Charles Baudelaire (1821-1867), “Canto d’autunno, 1” (1859)
Presto ci immergeremo nelle fredde tenebre;
addio, viva luce delle estati troppo brevi!
Sento già cadere, con funerei tonfi
la legna che rimbomba sul lastrico dei cortili.
Tutto l’inverno mi tornerà dentro: insofferenza,
odio, spasmi, orrore, impegno duro e forzato,
e, come il sole nel suo inferno polare,
il cuore non sarà che un masso rosso e gelato.
Ascolto con un brivido ogni ceppo che cade;
la forca che innalzano non ha un’eco più sorda.
Il mio animo somiglia alla torre che cede
sotto i colpi dell’ariete instancabile e greve.
Mi sembra, cullato dal picchiare monotono,
che inchiodino in fretta una bara, qua o là.
Per chi? Ieri era estate, ecco l’autunno!
Quel tòc misterioso suona come una partenza.
Bientot nous plongerons dans les froides ténèbres;
adieu, vive clarté de nos étés trop courts!
J’entends déjà tomber avec des chocs funèbres
le bois retentissant sur le pavé des cours.
Tout l’hiver va rentrer dans mon etre: colère,
haine, frissons, horreur, labeur dur et force,
et, comme le soleil dans son enfer polaire,
mon Coeur ne sera plus qu’un bloc rouge et glacé.
J’écoute en frémissant chaque buche qui tombe;
l’échafaud qu’on batit n’a pas d’écho plus sourd.
Mon esprit est pareil à la tour qui succombe
sous les coups du bélier infatigable et lourd.
Il me semble, bercé pae ce choc monotone,
qu’on cloue en grande hate un cercueil quelque part.
Pour qui? C’était hier l’été; voici l’automne!
Ce bruit mystérieux sonne comme un départ.
da “Les fleurs du mal”, (1861), n. LVI
Mai come in questo caso c’è da lamentare l’intraducibilità della poesia: nessuna versione può rendere il rimescolio perturbante della musica baudelairiana. Gli alessandrini (doppi esasillabi) sono quelli romantici di Lamartine e di Hugo, e la malinconia dell’autunno è un tema assai frequentato dal romanticismo; ancora a metà Ottocento mettersi sulla strada dell’alessandrino rimato (qui, perfette rime alternate femminili e maschili, cioè piane e tronche) significava accettare l’istituzione e innovare nel suo solco. Credere che la bellezza è armonia regolata, e che un bel verso ripaga di tante storiche dissonanze.
In una prosa intitolata “All’una di notte” Baudelaire scrive: “Voi, Signore mio Dio, concedetemi la grazia di creare qualche splendido verso; per provarmi che non sono l’ultimo tra gli uomini, che non sono inferiore a coloro che disprezzo!”. Qui il romanticismo si crepa, frana nella nevrosi del corto-circuito logico: è come la battuta di Groucho Marx, “non mi iscriverei mai a un club che contasse me tra i suoi soci”. La bellezza armoniosa dei versi comincia a sapere di beffa, stride nel contenere un intellettualismo infelice; le rotonde, istintive metafore di Hugo diventano una galleria isterica di immagini troppo tese, parzialmente incoerenti.
In questo canto dedicato all’autunno, dell’autunno quasi non si parla: se l’estate era troppo corta, anche l’autunno non è che una precipitosa discesa verso l’inverno. “Tomber” (vv. 3 e 9), cadere, è il verbo privilegiato; e, nella seconda sezione (quella qui non riportata) del canto, “tombe” non sarà più un indicativo presente –sarà proprio “la tombe”, la tomba. Il tonfo cadenzato dei ciocchi (spaccati nel cortile in vista del futuro riscaldamento) si trasforma nelle martellate di chi erige un patibolo, poi nei colpi d’ariete che abbattono la torre della volontà personale, e poi nel sinistro concerto di chi inchioda una bara. L’autunno è l’annuncio dell’inverno-inferno, la fredda tenebra in cui anche il cuore sarà ridotto a un blocco di ghiaccio. Siamo ai limiti dell’allucinazione e dell’alterazione psicofisica, percepire nei propri organi l’ossimoro caldo-freddo dell’ardore polare. Negli scritti sull’hashish, Baudelaire sottolinea che il “beato veleno” enfatizza i pensieri rendendone il corso più accelerato e rapsodico.
Il tonfo cadenzato è il rumore del Tempo, e il Tempo è il grande nemico perché “mangia la vita”. Se gli si cede il comando, anche il semplice bussare di un usciere (come accade nella prosa La camera doppia) può essere “un colpo di zappa nello stomaco” e porta con sé il suo corteggio di angosce, incubi, spasmi, collere –il Tempo che cancella la gioia e ci intima “suda, schiavo!”. Le estati troppo brevi sono, per Baudelaire, quelle della prima infanzia; poi c’è stata un’incrinatura irrimediabile, quando il patrigno e il tutore hanno preteso di controllare il suo denaro. Da quel momento la sua vita si è divisa in due: da una parte il rifugio nel sogno di perfezione e voluttà, dall’altra la necessità di lavorare. Con l’io costretto a oscillare, perché dell’Assoluto comprende la fragilità e del lavoro non sopporta il filisteismo borghese. Come ha visto Sartre, la soluzione esistenziale escogitata da Baudelaire si fonda sull’irresolutezza e sull’impotenza, sull’ambiguità della malafede. Una parte di lui desidera “la fatica dura e forzata”, come desidera stare chiuso in casa al buio e in fondo desidera che il cuore venga sterilizzato dalle emozioni (il cuore del vero dandy dev’essere gelido). L’inverno-inferno gli piace: centinaia di volte ha invocato Satana, il vero modello per lui della bellezza virile. Nella seconda sezione del canto si aprirà un poco alla consolante durata dell’autunno, pregando un’amante matura di essere per lui “la dolcezza effimera / d’un glorioso autunno o di un sole al tramonto”. Più del Baudelaire che bestemmia apertamente, o che vanta le proprie notti di orgia, mi commuove il Baudelaire costretto a torcere un’innata tenerezza per piegarla ai tormenti della nevrosi. La “partenza” annunciata nell’ultimo verso è quella verso la morte, ma è anche il viaggio che ha sempre sognato: verso l’isola di Citera sacra a Venere (dove però, fatale, vedrà ergersi una “forca simbolica” con lui appeso), o “anywhere, out of the world”.
L’altra parola-chiave è “choc”, ripetuta ai versi 3 e 13; qui è solo un rumore secco e monotono ma Benjamin ha mostrato come lo choc sia il marchio della nuova metropoli ottocentesca –come la legna (“bois” è anche il bosco) è spaesata sui selciati, così l’individuo metropolitano è sottoposto a continui urti della percezione e della memoria. Non riesce a tenere unita la propria esperienza, non ne padroneggia la continuità; la città cresce estranea e punitiva (gli “échafaudages”, le impalcature, hanno la stessa radice dell’”échafaud”, il palco della forca o della ghigliottina). L’esibizionismo disperato di Baudelaire interiorizza il fallimento rivoluzionario del 1848, l’inverno in cui si sente precipitato è anche politico. La sua poesia inaugura un io lirico alienato, perforabile dall’esterno –anzi, dipendente dall’esterno (dalle occasioni, dalle epifanie, dai crolli) per autorizzare la propria ispirazione.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 4 maggio 2014, p. 50