Berlusconi e Di Maio sul lettino
Il ritorno spettrale del leader di Forza Italia e la bipolarità del grillismo, che alterna cambi di rotta radicali su questioni decisive, sono due sintomi inquietanti di una politica che si lascia guidare dalla spinta pulsionale, oltre che da ragioni opportunistiche.
La scelta politica, compresa quella che si esprime nel voto, non dipende mai solamente da valutazioni razionali, ma incorpora sempre il carattere tumultuoso della spinta pulsionale. E in una congiuntura difficile per il nostro Paese come quella che stiamo attraversando questa spinta è fortemente sollecitata. Il fenomeno populista, nelle sue diverse facce, esprime l’essenza di questo dominio della pulsione sulla dimensione critica della ragione. La promessa di incantesimi di ogni genere che la campagna elettorale moltiplica ogni giorno non è un fenomeno tipicamente populista? Enunciare soluzioni magiche e semplificate di fronte a problemi complessi non è appellarsi alla pancia del popolo più che alla sua ragione critica?
Il ritorno spettrale del berlusconismo e la bipolarità politica del grillismo, che alterna con una frequenza impressionante cambi di rotta radicali su questioni decisive, sono ai miei occhi due sintomi inquietanti di una politica che si lascia interamente guidare dalla spinta pulsionale. Il berlusconismo appare come un chiaro residuo (immortale?) del discorso della pubblicità, dell’azione porta a porta dell’imbonitore, del pasticcere di cui parla Platone nel “Sofista” che, di fronte a dei piccoli pazienti doloranti, anziché prescrivere –come farebbe un medico coscienzioso- un rimedio restrittivo e impopolare, promette accessi illimitati a prelibatezze di ogni genere e specie. In questo modo egli guadagna un consenso facile mettendo però a rischio la salute e la vita dei suoi piccoli clienti.
Nel fenomeno del berlusconismo tutto sembra ripetersi uguale a se stesso a dispetto della mutazione dei tempi e dei problemi. La formula resta sempre valida: evocare il pericolo comunista, criticare l’azione vessatoria dello Stato, evocare l’invasione apocalittica dei barbari, promettere soluzioni miracolose che sono in realtà criticate da ogni valutazione tecnica (vedi, per fare un solo esempio, la cosiddetta “flat tax o tassa piatta”). Solo la maschera mummificata di questo leader monco –reso dalla Legge incandidabile- enuncia in modo inequivocabile la verità che le sue parole vorrebbero nascondere: il tempo esiste e lascia dei segni e questi segni parlano di un tramonto fatale e in aggirabile. Resta impressionante constatare come la tradizione liberale del centrodestra italiano si regga interamente sul fantasma della potenza incorruttibile del suo leader, come se la sua politica si riducesse alla custodia di una sorta di talismano ipnotico senza il quale di questo attuale centrodestra non resterebbe nulla se non le urla scomposte delle sue componenti più razziste e xenofobe. La difesa liberale dell’individuo e dei suoi insopprimibili diritti si è tristemente ribaltata nell’idolatria di un solo individuo e dei suoi poteri carismatici, ovvero in una vera e propria psicopatologia delle masse.
Il polo grillino è invece afflitto da una patologia bipolare sempre più evidente. Anche in questo caso bisognerebbe valutare attentamente l’incidenza della pulsione del loro leader (Grillo, non Di Maio) su questa oscillazione umorale che caratterizza la politica del M5S: non c’è una sola decisiva questione sulla quale questa oscillazione non appaia nei suoi caratteri più grotteschi. L’esempio dell’uscita o meno dall’euro e quello della cosiddetta democrazia interna (appesa e sospesa alla regia occulta di una Società a Responsabilità Limitata) sono, sempre ai miei occhi, fatti inequivocabili. Bipolarismo inquietante che coinvolge innanzitutto il suo candidato premier. Senza troppi giri di parole il mio mestiere di psicoanalista mi impone una domanda. Non quella consueta che da più parti viene rivolta a Di Maio, ovvero: come può un soggetto che non ha maturato nella sua vita competenze specifiche su nulla, che non ha mai lavorato in una istituzione, che non ha mai avuto incarichi di governo (di un’azienda, di una città, di una qualunque cosa pubblica) essere candidato alla guida di un Paese industriale di sessanta milioni di abitanti?
La mia domanda, invece, è un’altra e tocca un piano più pulsionale. Quale assenza di giudizio critico su se stessi comporta l’aver accettato questa candidatura? Lo sgomento di fronte all’ipotesi di un Di Maio premier non è per me tanto relativo alla sua incompetenza tecnica, quanto al gesto personalissimo dell’aver accettato, e forse anche sollecitato, questa investitura. Quanti accetterebbero un incarico di questa rilevanza senza avere la più pallida idea di cosa significhi governare la cosa pubblica? E’ questa assenza di consapevolezza dei propri limiti che fa davvero tremare i polsi. E’ il polo chiaramente maniacale o, se si preferisce, puramente adolescenziale del M5S. Un fantasma di onnipotenza e di purezza totalmente sganciato dalla realtà. Mi chiedo: ma Di Maio avrà avuto o avrà almeno una crisi di panico, un momento di vertigine o di angoscia? Glielo auguro perché sarebbe il segno che quell’onnipotenza maniacale che egli, così diverso nel sembiante, sembra aver ereditato dal suo fondatore e mentore Beppe Grillo, in realtà, non lo assorbe integralmente.
Massimo Recalcati
Articolo pubblicato in “Repubblica”, martedì 20 febbraio 2018