto dalla longa della chiesia, temendo forse che non li casca alle spalle? In li chori si sa come la va, perché molti dicono l’officio parlando, sub ridendo fra loro, spesseggiando come se li scotasse la bocca. E chi facesse altramente saria deleggiato, trattato de santono, pizochero o da cappo torto (…) Adesso in chi de voi si trova charità, patientia, modestia, umiltà, fede et altre virtù, quali convengono a sacerdoti? Chi corrisponde alla sua vocatione di voi, tepidazzi?”.
Questo stato di cose appariva insostenibile alle menti più avvertite e sinceramente religiose della Chiesa cattolica, e perciò fu tutto un susseguirsi di pressioni presso il papa Paolo III Farnese affinché provvedesse a porvi rimedio. Si pubblicarono bolle riformatrici, si nominarono commissioni per eseguire le riforme e si fecero preparativi per il concilio ecumenico. Esorbita da questa trattazione il parlare del Concilio di Trento e delle complicate problematiche ad esso connesse, ma le risultanze ed i decreti di quell’assemblea furono di eccezionale importanza. La Chiesa prendeva nuovamente coscienza del suo potere, si era ormai riorganizzata e ristrutturata, e si accingeva a quell’opera di persuasione e di intimidazione che la caratterizzeranno negli anni a venire. Ci si era già mossi su questa via: il 21 luglio del 1542 Paolo III aveva istituito l’Inquisizione Romana, dietro suggerimento dei cardinali Carafa e Giovanni Alvarez di Toledo, con suprema ed universale giurisdizione su tutte le cose riguardanti la fede e su tutti i tribunali dell’Inquisizione che operavano nelle diverse regioni. Questo indirizzo rigoristico fu portato decisamente innanzi dallo stesso Carafa, divenuto poi papa Paolo IV (1555-1559), che estese la competenza inquisitoriale non solo alle bestemmie ed alle offese, anche lievi, contro la religione ma anche ai reati contro il buon costume, l’adulterio, la bigamia e simili. Questi progressivi rigorosi giri di vite non impedirono però i divertimenti e gli spettacoli, che continuarono come al solito, anzi proprio questi anni, come abbiamo visto nei precedenti capitoli, videro infittirsi a Roma gli spettacoli della commedia dell’arte, l’avvicendarsi delle prime compagnie comiche e perfino la costruzione di un teatro stabile nella centrale via Giulia. Ma quando nel 1564 furono pubblicati i decreti del concilio tridentino, quando cominciò ad imporsi anche alle classi dirigenti un nuovo senso della religiosità –più severo e castigato-, quando infine salì al pontificato il vecchio Inquisitore fra Michele Ghislieri, che prese il nome di Pio V (1566-1572), improvvisamente a Roma si diradarono gli spettacoli e si spense progressivamente il clamore d’ogni festa.
Una nuova, attiva religiosità.
Questa nuova religiosità, questo nuovo ardore di preghiera e di penitenza non nacque improvvisamente per delle ragioni così evidentemente artificiali, volute ed imposte dall’alto. S’era sempre sentito il bisogno, specialmente nei momenti più burrascosi, di una decisa sterzata morale, del conforto d’una fede più sicura e d’una vita religiosa più concreta. Tutte le paure, le angosce, i dubbi, i terrori, che in modi diversi toccavano la gente delle varie classi in ogni parte della Penisola, si evidenziavano in forme differenti: sembrava prevalere una tendenza al misticismo e all’ascetismo, una pratica e una devozione più fervide, anche se accompagnate da paure superstizioni volgarità che pur contribuivano per la loro parte.
I nuovi ordini religiosi, i gesuiti soprattutto, i teatini, i barnabiti, i filippini promossero numerosissime forme di nuova attiva religiosità; si infittirono le organizzazioni assistenziali, rifiorirono le confraternite eucaristiche, rinacquero i Dialoghi, le conferenze-meditazioni, i Colloqui, ci si infiammò per le recitazioni catechistiche (“I ragazzi ben preparati ripetono il catechismo alla presenza di un numeroso pubblico di genitori, parenti ed altri devoti, che vi accorrono come a pio ed istruttivo trattenimento”), si crearono nuove pratiche di culto, insomma fu un momento magico per il cattolicesimo ed importante per le soluzioni che in quegli anni si dettero a problemi nuovi per le gerarchie cattoliche.
La soppressione degli spettacoli profani, ed anche delle ultime Sacre Rappresentazioni (proibite nel 1539), aveva naturalmente lasciato nel cielo psichico delle folle un vuoto che doveva essere riempito con qualsiasi accorgimento. E così ci si sbizzarrì ad inventare nuove inusitate forme di culto, ad infiocchettare quelle già esistenti, a rendere tutto fastoso opulento teatrale. La Chiesa non inventò ex novo e non impose essa sola questo gusto: tutta la società tendeva ad irrigidirsi nella pompa e nell’etichetta, si smaniava per i titoli, si diffondeva la spasmodica osservanza delle convenienze e l’esasperata rivendicazione delle precedenze, e questo vuoto fasto, questi abusi ed impennacchiate riverenze si attagliavano alla perfezione al carattere assunto dal cattolicesimo post-tridentino. D’altronde tutta l’età, a cavallo tra ‘500 e ‘600, si rivela come ossessionata dalle novità: prima negli intermezzi, poi negli apparati, nelle sistemazioni di giardini e fontane ed infine nell’arte monumentale (si pensi alla stupefacente gesticolazione di Bernini e al nervoso dinamismo borrominiano). E non ci si meraviglierà perciò di tutti gli spettacoli sacri e profani che numerosissimi s’incontrano nei documenti: processioni, luminarie, girandole, catafalchi, imprese, tornei, cacce, emblemi, caroselli, corse di tori e di cavalli, macchine, archi, statue di cartone (cfr. il capitolo, “Per un’iconologia degli automi”, in “L’antirinascimento” di E. Battisti, Milano, Feltrinelli, 1962).
La prima preoccupazione fu quella di distogliere il popolo dalle feste e dagli intrattenimenti profani con ogni sorta di pressioni, di minacce, di paurose visioni infernali e di più pratici accordi con le autorità civili. Nel nostro caso, trattandosi di Roma, città direttamente sottoposta al potere ecclesiastico, il problema del rapporto autorità religiosa – autorità civile non si poneva: l’amministrazione capitolina poteva ben poco contro i voleri pontifici. Ma altrove questi rapporti furono di estrema evidenza e di grande normatività, soprattutto nei loro aspetti negativi o di più forte frizione. Un’analisi capillare potrebbe esser fatta soprattutto topograficamente, diocesi per diocesi; si può parlare infatti di un gusto religioso particolare, determinato localmente dall’influsso di una grande personalità, creatrice di una nuova devozione e suscitatrice di rinnovati entusiasmi religiosi. Piena di utili notizie, a questo scopo, è l’opera di G.B. Castiglione, “Sentimenti di S. Carlo Borromeo intorno agli spettacoli”, 1759.
Furono proprio i nuovi ordini religiosi, con alla testa gesuiti e filippini, a cercare nuove vie e i primi risultati non si fecero attendere. Una rappresentazione teatrale a Macerata, nel carnevale del 1556, fornì uno dei primi banchi di prova a questa nuova tattica degli ordini religiosi. Infatti leggiamo nel Tacchi-Venturi: “Di quei giorni avevano messo in iscena una commedia, o dramma, così impura ed oscena, da farne arrossire i teatri stessi pagani. Due missionari gesuiti, il portoghese Emanuele Gomez e il belga Giovanni Montaigne, per ritrarre la parte più sana del popolo dalla lurida rappresentazione, vennero in pensiero di esporre per quaranta ore il Santissimo con bello e inusitato apparato di lumi e di addobbi. L’espediente riuscì a meraviglia: il popolo, risvegliata la fede, non esitò a preferire la chiesa alla scena. Il favore che l’ingegnoso trovato ebbe in Macerata contribuì grandemente a raccomandarlo dappertutto, dov’era possibile usarlo, anche in piccoli luoghi e miseri collegietti…”. Ecco, questo delle “Quarantore” fu proprio uno dei primi ritrovati della fantasia ecclesiastica: è bene precisare che essi furono ideati con intenti essenzialmente religiosi, pieni anzi di un lodevole fervore, ma la loro strumentalizzazione fu evidente e proclamata, e voluta anche dalle più autorevoli personalità.
Possiamo perciò definire quattro ben orientate ripartizioni nel più vasto insieme dell’attività religiosa in questo campo, a Roma ed anche nel resto della penisola, negli anni 1570-1590. Ad un primo livello incontriamo questi fenomeni di teatralismo ingenuo, volto a soddisfare ed attrarre i bisogni istintivi della folla e quelli più sollecitati delle classi nobiliari, con un tono di voluta ostentazione e di rigido decoro, e che trovavano il loro contraltare anche nelle semplici funzioni dei piccoli centri, dei paesi e villaggi, prive di qualsiasi tono mondano e vacuo. Ad un grado di superiore consapevolezza si pongono i tentativi di alcune organizzazioni, prima fra tutte quella dei Filippini, di trovare e mettere in pratica nuovi procedimenti che potessero convogliare gente alle pratiche religiose, che impedissero stanchezza e che anzi ravvivassero l’attenzione dei fedeli. E’ proprio il fondatore dei Filippini, S. Filippo Neri, che teorizza ed illustra ampiamente, in una lettera a papa Gregorio XIII, queste nuove forme di riunione e di devozione e si rallegra col pontefice del successo incontrato. Vale la pena di riportare le sue parole per intero: “La nostra Congregatione, oltre li cotidiani ragionamenti spirituali, che si fanno nel nostro oratorio, è stata solita li giorni di festa fare li medesimi esercitii sotto specie di ricreazione in diverse parti di Roma e, per più allettare ogni sorta di persone, tra i ragionamenti de’ sacerdoti, si suol far recitare a qualche putto alcun Sermone di edificazione; e si è visto che Nostro Signore si è servito con ognuna di queste reti, per pescar anime. L’anno passato questi esercitii furono continuati nel cortile della Minerva con molto maggior concorso dell’ordinario tutta la estate, e quest’anno s’è fatto il medesimo continuamente, sicché son durati i tempi buoni, nella Vigniuola della compagnia dei Napoletani, con concorso forse di tre o quattromila persone, et hora colla medesima frequenza si è trasferito nella chiesa dei Bresciani in strada Giulia. La pratica ha mostrato che, inserendosi tra gli esercitii gravi fatti da persone gravi la piacevolezza della musica spirituale e la semplicità e purità dei putti, si tira molto più popolo di ogni sorte” (Marciano, “Memorie historiche della Congregation dell’Oratorio”, Napoli, De Bonis, 1693-1699).
Ma questi soli metodi non potevano bastare. D’accordo, la folla sentiva nuovamente il fascino della preghiera, si vedevano con molta frequenza processioni interminabili con penitenti incatenati e piagati (spettacoli visti e descritti anche da Montaigne), moltitudini oceaniche accorrevano nelle chiese in occasione di giubilei ed anni santi, ma il tutto doveva essere bello e spettacoloso: le processioni erano pie e ferventi, ma con tante bandiere, divise e trofei, con un così ricco profluvio di velluti paonazzi e pose impettite, con un sì gran numero di gonfaloni da far pensare a cortei e riviste più che a forme di espiazione.
Con gli anni le nuove processioni figurate si erano ingigantite ed avevano raggiunto una perfezione unica in Europa. Un “Avviso di Roma” del febbraio 1583 riporta: “Il popolo con molta pietà et devotione prese parte alli Trionfi e spettacoli spirituali delle Passioni della Quaresima, i quali si sa che non si vedevano altrove che a Roma, et di tanta ammiratione degni che di ragione erano invidiati dalli esteri per la loro singolarità” (Cod. urb. 1051, Archivio della Biblioteca Vaticana). Soprattutto esse avevano finito col formare oggetto di rivalità e gara fra le varie Confraternite e Compagnie di cui Roma rigurgitava: nelle occasioni solenni c’era un vero e proprio spiegamento di forze, un’autentica Rassegna, e una sfilata a chi inalberava più stendardi, a chi incolonnava più gente, a chi annoverava nelle proprie file più personalità rappresentative, e infine a chi portava la reliquia più preziosa e più santa.
Gradatamente queste processioni, nel corso del ‘600, si trasformeranno in autentiche rappresentazioni, con vere e proprie note di mondanità. Nel 1665 si vedrà “una macchina grande che rappresentava sopra un talamo la Madonna Santissima del Gonfalone, con molte signore (…) che accompagnavano e compiangevano Maria, che teneva in braccio il Figlio distaccato dalla Croce” e dietro “104 battenti quasi tutti a sangue, apportando onore e pietà a chi li mirava, accompagnati da Religiosi e Fratelli della Compagnia che li portavano li rinfreschi”.
Gennaro Cucciniello