Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. 27° puntata. 20–25 Giugno 1799. “ Il re Borbone: nessuna pietà per i ribelli. La paura dell’anarchia motiverebbe il Ruffo alla clemenza. Nelson parte per Napoli. “Indirizzo” dei patrioti italiani al nuovo Direttorio francese: sia proclamata l’indipendenza dell’Italia. Nelson impone, con infamia, la violazione dei patti convenuti.”
Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.
Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.
Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.
“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”. In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.
Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.
Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.
Gennaro Cucciniello
20 Giugno. Giovedì. Napoli. In attesa della firma della capitolazione. “Circa le ore 21 si è veduta passare per Toledo una carrozza con quattro uffiziali, non so se tutti o parte di essi bendati, ed era la carrozza portata da molta cavalleria. Si son fermati a prender del sorbetto in mezzo alla Carità: indi hanno tirato a Palazzo. La durata del trattato fa sperare che sia per conchiudersi. La città è quietissima. La giornata è terminata tranquilla com’era cominciata: anzi non vi sono questa sera neanco i fuochi coi posti di guardia; i soli lumi ai balconi si veggono, e per le strade si sente molta allegria, andandosi cantando una canzone realista sul tuono della Carmagnola” (De Nicola, p. 250).
Palermo. Il Re scrive a Ruffo. Nessuna pietà per i ribelli. “Ora, è il tempo più propizio per formare una vera ed ottima armata, così di truppa di linea che leggiera, tutta di gente agguerrita, avvezza al fuoco ed a battersi coi Francesi, e che avendo prese le armi difficilmente s’adatterebbe a riprendere la zappa e le arti e mestieri, con mettere al comando de’ corpi questi stessi capi realisti, che fin’ora li hanno così ben condotti e diretti (…) Si vocifera che nel rendersi i castelli si permetterà a tutti i ribelli che si sono rinchiusi di uscirne sani e salvi, anche Caracciolo e Manthoné, etcc, e di andarsene in Francia. Questo, replico, non lo credo mai, perché, Dio ce ne liberi, ci potrebbe far il massimo danno il lasciar in vita queste vipere arrabbiate, specialmente Caracciolo che conosce tutti i buchi delle nostre coste” (Croce, “La riconquista…”, p. 223).
21 Giugno. Venerdì. Napoli. “La notte è passata tranquillissima. Le notizie che vi sono, sono di essersi convenuta la capitolazione in questo modo. I Francesi saranno imbarcati su legni inglesi e portati a Genova; i patriotti imbarcheranno su legni nostri e portati a Tolone. A costoro si daranno ducati dugento per ciascheduno. Questa però non è che una voce. Di sicuro so che sono stati chiamati gli uffiziali delle Regie Segreterie perché tornassero ai loro impieghi (…) Continua intanto l’armistizio, e si dicono le seguenti notizie. I Giacobini che sono nei castelli saranno portati a Tolone, per quanto si dice, e finocché non arriva la notizia di essere giunti, resta la guarnigione dei Francesi in S. Elmo, ma con altrettanta guarnigione Moscovita (…) Note sugli ecclesiastici. Il celebre sacerdote d. Vincenzo Troisi, che tanto strepito ha fatto per Napoli, coll’aver insegnato da sulla cattedra, e da sulla tribuna della Sala d’istruzione, che i voti sacri non obligavano, e che ai frati e preti era permesso prender moglie; che ultimamente vestiva da Vescovo, marciando con gran Croce sul petto, è stato arrestato e portato al ponte meritatamente. Del sacerdote d. Nicola Pacifico si dice, che avendogli offerto il perdono il cardinale Ruffo, avendo compassione della sua cadente età, ed avendo riguardo al suo carattere sacerdotale, ed avendogli detto, “via, dite viva il Re”, quel vecchio matto ricusò dirlo, e replicò il contrario. Moltissimi altresì si son contentati di essere dilaniati e non gridare “viva il re” mentre il popolo quasi nudi li trasportava per le strade. Anco delle donne si son vedute così inferocite” (De Nicola, pp. 251-4).
Il cardinale Ruffo scrive al ministro Acton. “Sono al Ponte della Maddalena; sono vicini, a quello che pare, a rendersi ai Moscoviti e al cav. Micheroux i castelli dell’Uovo e Nuovo; sono così affollato e distrutto, che non vedo come potrò reggere in vita, se seguirà un tale stato per altri tre giorni. Il dover governare, o per dir meglio comprimere un popolo immenso, avvezzo all’anarchia la più decisa; il dover governare una ventina di capi ineducati ed insubordinati di truppe leggiere, tutte applicate a seguitare i saccheggi, le stragi e la violenza, è così terribile cosa e complicata che trapassa le mie forze assolutamente. Mi hanno portato ormai 1300 Giacobbini, che non so dove tenere sicuri, e tengo ai granari del ponte; ne avranno trucidati o fucilati almeno 50, in mia presenza senza poterlo impedire, e feriti almeno 200, che pure nudi hanno qui strascinati. Vedendomi inorridito da tale spettacolo, mi consolano dicendomi che i morti erano veramente capi di bricconi, che i feriti erano decisi nemici del genere umano, che il popolo insomma li ha ben conosciuti. Spero che sia vero, e così mi quieto un poco. A forza di cure, di editti, di pattuglie, di prediche si è diminuita considerabilmente la violenza del popolo, per la Dio grazia. Se la resa dei due castelli si ottiene, spero di rimetterci interamente la calma, perché potrò a tale oggetto impiegare la truppa. E’ certo che il caso di far guerra e temere della rovina del nemico è la più crudele situazione, ed è la nostra. Se a questo si aggiunge la nostra truppa ben numerosa, ma irregolare anzi sfrenata, è cosa che fa sudare nel colmo dell’inverno. I Castelli sono stati attaccati così fortemente nella notte che sono mezzo distrutti (…) L’armistizio dura da qualche ora, e si aspetta sull’imbrunire, se sarà conclusa la resa dei due castelli già nominati. Il comandante inglese brontola, perché si perde tanto tempo nella tregua, e vorrebbe concludere; ma non si deve scordare l’immenso pericolo della città, che è fulminata senza interruzione, quando si fa fuoco da S. Elmo. Intanto il popolo, e tanti fuorusciti che sono venuti a combattere pel re, ed ottanta maledetti Turchi, rubano e spogliano a man salva. La paura dell’anarchia motiverebbe il Ruffo alla clemenza. Tutto il mondo polito fugge alla campagna. I nostri soldati migliori guardano dai saccheggi le case, ma non vi riescono. Spesso il pretesto è il giacobinismo, è l’affare che si nomina, ma veramente è la rapina, che spesso produce dei proprietari giacobini. Col grido “viva il re”, ardiscono tutto impunemente. Pare, che la considerazione possa renderci clementi coi birbanti racchiusi nei castelli, e compassionevoli coi molti ospiti che sono in essi rinserrati. Non so quali saranno le condizioni, ma molto clementi sicuramente per mille motivi, che non serve dire ad uno ad uno, e che dalle antecedenti può immaginare. Non credo possibile di poter rimettere in ordine il paese brevemente con nessun sistema, ma con un metodo nuovo impossibilissimo” (Croce, pp. 227-30).
Palermo. Nelson parte con la flotta inglese alla volta di Napoli. Si tiene un Consiglio in cui si organizza la vendetta. “L’ammiraglio imbarca sulla propria nave lady Hamilton ed il suo compiacente marito. Prima della partenza, la regina Maria Carolina aveva riunito in fretta a consiglio Nelson, Emma e William Hamilton. La regina comunicò loro le ultime notizie avute da Napoli, ed espresse le sue intenzioni. Il consiglio durò due ore; ed è facile immaginare come in esso sieno stati concretati propositi di sangue e di vendette, tanto più che dalla lettera della regina ad Emma, in data 18 giugno (sopra citata), si rileva che ella sapeva già che Ruffo era entrato a Napoli e che i castelli erano in parte occupati, ma che temeva si concedessero ai difensori di essi condizioni troppo favorevoli, e che i maggiori responsabili riuscissero a sfuggire” (De Gregorj, p. 239).
Palermo. A corte si sospetta delle intenzioni di Ruffo. Il ministro Acton scrive a William Hamilton: “Spero che ogni nostra speranza sarà, fra pochi giorni, coronata dal successo per mezzo dell’eccellente e prode Nelson. Così, lo spero, si porrà fine all’affare senza che se ne impacci il Cardinale, il quale vuole legare le mani a S. M. e provvedere all’infamia dei propri fratelli, salvarli e mettere il Re sotto custodia” (De Gregorj, p. 262).
La regina scrive a Ruffo. Una lista di proscrizione di vescovi, monaci e preti che hanno aderito alla Repubblica: “Una delle prime necessariissime operazioni da fare è di rinchiudere il cardinale arcivescovo di Napoli in un convento a Montevergine o in altra parte fuori la sua diocesi per scimunito, mentre solo sotto di questo titolo si può diminuire la sua grave reità: e come reo e come scimunito non dev’esser più il pastore d’un gregge che ha cercato colle sue pastorali indurre in errore, né dispensatore di sagramenti, di cui ha ordinato un abusivo uso: insomma, è impossibile che sia pure arcivescovo esercitante di Napoli uno che ha così indegnamente parlato ed abusato della sua carica. Vi sono molti altri vescovi nello stesso caso, la Torre, Natale di Vico Equense, Gamboni di Capri, Rosini malgrado il Tedeum ma vi è pure la sua pastorale stampata, Capecelatro di Taranto e molti altri che provati ribelli non possono restare a governare le loro chiese: parimenti di quei tre Vescovi che dissacrarono quell’infelice sacerdote per il semplice delitto di aver gridato “viva il re”. Parlo di questi come dei scellerati monaci e preti che hanno scandalizzato fino i Francesi medesimi: dei parrochi d’Aloisi ed altri, che ho letto impiegati nella scellerata repubblica, parlo di ciò, perché tocca la religione e l’opinione pubblica. Quale fiducia avranno nei loro preti e pastori i popoli, se li vedono ribelli rei, e quale pernicioso effetto il continuare a vederli esercitare deve ciò avere sulle di loro opinioni? Non parlo ancora di altro, Napoli non essendo ancora nostro; tutti quelli che da lì vengono contano orrori, e tutti una voce, un principio, una classe gridano e accusano. Perfida dissimulazione. Ora vivo ansiosissima di sentire presto Napoli ripreso, sentirci ristabilito il buon ordine, ed allora le parlerò delle mie idee, sottomettendole sempre ai suoi lumi, conoscenze e talenti, che ogni giorno più ammiro. V. E. ha fatto la gloriosa impresa di riacquistarci senza un soldato un regno; ora tocca a lei la più gloriosa opera di riordinarlo con base di vera felicità e futura tranquillità, e con quelli sentimenti di equità e riconoscenza che al fedele popolo dobbiamo. Lascio al suo cuore mente o giudizio di riflettere a quello che è successo in questi sei mesi ed a decidersi, contando molto sulla sua penetrazione. I due Hamilton hanno accompagnato Lord Nelson nel suo viaggio” (Croce, pp. 226-7).
22 Giugno. Sabato. Napoli. “Il primo spettacolo che mi si è presentato uscendo a Toledo è stato la quantità di roba, soprattutto di libri, che si vendevano, residui dei saccheggi, già tutti corpi spezzati, ch’erano una compassione. Quantità di cartelli poi si erano fatti affiggere dai poveri padroni delle case saccheggiate per recuperare, pregando, le loro scritture, sieno particolari, sieno mercantili, o parte dei loro mobili. Ma questi sono i disordini, quando si lascia il freno al popolo; e di fatti, non ostante che continui editti proibiscano gli arresti e i saccheggi, il popolo unito ai Calabresi arresta e saccheggia tuttora. Questa mattina vi era un editto anco del generale Salandra che proibiva le scorrerie alle truppe, ma inutilmente. Quanti poveri innocenti piangono le altrui colpe, quante infelici case desolate senza risorsa e senza che abbiano in niente peccato. Sarebbe un quadro da dar terrore se tutto potesse mettersi sotto l’occhio del lettore quanto è accaduto in Napoli da dieci giorni. Io non ho accennata che la menoma parte. Per la città si son veduti trascinar a centinaia gli arrestati dal popolo, ed il trascinar solo sarebbe stato niente; ma dilaniati, feriti mutilati e morti, portandone le teste sulle aste. E chi sa se tutti erano rei. Il dippiù che ho veduto è stata la strada battuta tutta da gente armata, e quello che di peggio era di popolo armato, di truppa non v’era che un corpo accampato fuori lo Spirito Santo, qualche partita di soldati Turchi, ed un corpo di Moscoviti, che sta accampato verso il Palazzo, il di più è al ponte con Ruffo. Ieri sera ad ora molto avanzata fecero i Giacobini una scorreria verso S. Carlo delle Mortelle, temendosi di altra che potessero farne questa notte al di sotto di S. Lucia del Monte, ci han posti cinquanta uomini per custodire i passi” (De Nicola, pp. 254-5).
Genova. “Indirizzo dei Patrioti italiani ai Direttori e Legislatori Francesi”. “Dopo la caduta del vecchio Direttorio i rifugiati ed esuli di Genova e di Francia furono concordi nella persuasione che la fortuna del sistema repubblicano non potesse restaurarsi in Italia se non sulla base dell’indipendenza e dell’unità italiana. Diventavano così concrete, e prendevano carattere di convincimento collettivo, quelle idee di “unità”, che negli ultimi anni erano apparse qua e là sporadicamente (il napoletano Matteo Galdi, esule dal 1794, aveva nel 1796 pubblicato il libro: “Sulla necessità di stabilire una Repubblica in Italia”). E furono compilati, e sottoscritti largamente, indirizzi e petizioni ai nuovi legislatori francesi per esporre questo voto dei patrioti italiani. Napoli era stata già occupata il 13 giugno; ma di tal fatto non si era avuta ancora notizia, e i castelli, ad ogni modo, resistevano. Questo Indirizzo, che possiamo dire primo per data tra quelli nel senso suindicato, fu scritto dal nostro Cesare Paribelli”. “Cittadini Legislatori e Direttori, Voi avete finalmente aperti gli occhi sul precipizio, che minacciava d’ingoiare la Libertà. Voi avete riprovato il sistema spaventevole di concussione e di tirannide, che gravitato avea troppo lungamente sopra alcune contrade sventurate, sacrificate all’ambizione, all’avidità, alla perfidia di certi uomini inetti o scellerati, che usurpavano con impudenza il nome e l’autorità della Repubblica francese (…) Noi dimandiamo ai supremi Magistrati del popolo Francese, che in nome di questo popolo magnanimo, e al cospetto dell’Europa, per eterna vergogna dell’insolente casa d’Austria, che crede d’aver già disonorata l’Italia e messa in pezzi la Francia, l’INDIPENDENZA ITALICA sia proclamata (…) Pensate che i piccoli Stati Italiani, ducati e regni, sono già disorganizzati, e che non vi è più verun’altra alternativa per loro, se non di vederli inghiottiti dalla dominazione Austriaca o riuniti come in un fascio per presentare una nuova Repubblica all’universo. Potrete voi ancora esitare? Proclamate dunque la Repubblica Italica, e voi avrete delle legioni che si uniranno alle vostre, e non sarà allora solo il sangue francese che verserassi per difesa dell’Italia e della Francia. In questo momento, nel quale il Piemonte non è né monarchia né repubblica; la Cisalpina, troppo lungamente governata da certi proconsoli tiranni e briganti, che le davano a un tempo stesso e leggi e signori bel lungi dalla sua scelta; la Toscana, la di cui pretesa rivoluzione non è stata che un semplice passaggio della potenza suprema dalle mani del suo Granduca a quella d’alcuni commissari ed agenti francesi; la deplorabile Repubblica Romana, ove i nomi di Consoli Senatori e Tribuni non sono che una feroce e barbara ironia; la Repubblica Napoletana, che sola offre una democrazia nascente, ma soffocata in culla dall’insorgenze che la circondano, e che, create dagli eccessi e dagli assassinii di taluni agenti francesi, sono state nutrite e mantenute a suo profitto dalle cure della Corte di Sicilia; tutte insomma le parti d’Italia, che non presentano ai loro abitanti né libertà né Patria, né un regolamento stabile, né alcun punto centrale, né veruna forma di governo, implorano ad alta voce dal Popolo e dal Governo Francese un atto solenne, e che solo può contenere la loro salvezza, che riattacchi e riunisca gli avanzi dispersi di questo gran Tutto, e renda all’anima Italiana l’energia, di cui sono ormai prive, proponendo loro una molla potente e un segno determinato, cioè la Repubblica Italiaca (…) Legislatori e Direttori, osate alfine di soddisfare il voto universale dell’Italia, e di proclamare la sua indipendenza e la sua riunione, il di cui centro esiste già nella santa energia dei figli del Vesuvio, nello spirito repubblicano dei montagnari Liguri, nello sdegno invano ritenuto dei figli dell’infelice Vinegia, e nella disperazione di tutti i rifugiati Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta più ormai verun’altra alternativa, che o di cercare per via d’una morte volontaria un asilo nella tomba, o di crearsi di bel nuovo, per mezzo d’una volontà ferma e determinata, il felice avvenire, ch’era stato promesso alla loro Patria. Un’assemblea nazionale e un Governo provvisorio, riunito in Firenze nel centro dell’Italia, saranno invito a tutti gli abitanti di queste belle contrade; un’armata ausiliaria sarà formata, lo stendardo Italico sventolerà nell’aria accanto al vessillo ricolorato, e gli intrighi stranieri saranno sventati ancor questa volta; e il secolo decimo nono vedrà folgorare questi due astri vittoriosi e protettori, che annunzieranno all’Austria e al gabinetto Britannico la vicina distruzione, o ai discendenti dei germani e agli abitanti delle tre isole, ormai troppo serve, la prossima loro libertà”. Questo indirizzo fu firmato dalla maggior parte dei patrioti italiani, che si trovavano in Genova” (Croce, “Rivoluzione.., 330-6).
23 Giugno. Domenica. Napoli. La prima applicazione della capitolazione. “Nei dì seguenti furono apprestate le navi. Un foglio del cardinale invitò Ettore Caraffa, conte di Ruvo, a cedere le fortezze di Civitella e Pescara alle stesse condizioni dei castelli di Napoli; ed un suo editto da Vicario del re bandiva esser finita la guerra, non più avere il regno fazioni o parti, ma essere tutti i cittadini egualmente soggetti al principe, amici tra loro e fratelli; volere il re perdonare i falli della ribellione, accogliere per fino i nemici nella bontà paterna; e perciò finissero nel regno le persecuzioni, gli spogli, le pugne, le stragi, gli armamenti. Ma pure taluni, o veggenti o incresce voli del reggimento borbonico, vennero a dimandare imbarco; e su le navi che erano preste, imbarcarono. Del campo di San Martino pochi rimasero in città, molti andavano in Francia; e così, uscendo dai castelli coi pattoviti onori, i due presìdi si spartirono tra il rimanere (ed erano pochi) e il partire. Non mancava dunque a salpare che il vento, sperato propizio nella notte” (Colletta, p. 363).
“In conseguenza del trattato alcuni repubblicani dei presidii, con gli onori delle armi, lasciarono i castelli e s’imbarcarono per essere trasportati a Tolone; sulle stesse navi presero imbarco anche moltissimi cittadini, che temevano le vendette dei regi; gli altri difensori, e fra questi erano i principali personaggi della repubblica, rimasero nei forti in attesa che, data esecuzione ai patti della capitolazione ed allestite altre navi, potessero anch’essi partire. Delle navi (polacche), su cui si erano imbarcati i patrioti per salpare per Tolone, una sola poté partire da Napoli; le altre per vento contrario non poterono lasciare il porto, e vi rimasero ancorate in attesa di vento favorevole” (Serrao, pp. 238-9).
24 Giugno. Lunedì. Napoli. Ha inizio la polemica tra la corte borbonica e Ruffo sulla resa dei patrioti. “Questo giorno, prima che il vento si calmasse e che le navi cariche dei patrioti potessero salpare, entra nel porto la flotta dell’ammiraglio Nelson. Durante la traversata Nelson, da una nave in rotta per Palermo (forse la stessa che il comandante Foote aveva inviata alla regina per farle avere copia della capitolazione), aveva avuto notizia di ciò che era successo in Napoli, certamente seppe dell’armistizio e forse anche delle condizioni della capitolazione. L’intervento decisivo di Nelson. Comunque, in relazione alle istruzioni della regina ed ai suoi desideri, per i provvedimenti di rigore che si desiderava prendere a carico dei patrioti, s’imponeva la violazione dei patti convenuti. Di fatti Nelson, appena giunto a Napoli con la sua flotta, composta di 18 vascelli e 2 brulotti, avendo scorte bandiere bianche sulle mura dei Castelli e sulle navi alleate, dal “Fulminante”, su cui egli era imbarcato, fece subito segnale al “Cavallo Marino”, sul quale era il comandante Foote, perché fossero tirate giù le bandiere di pace, poiché l’armistizio non era riconosciuto” (Serrao, pp. 239-40). “Alle ore 3 pom. di oggi l’ambasciatore Hamilton scrive al card. Ruffo, su ordine di Nelson, appena arrivata la flotta inglese nel porto: “Milord Nelson désapprouve entiérement ces capitolations et il est très-résolu de ne point rester neutre avec la force respectable qu’il a l’honneur de commander… Milord espère que M. le Cardinal Ruffo sera de son sentiment, et qu’à la pointe du jour, demain, il pourra agir de concert avec son Eminence. Leurs objets ne peuvent etre que les memes, c’est-à-dire de réduire l’ennemi commun et soumettre à la clémence de S. M. Sicilienne ses sujets rebelles” (Serrao, p. 242).
Cominciano le considerazioni analitiche riassuntive. “Io forse non faccio che pascermi di dolci illusioni. Ma, se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un’autorità, che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de’ beni reali e liberato lo avesse da que’ mali che soffriva; forse allora il popolo, non allarmato all’aspetto di novità contro delle quali avea inteso dir tanto male, vedendo difese le sue idee ed i suoi costumi, senza soffrire il disagio della guerra e delle dilapidazioni che seco porta la guerra; forse…chi sa?…noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata e degna di una sorte migliore” (Cuoco, p. 86).
25 Giugno. Martedì. Napoli. “Alle ore 23 e mezza circa con trombetta si è annunziata la resa dei castelli Nuovo e dell’Ovo convenuta col castellano di S. Elmo, e si avvertiva il pubblico a non molestare né le persone né le robe di tutti coloro che sarebbero per uscire dai castelli e loro circondario, neanche con parole, minacciandosi la fucilazione. Questo annunzio ha calmato gli animi, e immediatamente si è inteso andar gridando “viva il re” e chiedendo l’illuminazione che si è fatta più brillante delle altre sere (…) D. Francesco Caracciolo è stato arrestato” (De Nicola, p. 260).
L’infamia di Nelson. “La mattina, non vergognandosi d’annullare le capitolazioni, l’ammiraglio pubblica un editto in cui dice:”i Re non patteggiano con i sudditi; essere abusivi e nulli gli atti del Vicario non approvati dal Re; volere egli esercitare la piena regia autorità sopra i ribelli”. Nel contempo non permette che al trattato sia data esecuzione, nonostante che il cardinale Ruffo autore delle capitolazioni, ed a cui rincresce dover rinnegare i patti firmati, lo esorti ed insista perché le condizioni pattuite siano osservate. Contrasti vivaci. In verità, la mattina i capitani Troubridge e Ball si recano dal cardinale e gli consegnano, perché la faccia pervenire ai patrioti, una dichiarazione di Nelson, nella quale è detto che egli non avrebbe permesso loro “d’imbarcarsi o di lasciare i forti” e che “devono arrendersi alla real clemenza”. Il Ruffo si rifiuta di trasmettere detta dichiarazione; anzi aggiunge che se al Nelson così piace, rompa pure il trattato, egli con le sue truppe si ritirerebbe dalle posizioni occupate dopo il trattato stesso e declinerebbe ogni responsabilità. Inoltre alla domanda del Troubridge: “se lord Nelson rompe l’armistizio, l’assisterà V. E. nel suo attacco contro i castelli?”, il cardinale è esplicito, rispondendo: “Non l’assisterò né con un uomo, né con un cannone”. Nel pomeriggio. Ciò nonostante, nel pomeriggio il card. Ruffo, per consiglio del Micheroux, si reca a bordo del “Foudroyant”, dove viene ricevuto con tutti gli onori. Il colloquio col Nelson, al quale assistono anche gli Hamilton, dura ben due ore; ma nulla si conclude, persistendo il Ruffo nella tesi che doveva essere osservato quanto era stato convenuto, ed il Nelson nell’opinione che il trattato non potevasi eseguire senza l’approvazione del Re. Il cardinale avrebbe consigliato ai patrioti di salvarsi per via di terra. “Poi il Ruffo, quando vide che il Nelson era inflessibile, consigliò ai patrioti di salvarsi per terra, essendo chiusi dalla via di mare; e di ciò li informò per mezzo del gen. Massa, ma essi ricusarono l’offerta, e perché sospettosi di qualche tranello e perché fermi nell’osservanza dei patti” (Visalli) o perché il Massa non si fidava del Ruffo. Anche i sottoscrittori russo e turco del trattato ne vogliono l’osservanza, e protestano in tal senso. La violazione delle Capitolazioni, interessando l’umanità, è questione di sì grande importanza che conviene documentare come essa è avvenuta per poter stabilire nettamente di fronte alla storia su chi cade l’onta di tanta infamia” (Serrao, pp. 240-1).
La protesta di Micheroux, Baille, Achmet e Ruffo. “Il trattato delle capitolazioni dei castelli di Napoli è utile, necessario ed onorevole alle armi del Re delle due Sicilie e dei suoi potenti alleati, il Re della Gran Brettagna, l’Imperatore di tutte le Russie e la Sublime Porta Ottomana; poiché senz’altro spargimento di sangue è finita, con quel trattato, la micidiale guerra civile e nazionale, e viene facilitata l’espulsione del comune nemico estero dal regno. Essendo stato quindi tal trattato solennemente conchiuso dai rappresentanti di dette potenze, si commetterebbe un abominevole attentato contro la fede pubblica, se non si eseguisse esattamente o si violasse; e pregando lord Nelson a volerlo riconoscere, essi rappresentanti protestano di essere definitivamente determinati ad eseguirlo religiosamente, e chiamano responsabile innanzi a Dio e al mondo chiunque ardisse d’impedirne l’esecuzione”. Secondo il Sacchinelli questa dichiarazione fu compilata subito dopo il colloquio Nelson-Ruffo”. Intimazione del Ruffo al Nelson: “…se va impedita l’esecuzione del trattato, il cardinale Ruffo rimetterà il nemico nello stato in cui si trovava prima del trattato medesimo; finalmente ritirerà le sue truppe dalle posizioni posteriormente occupate, e si trincererà con tutta la sua armata, lasciando che gli Inglesi con le proprie forze vincano il nemico”, riferita da A. Dumas”(Serrao, pp. 242-3).
Palermo. Il ministro Acton scrive all’ambasciatore inglese Hamilton. A corte si sospetta delle intenzioni politiche di Ruffo. “Vedremo se il Cardinale con le compiacenze verso i giacobini si farà un partito. Se lo può fare coi giacobini, ma senza l’aiuto del popolo non può renderlo forte” (Serrao, p. 262).
Palermo. La regina Carolina scrive a lady Hamilton, sua amica e amante del Nelson. Sono rese esplicite le intenzioni di vendetta: “E’ impossibile che io possa trattare di cuore con questa canaglie di ribelli. Bisogna perciò farla finita; e la vista della brava e valorosa squadra inglese forma la mia speranza. La guarnigione di S. Elmo (francese) deve uscire ed essere accompagnata a Tolone, senza poter nulla trasportar seco. I ribelli patrioti debbono metter giù le armi, uscire a discrezione e volontà del re. Allora, a mio credere, si darà un esempio dei principali capi rappresentanti, e di poi gli altri saranno deportati (…) Infine raccomando a Milord Nelson di trattare Napoli come se fosse una città ribelle d’Irlanda, che si fosse condotta così. Non bisogna aver riguardo al numero; le migliaia di scellerati di meno renderanno la Francia più debole, e noi staremo meglio”. La lettera sarà stata portata a conoscenza di Nelson il 28 giugno, poiché la traversata da Palermo a Napoli ordinariamente durava tre giorni” (Serrao, pp. 250-1).
Parigi. Pierfrancesco Ciaja scrive in cifra al fratello Ignazio a Napoli. Le atroci illusioni. “Gli affari prendono buona piega: è uopo profittare del momento. Spedite subito una persona colle credenziali per far riconoscere la nostra Repubblica e, se è opportuno, conchiudere un trattato di alleanza. Date tutte le vostre cure alla forza: qui non vi è bisogno di molto danaro: si spenda dunque alla forza armata per fare che tutta la nazione sia ad un cenno su l’armi. Organizzate dei club nei cantoni tutti dei dipartimenti”. “mentre egli così scriveva, il fratello Ignazio, chiuso in Castelnuovo, era di quelli che sconsigliavano la sortita violenta armata e confidavano nel rispetto delle capitolazioni (Croce, “La rivoluzione..”, pp. 338-9).
Nota bibliografica
- P. Colletta, “Storia del Reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
- B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
- B. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
- G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
- V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluziona napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
- Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
- F. Serrao de’ Gregorj, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934, v. I