Belli. “Caino”, 6 Ottobre 1831.

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “L’abbibbia romanesca”. “Caino”

 

Le poesie di Belli sono quadretti di genere, bozzetti naturalistici, un’infilata di macchiette popolane o sono costruite su una matrice molto più complessa e profonda? In alcuni sonetti il suo popolano è stato definito “un dottoretto plebeo”: attraverso l’inusuale interprete il poeta rilegge anche le Sacre Scritture, unificando comico e tragico. L’illustrazione colorita e ingenua della Genesi biblica ha tutte le tonalità del comico ma nasce da un sentimento tragico della vita: la comparsa dell’uomo sulla terra sembra un fatto del tutto fortuito e da subito si accompagna a severe proibizioni la cui violazione suona sinistramente fatale. Il realismo è demitizzante e perfino blasfemo. Quella Bibbia tanto raccomandata e idoleggiata dai romantici è letta dal Belli con la spregiudicatezza di Voltaire. Anche se rilegge la Bibbia, il nostro poeta è tutto al di qua, nel mondo dei vivi e del grande apparato ecclesiastico, la monarchia assoluta e per diritto divino con cui ai romani (e oggi agli italiani) tocca convivere, ne scopre anzitutto le umane debolezze, mimetizzate appena dal rosso cardinalizio. Tanti sonetti, che insistono sull’effetto comico del linguaggio plebeo e sull’ingenuità oggettiva del popolano che parla, dissimulano sempre un’ironia di tipo illuministico e approdano ovviamente a risultati sconsacratori.

Momenti ed episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento sono presi come spunto per un gruppo di sonetti nei quali il poeta rappresenta l’interpretazione, da parte dei popolani romani di ciò che si sentiva in chiesa nelle prediche e nelle letture e di quello che ci si raccontava nelle osterie e nelle case: se ne ricava una geniale mescolanza di “alto” e di “basso”, di verità rivelata, di prosopopea pedagogica clericale e d’immediatezza d’immagine del parlare quotidiano.

“C’è un dato stilistico ma anche ideologico: il poeta Belli, il letterato, nel momento in cui descrive la realtà popolare della sua Roma scompare, cede completamente la parola al personaggio che racconta, che descrive, che impreca, dice arguzie o protesta. Non solo i testi sono scritti nella lingua di questi personaggi ma ne riportano in maniera diretta le idee e i sentimenti. Ma rimane un dubbio. In quale misura il poeta mescola la sua voce a quella del personaggio? La rappresentazione è strumento di denuncia d’una realtà degradata o si ferma alle soglie della descrizione realistica di un mondo da cui il poeta si sente comunque estraneo? La risposta a queste domande impegna ancora la critica”.

La tensione verso la rappresentazione realistica spiega anche la sua puntigliosità filologica; l’adesione completa tra poesia e oggetto descritto si concretizza proprio nella lingua che assume caratteri assai vicini a quelli del parlato. “D’altra parte proprio la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che il poeta rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative ma nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona. E la parola esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con cui il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

Caino                                                          6 ottobre 1831

 

Nun difenno Caino io, sor dottore,

ché lo so ppiù de voi chi ffu Caino:

dico pe dì che quarche vorta er vino

pò accecà l’omo e sbarattaje er core.                                                         4

 

Capisch’io pure che agguantà un tortore

e accoppacce un fratello piccinino,

pare una bonagrazia da burrino,

un carcio-farzo de cattiv’odore.                                                       8

 

Ma quer vede ch’Iddio sempre ar zu’ mèle

e a le su’ rape je sputava addosso,

e no ar latte e a le pecore d’Abbele,                                                 11

 

a un omo com’e noi de carne e d’osso

aveva assai da inacidije er fele:

e allora, amico mio, taja ch’è rosso.                                                 14

 

Non difendo Caino io, signor dottore, signor saccente, perché molto meglio di voi io so chi fu Caino: aggiungo e voglio solo dire che qualche volta il vino può accecare l’uomo e cambiargli i sentimenti, mutargli il cuore. Io capisco anche che afferrare un bastone e con quello ucciderci un fratello più piccolo sembra un atto da burino, da contadino forestiero e ignorante, un calcio dato a tradimento… Ma quel vedere in continuazione che Dio al suo miele e alle sue rape –portati in dono- gli sputava addosso, mentre faceva gli occhi dolci al latte e alle pecore di Abele, a un uomo come noi “di carne e d’osso” gli inacidiva moltissimo il fiele. E allora, amico mio, “taglia che è rosso” (questa è una frase usata per esprimere l’abbandono di ogni riguardo e di ogni esitazione, il perdere il lume della ragione. E’ una metafora ripresa dal grido usuale dei “cocomerai” nelle piazze di Roma).

Nella “Genesi” biblica è scritto (4, 1-16): “Or Adamo conobbe Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino, e disse: “Ho acquistato un uomo, con l’aiuto dell’Eterno”. Poi partorì ancora Abele, fratello di lui. E Abele fu pastore di pecore; e Caino, lavoratore della terra. E avvenne, di lì a qualche tempo, che Caino fece un’offerta di frutti della terra all’Eterno; e Abele offerse anch’egli dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. E l’Eterno guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e l’offerta sua. E Caino ne fu molto irritato, e il suo viso ne fu abbattuto. E l’Eterno disse a Caino: “Perché sei tu irritato? E perché hai il volto abbattuto? Se fai bene non rialzerai tu il volto? Ma, se fai male, il peccato sta spiandoti alla porta, e i suoi desideri son volti a te; ma tu lo devi dominare!”. E Caino disse ad Abele suo fratello: “Usciamo fuori ai campi!” E avvenne che, quando furono nei campi, Caino si levò contro Abele suo fratello, e l’uccise. E l’Eterno disse a Caino: “Dov’è Abele tuo fratello?” Ed egli rispose: “Non lo so; sono io forse il guardiano di mio fratello?” E l’Eterno disse: “Che hai tu fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra. E ora tu sarai maledetto, condannato a errar lungi dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue del tuo fratello dalla tua mano. Quando coltiverai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti, e tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra”. E Caino disse all’Eterno: “Il mio castigo è troppo grande perch’io lo possa sopportare. Ecco, tu mi scacci oggi dalla faccia di questo suolo, ed io sarò nascosto dal tuo cospetto, e sarò vagabondo e fuggiasco per la terra; e avverrà che chiunque mi troverà mi ucciderà”. E l’Eterno gli disse: “Perciò, chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui”. E l’Eterno mise un segno su Caino, affinché nessuno, trovandolo, l’uccidesse”. E Caino si partì dal cospetto dell’Eterno e dimorò nel paese di Nod, ad oriente di Eden”.

 

Sonetto: (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

Le quartine. Le due strofe servono da antefatto. A cementarle è la riproposizione ostentata dell’io, della soggettività meditativa del popolano che è l’interlocutore dell’ironico “sor dottore”. “Nun difenno Caino io” (v. 1), “lo so ppiù de voi” (v. 2), “dico pe dì” (v. 3), “capisch’io pure” (v. 5). Poi arrivano, inaspettate, le attenuanti: il vino, intanto. Questo Caino è tirato giù dalla Bibbia e fatto camminare per le vie di Roma, portato a ubriacarsi nelle sue osterie (prima che Noè abbia inventato il vino). Il colpevole è giudicato, sì, ma anche compatito, compreso, secondo una carità cristiana che si rende conto della debolezza dell’uomo e gli accorda le attenuanti: la provocazione, l’ubriachezza. Belli giungerà a chiamare Lucifero “quer povero cristiano der demonio”. Però è da notare un sottile distinguo, di tono colpevolista: “agguantà un tortore e accoppacce un fratello piccinino” (vv. 5-6), con l’enjambement che lega le due azioni e con la rima “piccinino-burrino, è una soluzione che ci presenta un Caino violento e brutale oltre ogni misura. Sembra quasi che il peccatore Caino nasca come una conseguenza del plebeo romano. Ma io voglio anche pensare che Caino alla fine uccida per recidere il legame di sangue. Non vuole essere il custode di suo fratello. Essere custode è un compito insopportabile, una responsabilità sfiancante. Il legame di sangue è un legame non scelto, che ci impone la responsabilità dell’Altro anche se non c’è stato mai un momento in cui abbiamo deciso di assumercela.

Le terzine. Giustificare il male commesso dagli uomini “de carne e d’osso” non è il più letale dei veleni che qui si respirano. Ma c’è anche un Dio maligno che sputa senza giustificazione sulle rape e sul miele di una sua creatura, quasi con lo scopo di spingerlo al peccato e poi di punirlo. E’ la natura di questo Dio, l’immagine di un Dio fra capriccioso ed ingiusto,  la causa e insieme la giustificazione del peccato. E’ questo Dio, crudelmente giocherellone e terribile, la causa delle disgrazie di Caino e della città umana da lui fondata? La prima figura dannata della storia dell’umanità diventa, con un rovesciamento audace, il simbolo dell’ingiustizia del destino. Belli doveva sentire fortemente il problema della predestinazione che, posto in termini tragici da S. Agostino, non ha mai cessato di turbare la coscienza cristiana. Certo, non si potrà mai definitivamente eliminare l’ambiguità profonda che ogni essere umano si porta dentro. Nessuno di noi è immune dall’odio, dall’invidia, dalla volontà di dominio. Ma c’è anche da riflettere sulle parole che Dio dice a Giobbe con un pizzico di spavalderia nella voce: “Sei tu a dare ali attraenti ai pavoni? O ali e piume allo struzzo?” (Giobbe, 39: 13).

Il segreto del Male nascosto nelle cantine dell’anima. Un mondo ossessionato dalla guerra tra il Bene, che è sempre e solo dei giusti, e il Male, che è sempre e solo degli empi. Belli rifiuta la semplificazione morale della Bibbia coatta della sua infanzia, ripetuta nelle infinite prediche che risuonavano dai pulpiti delle chiese di Roma, e rende il conflitto tra fratelli un conflitto che rivive nel cuore di ognuno. L’uomo è duplice, sembra dirci, un empio e un giusto nella stessa persona, perché la guerra tra Bene e Male è ambigua. Domandiamoci: cosa è il Bene e cosa è il Male. Si dice che siano necessari l’uno all’altro per poter reciprocamente esistere di fronte a un essere vivente che ha conoscenza di sé. L’esistenza dell’uno fa la differenza dell’altro come accade tra la luce e il buio, tra la salute e la malattia, tra l’esistenza e la non esistenza. Il nulla non è definibile né pensabile perché privo di alternativa. Il poeta avrebbe potuto ripetere le parole del profeta Geremia: “Il cuore dell’uomo è fraudolento sopra ogni altra cosa, e disperatamente insanabile. Chi lo conoscerà?”.

Qualcuno ha suggerito che Belli, “nascondendosi perfidamente dietro la maschera del popolano”, quindi attraverso le maglie di un’oggettività narrativa, “abbia voluto far filtrare i segni di suoi eventuali eppure assai turbati convincimenti teistici; come può anche darsi che tale compromesso è l’unica soluzione che consente al cattolico Belli di essere, cattolicamente, ateo”.

Due giorni prima della scrittura di questo sonetto, il 4 ottobre 1831, Belli aveva composto “La creazzione der monno” e nella sua strofa conclusiva Dio malediva le sue creature: “Ma appena che a mmaggnà ll’ebbe viduti,/ strillò per dio con cuanta vosce aveva:/ -Ommini da vienì, sséte futtuti-“. Il grido di questa maledizione divina mi sembra strettamente collegato con questa storia della prima rivolta contro l’autorità divina, forse il primo e vero e proprio peccato originale. Da questa particolare prospettiva da cui è rivista la storia dell’uomo può originarsi il ribaltamento di piani, per cui Caino è sì condannato ma anche compreso e forse anche in parte giustificato. Come dimenticare, alla fine, che nel racconto biblico Dio, l’Eterno, sottopone Caino alla tentazione del peccato (“il peccato sta spiandoti alla porta, e i suoi desideri son volti a te, ma tu lo devi dominare” (4, 7) in modalità analoghe a quelle del serpente con Eva?

Mi piace, infine, -giunti a questo punto-, ricordare la fulminante sintesi di U. Saba sulla costitutiva dannazione italiana: “Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuto, in tutta la sua storia –da Roma ad oggi-, una sola vera rivoluzione? La risposta –chiave che apre molte porte- è forse la storia d’Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi, sono fratricidi: Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. Ma è solo col parricidio che inizia una rivoluzione. Gli italiani vogliono darsi al padre ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli”.

 

Quasi tre anni dopo Belli ritornerà su questo tema e scriverà:

 

Er Ziggnore e Caino                                        2 aprile 1834

 

“Caino!  Indov’è Abbele?” – E quello muto.

“Caino! Indov’è Abbele?” – Allora quello:

“Sete curioso voi! Chi l’ha veduto?

Che! So er pedante io de mi’ fratello?”                                4

 

“Te lo dirò dunqu’io, baron futtuto.

Sta a ffà tterra pe ceci: ecco indov’èllo.

L’hai cucinato tu cor tu’ cortello

quann’io nun c’ero che je dassi ajuto.                                  8

 

Lèvemete davanti ar mi’ cospetto:

curre p’er grobbo quant’è largo e ttonno,

pozz’èsse mille vorte maledetto!                                          11

 

E doppo avé girato a una a una

tutte le strade e le città der monno,

va’, cristianaccio, a ppiaggne in de la luna”.                     14

 

                                                           Gennaro Cucciniello