La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. I lavoratori. “Li beccamorti”. 18 marzo 1834
In tutta la vita del nostro poeta c’è una costante: l’egualitarismo. Da vecchio, quando -leggendo la “Civiltà cattolica” si vedeva sommerso da violente polemiche contro “Il Manifesto” di Carlo Marx- egli scrisse una poesia in italiano intitolata “Il comunismo”. Vi si rifletteva il suo rifiuto dell’esistenza di “due generi umani”. Quel rifiuto che aveva espresso in versi eloquenti nel sonetto “Er ferraro”: “Quer chi tanto e chi niente è ‘na commedia / che m’addanno ogni vorta che ce penzo” (v. il mio commento nel portale “Letture testuali e con-testuali”). Le sue sono luci spietate e facce vere, come faceva Caravaggio.
Nella poesia dialettale in genere si cerca la macchietta, l’espressione sboccata, la battuta spiritosa, ma per leggere il Belli –diceva Giorgio Vigolo- bisognerebbe mettere sul viso la maschera tragica. Insigni studiosi ormai ne hanno valutato la statura, mettendone in rilievo lo spessore umano, l’intuito psicologico, la sapienza compositiva, l’immediatezza espressiva, il retroterra culturale, l’impegno morale. La sua non è l’opera sguaiata di chi si compiace di essere indecente, quanto lo sfogo di cruda sincerità di un uomo che per troppi anni aveva mangiato il pane di un regime soffocante, aveva fatto parte d’una classe culturale sorpassata, aveva respirato l’aria di un mondo chiuso torpido retrivo: le aveva servite ma –nello stesso tempo- aveva registrato le iniquità dei potenti, l’ignoranza, la superstizione, l’abbandono in cui era lasciata la plebe. Al contrario, nei suoi testi Belli racconta e sottolinea il lavoro che curva la schiena, piega le ginocchia, imbratta le vesti, il lavoro crudo e nudo che si fa con le mani, la piaga della fatica ingrata, dello sfruttamento umiliante. Quanti pesi sulle spalle, quanti piedi nelle zolle, quanti utensili manuali e semplici. Al popolo romano il poeta, nella sua “Introduzione”, riconosce “un dialogo inciso, pronto ed energico, un metodo di esporre vibrato ed efficace”, e questo lui puntualmente registra. Per lui il romanesco, assunto con rigoroso riguardo alla sua natura fonetica, lessicale e sintattica, diviene una via diretta di penetrazione nella cruda verità della vita popolare. Il suo romanesco ha davvero la concisione lapidaria della lingua latina.
“Nell’Introduzione alla sua opera Belli scrisse le motivazioni che avevano determinato la scelta della forma sonetto: egli volle costruire un insieme di distinti quadretti, soprattutto per due finalità; la prima era quella di permettere al lettore di accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di continuità nella lettura, la seconda era quella di utilizzare una forma poetica in sé conclusa in un rapido giro di versi, perché la realtà che egli descriveva si concentrava tutta in episodi brevi, in battute di spirito e in azioni, tanto più efficaci in quanto si esaurivano nel momento in cui erano colti. Perciò non c’è la narrazione ma la rappresentazione del popolo di Roma; l’illustrazione dei vari temi è il frutto dell’accostamento, con la tecnica del mosaico, di tanti pezzi di realtà trasfusi nella poesia. D’altra parte la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che Belli rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative. La forza del romanesco sta nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona”.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
“Li beccamorti” 18 marzo 1834
E cc’affari vòi fà? gnisuno more:
sto po’ d’aria cattiva è ggià ffinita:
tutti attaccati a sta mazzata vita…
Oh vva’ a ffà er beccamorto con amore! 4
Povera cortra mia! sta llì ammuffita.
E ssi vva de sto passo, e cqua er Ziggnore
nun allùmina un po’ cquarche ddottore,
la profession der beccamorto è ita. 8
L’annata bona fu in ner diciassette.
Allora sì, in sta piazza, era un ber vive,
ché li morti fioccaveno a ccarrette. 11
Bbasta…; chi ssa! Mmatteo disse jjerzera
c’un beccamorto amico suo je scrive
che cc’è cquarche speranza in sto collèra. 14
I becchini
E che affari vuoi fare? Qui nessuno muore: questa poca aria malarica è già finita: tutti attaccati a questa vita maledetta… Ecco cosa ci si guadagna a fare il becchino con amore! Povera coltre funebre mia! sta lì ammuffita, in un angolo. E se la cosa continua ad andare in questo modo, e qua il Signore non illumina un po’ qualche dottore, la professione del beccamorto è bella e finita. L’annata buona fu quella del 1817 (l’anno del tifo petecchiale). Allora sì, in questo ramo del commercio, era un bel vivere, perché i morti fioccavano a carrette. Basta…; chissà! Matteo ieri sera disse che un beccamorto amico suo gli scrive che c’è qualche speranza nel colera (che in effetti colpirà anche Roma nel 1837).
Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, EDE).
Analisi. Nei testi del nostro poeta la voce narrante ha sempre un’identità popolare, il punto di vista da cui si rappresentano tanto i potenti che i ceti subalterni è sempre quello “basso” dell’uomo comune. Ma non c’è neppure un’idealizzazione del mondo popolare. A leggerlo spesso si sorride ma nella bocca resta quel retrogusto amaro dato dalla consapevolezza che, in fondo, questi suoi personaggi siamo tutti noi. Ieri come oggi. La sua non è una rappresentazione ideologizzata in modo pregiudiziale. Belli spesso smaschera i vizi e i pregiudizi, la rozzezza e la trivialità del popolo romano.
Questo racconto monologante comincia con una domanda angosciata, rivolta a un collega ma anche a se stesso: E c’affari vòi fa? Conclusa da un disperato e umoristico “gnisuno more” (v. 1). Di fronte alle dure leggi economiche nessuno è senza peccato. Si rimpiange il tifo petecchiale e si spera nel colera. Quando si tratta di soldi non c’è posto per i sentimenti e le sofferenze altrui non entrano nell’orizzonte della coscienza. “Tutti attaccati a sta mazzata vita…” (v. 3). E le rime della prima strofa sembrano accennare con sarcasmo a questa maledetta contraddizione: “vita, ffinita / more, amore”.
E le contraddizioni paradossali innervano tutta la composizione. La povera cortra mia che sta lì ammuffita, invece di essere usata pomposamente (v. 5); er Zignore che deve alluminà un po’ quarche dottore (si sa che nell’immaginario popolare i dottori spesso erano visti come fautori di morte più che guaritori), v. 7); in sta piazza era un ber vive / ché li morti fioccaveno a carrette (vv. 10-11). Così accade, in altri sonetti, anche per i muratori che sperano nel terremoto e insinuano che mettere parafulmini sulle case sia un peccato contro natura, per i materassai che contano sulle cimici, per gli ombrellai che imprecano contro il sereno, per il boia che inveisce contro i giacobini che “se sò mmessi /drent’a li loro scervellacci fessi/ che ggiustizzià la ggente è da tiranno”.
Il poeta mette in dubbio il modo di ragionare convenzionale: si impone di fare er beccamorto con amore, ma è possibile farlo se la gente non muore? E facilmente l’accusa si estende all’intera società, composta di gruppi, ognuno dei quali vive alle spalle degli altri, chiuso nel suo piccolo mondo: il becchino che parla dice che Matteo (altro becchino) dice che un altro becchino, amico suo… Il lettore può pensare che ognuno di noi faccia parte di questi gruppi e che la stessa umanità, che è pur sempre un gruppo, giudica in base ai propri punti di vista, che non valgono, per esempio, per gli animali (vedi il sonetto che segue, scritto un paio di mesi dopo)…
Le maledizione 29 maggio 1834
Monziggnor nostro cor messale in mano
du’ schizzi d’acqua-santa e quattro strilli,
è annato fora a maledì li grilli
e a pproibbije de maggnasse er grano. 4
Circ’a l’inibbizzione de lo spano
nun je se po’ impuggnà ssenza cavilli;
ma, ar mi’ poco giudizzio, er maledilli
nun me pare un’azzione da cristiano. 8
Grilli, tiggnòle, bagarozzi e ruche
sò crature de Dio come che noi:
sola diverzità che ssò ppiù ciuche. 11
Eh come dunque Monziggnor Crocifero
pò maledilli, e ppredicacce poi
ch’è inzin peccato a maledì Lucifero? 14
Il nostro monsignore, armato di messale, due schizzi d’acqua santa benedetta e quattro strilli (è consueta, in Belli, la progressione: uno, due, quattro), è andato in campagna a maledire i grilli e a proibire loro di mangiarsi il grano. Riguardo all’inibizione del mangiare non glielo si può impugnare senza essere eccessivamente cavillosi; ma, anche secondo il mio scarso giudizio, maledire questi poveri animaletti non mi sembra un’azione da cristiano. Grilli, tignole (tarme), scarafaggi e bruchi sono creature di Dio come noi umani: la sola diversità è che sono più piccole. Allora, come può dunque Monsignor Crocifero maledirli e poi predicarci che è peccato anche maledire Lucifero?
Gennaro Cucciniello