Gli antichi migranti che fecero la Magna Grecia
Lo narrano i miti, lo confermano i resti archeologici: i profughi verso l’Occidente furono per l’Italia del Sud fonte di grande arricchimento. Una storia su cui riflettere oggi.
Ne “Il Venerdì” di “Repubblica” del 19 agosto 2016, alle pagine 94-95, è stato pubblicato questo articolo di Matteo Nucci. Lo pubblico sul Sito perché è attuale.
“E già rosseggiava l’Aurora, fugate le stelle,/ quando vediamo lontano oscuri colli e bassa / l’Italia. Italia!, grida per primo Acate,/ Italia!, salutano i compagni con lieto clamore./ Allora il padre Anchise pose una corona su un grande / cratere, e lo colmò di vino puro, e invocò gli dei,/ eretto sulla regia poppa:/ O dei, signori del mare e della terra e delle tempeste,/ date un’agevole via con il vento, e spirate favorevoli!”. Quando Enea racconta a Didone del viaggio che ha portato i profughi da Troia alle prime sponde italiane l’entusiasmo e la felicità coronano un lungo itinerario che Virgilio descrive minuziosamente. Dall’Egeo cicladico a Creta, poi a sud del Peloponneso, alle isole Strofadi e alle più celebri delle Ionie, fino a Butroto sulle coste dell’Epiro (oggi Butrinto in Albania) dove vive la moglie di Ettore, Andromaca. L’ultimo tratto di mare vede il timoniere Palinuro intento a evitare le cose sud dell’Italia, dove eroi achei sono venuti a insediarsi, anch’essi dopo la lunghissima e distruttiva guerra di Troia. La meta finale infatti è la Trinacria, la Sicilia dove anni prima è nato Egeste (che Virgilio chiama Aceste), figlio di quella giovane troiana sedotta da un fiume nelle sembianze di un orso, che era stata messa in mare dai genitori per evitarne il sacrificio. La meta è quindi Drepano, Trapani, dove Enea indice grandi giochi funebri in onore del padre morto lì, prima di penetrare l’entroterra dell’isola e fondare una città per chi non ne può più del viaggio con cui è necessario raggiungere il Tevere. La città prenderà il nome della ragazza troiana arrivata anni prima in Sicilia, la madre di Egeste: Egesta. Con il suo tempio dorico che commosse Goethe e il teatro a strapiombo sulla valle, Segesta è oggi una delle mete più ambite del turismo archeologico, uno dei doni eterni lasciati dai primi profughi di cui abbiamo testimonianza nella nostra Italia.
I miti cantati da Virgilio, infatti, ci raccontano di un tempo perduto in cui popoli greci e troiani, in fuga dalle coste dell’Asia minore, sfidarono il mare per trovare un posto adatto all’insediamento. Si tratta di miti cresciuti su quel che accadde effettivamente, visto che di una emigrazione micenea (secondo millennio) abbiamo parecchie prove in tutta l’Italia meridionale. Tuttavia sono altre ancora le storie che possiamo seguire dettagliatamente, fuori dalla narrazione mitica. La prima colonia fondata da profughi provenienti dall’Asia minore è con certezza quella di Siri, in Lucania. Arrivarono attorno al 675 dalla Colofone assediata da Gige re dei Lidi e quel che sappiamo è che riuscirono immediatamente a stringere buoni rapporti di reciproca ospitalità con gli abitanti dell’entroterra.
Un secolo dopo, sulla stessa rotta, furono seguiti dagli esuli di Focea. E’ una storia complessa e molto interessante. I Focei veleggiarono verso la Corsica, dove già anni prima alcuni loro concittadini si erano insediati. Un oracolo aveva fatto il nome di Cirno e la meta era parsa l’isola dove Cirno, figlio di Eracle, aveva regnato: la Corsica. Alalia (oggi Aleria) fu quindi loro patria per cinque anni. Diversamente dai Colofoni, però, i Focei non si fecero ben volere dalle popolazioni dei dintorni. La loro abitudine piratesca non li aiutò ad accreditarsi. Etruschi e Cartaginesi si unirono per sconfiggerne la flotta.
Sembra storia recente. Non sempre le migrazioni hanno immediati effetti benefici per chi arriva e per chi accoglie. I Focei sconfissero i nemici coalizzati ma a duro prezzo. Privi di gran parte della flotta, privi dell’appoggio dei compagni di un tempo –che preferirono restare neutrali-, lasciarono la Corsica, arrivarono a Reggio e poi veleggiarono di nuovo verso nord fino a Posidonia (ossia Paestum), dove un uomo reinterpretò l’oracolo che li aveva spediti in Corsica, indicando un luogo dove i Focei potessero stabilirsi. Non l’isola di Cirno ma un luogo da consacrare a Cirno. I Focei riaprirono le vele verso sud, e quando videro il doppio golfo della località che prendeva il nome da una fonte, Hyele, rimasero sconcertati. Come capitava spesso nell’antichità, il luogo perfetto per l’insediamento doveva ricordare in qualche modo la madrepatria abbandonata, dunque non ebbero esitazioni.
Oggi il doppio golfo di Velia, ossia l’antica Elea, è interrato. Il mare è lontano dalla rocca su cui fu eretta la famosissima Porta Rosa, ma è qui che ancora celebriamo un immigrato di seconda generazione destinato a rimanere celebre nei secoli, Parmenide. Con lui la storia della filosofia ricorda altri due celebri profughi. Senofane, che arrivò di passaggio dalla Colofone occupata dai Persiani nel 540. Nonché un nativo della terza generazione di Focei: Zenone, che sarebbe diventato famoso per il paradosso di Achille e la tartaruga.
Se ci sarà qualche Parmenide, qualche Zenone o qualche Senofane fra le prime, seconde o terze generazioni dei profughi che oggi arrivano in Europa, è difficile presagirlo. Quasi impossibile, finché non verrà data loro la definitiva possibilità di approdare. Peraltro, stando al modo di vedere nell’antichità, non dovremmo guardare solo a coloro che arrivano in fuga da Paesi in guerra. La parte più cospicua e non meno nobile dovrebbe essere costituita da quelli che ai nostri tempi, usando un epiteto per nulla omerico, definiamo “migranti economici”. Si tratta della grandissima parte di coloro che costruirono la Magna Grecia. Non arrivarono solo dall’Asia minore, ma dalla stessa Grecia continentale, da Paesi in cui il bisogno di terre, prospettive e lavoro spingeva le barche a prendere il largo verso occidente. In Italia i primi sbarcarono a Pithecussa, ossia Ischia, nel 770. In Sicilia i primi fondarono Naxos nel 734 e arrivavano da Calcide. I resti dell’antica città sono ancora delimitati dal mare e dalle mura. Il museo di Giardini Naxos racconta come cominciò la storia, a partire dalle difficoltà di chi viveva nell’Eubea, stretta sul mare e priva di risorse. “Ma erano tutti filosofi, non come ora” mi dice una studiosa accompagnandomi fra Giardini e Taormina, nelle ville che i nuovi intellettuali del Novecento popolarono. In effetti i filosofi furono molti. E basterebbe elencare i principali: Empedocle ad Agrigento, Gorgia a Leontini (Catania), Pitagora a Crotone (in fuga dal tiranno che dominava Samo: Policrate).
Ma non solo di filosofi si trattò. Poeti, storici, commediografi, tragediografi, medici, matematici, astronomi, artisti, atleti, legislatori, politici. Le migrazioni greche le raccontiamo oggi come fonte di enorme arricchimento. Dimenticando l’istituzione principale che generalmente regolò i loro rapporti con i popoli italici e siciliani con i quali entrarono in contatto. In greco si chiamava Xenia. Xenos era lo straniero ma anche l’ospite. Da un buon rapporto di ospitalità arrivavano crescita, miglioramento, progresso. A girare per le strade dei paesi del nostro Sud, oggi, si ha l’impressione di tutto quello che ne potrebbe venire se quell’idea antica ed eterna venisse rimessa in vita. Non si tratta di un sogno, del resto. Basta viaggiare fino al paese che ha dato il nome ai più famosi bronzi greci riemersi dal mare: Riace. Fin dal 2010 il suo sindaco viene premiato all’estero per le politiche di accoglienza con cui ha ridato vita ad un centro abbandonato, offrendo case e lavoro ai profughi dei nostri tempi. Andate a Riace a studiare l’antica eterna Xenia. Non serve poi così tanto per rendersi conto che costruire una nuova Magna Grecia è possibile.
Matteo Nucci