Sulla crisi della “democrazia rappresentativa”
Qualche tempo fa mi è capitato di leggere alcune frasi del discorso con il quale il neo-presidente della Camera Roberto Fico, militante del Movimento 5 Stelle, si è rivolto ai deputati nel pomeriggio del 24 marzo 2018. Ricordo che egli, tra le altre cose, ha constatato la crisi attuale della democrazia rappresentativa e ha affermato che essa non ha saputo interpretare la rabbia e la protesta degli esclusi, di chi non crede più a nulla (perché tutti mentono e non ci si può fidare di nessuno), di chi vive nella solitudine sociale, di chi protesta per l’uso familistico e privato delle risorse pubbliche. Ha detto che è in crisi un progetto di governo della comunità, che c’è la sensazione di non essere protetti dalle incertezze angosciose del futuro.
Proprio in occasione dell’elezione di Fico, e subito dopo nell’occupazione bulimica dei posti direttivi (questori e segretari) nelle Camere, il M5S –che fino ad allora aveva sdegnosamente rifiutato ogni tipo di trattativa politica con gli altri partiti (ritenuti corrotti, marci e infetti –vedi le intemerate di Grillo-), si è comportato come tutti gli altri, ha promesso, ostacolato, ingannato, trattato, anche con pressioni sottobanco, senza trasparenza, con grande spregiudicatezza tattica, fino a votare l’elezione al Senato della Casellati, una pasdaran di Berlusconi, una che con l’avv. Ghedini aveva scritto quasi tutte le leggi ad personam per tutelare il suo capo, una che aveva creduto alla diceria di Ruby nipote di Mubarak, una che aveva protestato contro la magistratura davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. Così –in una evoluzione al fulmicotone- quello che fino al giorno prima per i grillini era inciucio è diventato accordo intelligente, la “poltrona” è diventata ruolo istituzionale, i compromessi –prima inimmaginabili- si sono trasformati in scelte politiche felici ed efficaci (così li hanno interpretati “giudiziosamente” i mezzi di comunicazione).
Sembra che queste siano le pratiche imposte dalla realpolitik. Del resto lo stesso Fico poco prima del 4 marzo aveva affermato con solennità: “mai noi saremo alleati con la Lega”. Qualche giorno dopo è stato eletto con i voti determinanti della Lega e persino di Forza Italia. Tutto questo esprime bene l’area grigia di un elettorato che non vota più per i partiti di governo ma vuole la rottura della continuità, salvo poi rendersi disponibile per qualunque manovra, schema di gioco, alleanza, prevaricazione. E’ la fotografia di un movimento –ora diventato partito- che ha per anni assunto la forma dell’acqua (sfuggente e mutevole a seconda delle occasioni), camaleontico e contraddittorio anche a causa della sua aspirazione a incarnare un interesse generale assoluto, e che ora è precipitato in pochissimo tempo da un astratto idealismo –mai accordi, su niente e con nessuno- a un ipertatticismo che consente di trattare con tutti e su più tavoli contemporaneamente, col diavolo e con l’acqua santa indifferentemente. Fino al punto di un Di Maio che –uscito dalle consultazioni al Quirinale- offre un contratto di governo che assomiglia a un contratto di locazione, in cui non è importante chi sia l’inquilino (la Lega o il Pd), ma l’importante è che paghi l’affitto; senza alcuna costruzione politica in termini di valori, ideali, programmi. Ci troviamo peggio che scaraventati nella prima Repubblica, ai tempi delle convergenze parallele, dei governi balneari, dei due forni e dei pentapartiti allargati. Conta solo ciò che sembra o è utile e giusto per gli stellini. Dice Fabio Rampelli, capogruppo di Fratelli d’Italia: “Abbiamo visto i grillini comportarsi nel solco delle più fameliche tradizioni democristiane”. Richiamo il concetto di trasformismo: apparenza di cambiamento e sostanza di potere (Giulio Bollati, “L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione”, Einaudi, 1983).
In questi giorni stanno avvenendo molte cose sorprendenti nell’universo dei Cinque Stelle. Ora non vige più “l’uno vale uno” (questo lo si sapeva già da tempo), ma è affermato –nero su bianco- che “uno vale tutti”: così Di Maio è diventato il vero plenipotenziario del Partito Cinque Stelle, come è scritto nel nuovo regolamento dei gruppi parlamentari. Così i capigruppo Grillo e Toninelli sono stati scelti da Di Maio e non votati dall’assemblea degli eletti, e da lui possono essere revocati in qualsiasi momento. Così viene sancito, all’art. 17, il legame assoluto e imprescindibile con la “Casaleggio Associati”. Così c’è la penale di 100mila euro, “da pagare entro dieci giorni”, in caso di abbandono del gruppo parlamentare, per libera scelta o per cacciata da parte del capo. Così c’è l’invito esplicito ad accogliere quei deputati e senatori (che prima i grillini chiamavano “voltagabbana, o venduti al mercato delle vacche”), parlamentari iscritti ad altri gruppi e che vogliano rinforzare la pattuglia pentastellata. In sintesi al capo politico, cioè Di Maio, spetta la nomina –sempre revocabile- dei capigruppo, dei membri del comitato direttivo, del capo dell’ufficio legislativo, del capo del personale, del capo della comunicazione. Una sorta di leninismo applicato a Internet. “Sapete che siamo un po’ bolscevichi”, ha chiosato sapidamente Manlio Di Stefano, deputato esperto di Affari Esteri, amico di Putin.
Io ricordo che nella pubblicistica politica già da qualche decennio venivano sottolineate da più parti la crisi della rappresentanza parlamentare –ormai avvertita come lontanissima dai cittadini comuni-, le lacune della democrazia delegata, in presenza di un trasformismo crescente, di un aumento ingiustificato dei privilegi e delle remunerazioni, di un distacco quasi castale tra eletti ed elettori. Ma ora c’è qualcosa di più serio. Allarghiamo lo sguardo al mondo: in dieci anni il peso specifico dei cinque paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) sull’economia planetaria è raddoppiato arrivando al 23% e ha tolto ossigeno alle vecchie metropoli dell’Occidente. La vecchia democrazia parlamentare sarà in grado di reggere a questa inevitabile competizione? Se si va verso un restringimento del benessere a causa di questi smottamenti nella distribuzione del reddito a livello mondiale ci sarà mai uno spazio per un’Italia fuori dall’Europa? Ci saranno da noi classi dirigenti responsabili?
Nell’ottobre del 2008, quasi dieci anni fa, io tenni una lezione agli iscritti dell’Associazione culturale “Palazzo Tenta 39” di Bagnoli Irpino, in provincia di Avellino, sul tema delle qualità e delle responsabilità delle classi dirigenti nella storia del piccolo comune irpino. Prendevo ad esempio tre momenti significativi: la guerra anti-feudale e anti-spagnola del 1648-’49 nel Sud dell’Italia; sanfedisti e carbonari nell’Irpinia del 1799 e del 1820-’21; il voto per la repubblica nel referendum istituzionale del 1946 (il 59,35%) –vedi il testo integrale della lezione in questo Sito, categoria “Letture testuali”, postato il 27 novembre 2009. Alla fine della riflessione cercavo di ragionare sui modi con i quali la piccola comunità bagnolese avrebbe potuto dare un suo contributo per affrontare la crisi politica e civile che già in quegli anni, primo decennio del XXI° secolo, si manifestava con evidenza.
Scrivevo così: “Ritorno alla domanda iniziale: c’è stata a Bagnoli una classe dirigente che, pur fra contraddizioni, ha plasmato nei secoli la società locale e ha attraversato gli eventi con dignità e serietà? Io credo di trarre dagli esempi che ho analizzato una risposta affermativa: alcuni tra i nostri antenati, in taluni casi una parte significativa, hanno saputo e voluto scegliere tra le drammatiche alternative proposte la strada della autonomia e della libertà, della innovazione e della modernizzazione, anche se non accompagnata da un fenomeno autentico e reale di sviluppo, che del resto non dipendeva da loro. Come possiamo noi oggi, cittadini bagnolesi, essere coerenti con questa lezione? Cosa può significare per noi essere classe dirigente oggi? Si sarà in grado di affrontare i problemi difficilissimi posti dal degrado ambientale crescente, dall’esaurimento delle risorse energetiche fossili mentre cresce tumultuosamente la domanda mondiale di energia, dai mutamenti climatici, dalla crisi demografica, dai nuovi equilibri geo-strategici del pianeta? Le rotture rivoluzionarie sono degli shock, un cambiare improvviso di segno, poi serve il tempo, la costruzione di modelli culturali convincenti che avviene in tempi lunghi, a volte lunghissimi. La borghesia ha costruito cultura per sei-sette secoli, da classe dominata, e solo alla fine di questo processo ha vinto; le rivoluzioni proletarie del ‘900 hanno perso in modo rovinoso anche perché non precedute e preparate da un serio lavoro culturale.
Bisogna riflettere sul concetto e sulla pratica reale della democrazia. Essa è un insieme di aspirazioni mai realizzate una volta per tutte. Essa richiede cittadini capaci di decidere che cosa realizzare, perché farlo e come farlo. Intanto è necessaria in tutti noi una scelta di fondo: ripudiare la democrazia della raccomandazione, della corruzione e dell’ignoranza, optare per la democrazia del controllo, del merito, della serietà. Questo è un obiettivo del lavoro del nostro Circolo, e dovrebbe esserlo anche dei partiti politici e di tutte le associazioni del paese. Impegno comune per un progetto di educazione civile della società bagnolese. Puntare a far diventare, con lavoro serio e graduale, ogni cittadino di Bagnoli elemento di classe dirigente. Esaltare la soggettività politica e culturale di ognuno di noi. Gramsci sosteneva, se non sbaglio, che un partito è l’organizzazione delle passioni degli iscritti, non degli interessi dei suoi dirigenti; non si dovrebbe partire come se cominciassimo ogni volta la spedizione dei Mille per liberare il Sud e ci si ritrovasse poi con i gattopardi di sempre. Un buon governo si costruisce anche attraverso le scelte quotidiane della società civile.
Vorrei approfondire con più attenzione i concetti di democrazia e di politica. Essi devono essere sempre accompagnati da una forma dialettica di Anti-Politica. E spiego perché. Ogni cittadino è portatore di soggettività politica. In una struttura utopica di democrazia diretta ognuno rappresenterebbe al meglio le idee e gli interessi di se stesso. Ma la società industriale moderna è complessa, ed imponente dal punto di vista demografico. In Occidente siamo in questa fase storica in una democrazia rappresentativa. Ed è in atto un’evidente crisi del principio di rappresentanza, una forte e generalizzata critica di sistema e di contenuti, che ha varie cause: penso soprattutto alla potenza degli apparati tecnico-economico-finanziari, che non funzionano certo sulla base dei princìpi democratici. Basta vedere cosa è successo con la gravissima crisi finanziaria di questo ultimo periodo, e con una recessione economica che si prospetta tremenda, spietata e lunga. Cosa succede se entra in crisi e resta irrisolta la questione della rappresentanza? In teoria la legittimità democratica si fonda sulla volontà espressa dal popolo ma in realtà questa volontà non è mai generale e la maggioranza non è altro che una frazione, dominante, del popolo. Per questo, non basta il verdetto delle urne ma è indispensabile il legame di fiducia che il potere deve stringere con i cittadini. Bisogna prendere sul serio la contestazione dell’attuale struttura e funzionamento dei partiti e non assumerla come una patologia contingente. Essa ci permette di vedere un limite essenziale del discorso democratico. Io delego a un mio rappresentante me stesso, proietto in lui le mie idee e la tutela dei miei interessi. Se io mi identifico col mio rappresentante, se egli riflette perfettamente le mie idee, questa è la forma democratica ottima. Ma allora si perde la rappresentanza. Perché questa comporta una differenza e una distanza tra rappresentante e rappresentato. L’idea regolativa della democrazia rappresentativa comporta perciò di necessità una critica immanente e continua dell’idea stessa di rappresentanza. Io, homo democraticus, vivo di questo paradosso: sono costretto a delegare ma insieme esprimo una insopprimibile istanza all’autonomia, vivo cioè questa dialettica politica con un senso di privazione, di alienazione. E’ evidente che il deputato rappresentante deve sentire l’enorme responsabilità di rapportarsi di continuo ai suoi elettori. Ogni parlamentare in Italia si trova a rappresentare 60mila cittadini come lui (sono 1000, più o meno, per 60 milioni di italiani). L’alienazione dei miei diritti di cittadino deve essere compensata dal dovere morale e politico del mio rappresentante a non trattarmi da suddito, a non arrogarsi privilegi assurdi, a servire lo Stato con onore e dignità, a essere sottoposto sempre a controlli (la sua certificazione penale) e a revoca, a non durare in eterno (ecco la suggestione dei due-tre mandati al massimo). Il potere deve essere esempio responsabilità servizio sacrificio, non un marciume a volte infame, non un sistema perdonatorio che premia le insipienze e le clientele, accaparratore di privilegi ben remunerati, con legami non sorprendenti con la malavita organizzata e con il cuore di tenebra della politica. Uno scrittore latino-americano, Carlos Fuentes, nel suo ultimo romanzo “Il trono dell’aquila” (Saggiatore, 2008) scrive che l’adulterio è il migliore addestramento per apprendere l’arte della politica: per la necessità di riservatezza, per la menzogna, l’ipocrisia, il tradimento. La politica non è sempre menzogna o ipocrisia ma purtroppo è anche questo. Nel mondo la democrazia si è sviluppata ma in modo disuguale e soprattutto formale, non sociale: ci sono miliardi di persone costrette ancora a chiedersi: “Come è bella la democrazia, ma a che ora e che cosa si mangia?” C’è oggi un’energica attesa sociale che chiede ai poteri di recuperare “una integrità di élite”, per così dire, in competenze, in capacità di decisione. Questa è la lezione che viene anche dall’esperienza infelice dell’Unione e dell’ultimo governo Prodi. Una classe dirigente non deve trasformarsi in una casta digerente, per dirla con una formula giornalistica di successo: altrimenti potrebbe davvero verificarsi la progressiva distruzione della stessa rappresentanza politica. Questa sana urgente necessaria critica alla classe politico-istituzionale non può e non deve essere trasformata e deformata nell’accusa di qualunquismo antipolitico. Ma questo sarà realmente possibile solo se i cittadini, tutti i cittadini, garantiranno a se stessi informazione competenza onestà impegno. Noi meridionali dobbiamo guardare con spietatezza a noi stessi ma anche raccontare i nostri talenti e i nostri successi, dobbiamo saper avere ambizioni e pensieri lunghi. Un cittadino è la cellula più piccola della società, e nella nostra società civile bagnolese serve che ognuno abbia una responsabilità, si svesta dell’inerzia e dell’apatia e –da persona normale, con tutti i suoi limiti- cerchi di cambiare quello che ritiene ingiusto, contribuendo a costruire anche uno spirito collettivo positivo. Solo così si potrà affermare che non vale per Bagnoli e l’Italia di questi anni quello che Francesco Guicciardini scriveva nei suoi Ricordi della Firenze del primo ‘500: “Spesso tra il Palazzo e la Piazza c’è una nebbia così folta o uno muro così grosso che…tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che si fanno in India (…) Quanti dicono bene, che non sanno fare! quanti in sulle panche e in sulle piazze paiono uomini eccellenti che, adoperati, riescono ombre!”
Il lavoro del nostro Circolo è avvicinarci sempre di più, con pazienza e serietà, a raggiungere almeno una parte di questi obiettivi. Un ceto dirigente onesto dignitoso laborioso giovane, identificato con dei progetti, allenato a collaborare insieme in gruppi di lavoro, rispettoso delle opinioni di tutti ma al tempo stesso capace di battersi con serena fierezza per i propri ideali, che sia presente in tutti i partiti del nostro paese, dotato di strumenti critici forti, desideroso di leggere e studiare, di pensare e di crescere, capace di distinguere tra il concetto di persona e quello di individuo. Una classe dirigente maturata dall’elaborazione e dall’esempio di partiti rinnovati, uscita dall’esperienza del lavoro, dalle università, dalle scuole, dalle fabbriche e dall’artigianato, dalle professioni, dal governo dell’Ente Locale, dall’associazionismo; che abbia sia radici che ali: che sa serenamente coltivare l’orgoglio del passato valorizzandone la tradizione e sa aprirsi verso l’esterno dialogando con il mondo in una prospettiva cosmopolita. Così potremo continuare quella linea di coraggio e modernità, quella capacità di coerenza, che ho cercato di rintracciare in alcuni episodi importanti della nostra storia paesana e di cui dobbiamo sempre essere consapevoli e fieri, perché ci danno l’orgoglio del passato e la speranza del futuro”.
Il testo della lezione fu poi pubblicato a stampa in “Quaderno bagnolese”, n. 1, vol. II, 2008, pp. 26-47, Palazzo Tenta 39, Bagnoli Irpino (Avellino).
Gennaro Cucciniello