Il metodo di Picasso. Una mostra a Verona, ottobre 2016
Nella tradizione cercava l’atipicità. Nacquero così le sue figure stravolte.
Verona. Palazzo Forti. La mostra, “Picasso. Figure (1906-1971)”
Riproduco due articoli, di Roberta Scorranese e Chiara Vanzetto, che commentano una mostra a Verona di molte opere di Picasso, prestate dal Musée national Picasso-Paris. Gli articoli sono apparsi sul Corriere della Sera di domenica 16 ottobre 2016, alle pagine 32 e 33.
Nel film Midnight in Paris di Woody Allen (2011) lo scrittore in crisi Gil Pender si ritrova catapultato nella Parigi di 90 anni prima, in quella stagione irripetibile degli anni Venti del ‘900 in cui Cole Porter accenna al pianoforte la sua Let’s Do It, Ernest Hemingway vive gli anni “poveri ma felici” che poi si condenseranno nel capolavoro Festa mobile e Pablo Picasso si veste da torero accanto a Marcel Duchamp che si traveste da Rose Sélavy. Questa Parigi lontana dal proibizionismo e ignara del baratro dove sprofonderà venti anni dopo è l’incarnazione storica della libertà moderna.
E Picasso, che era giunto qui nell’ottobre del 1900, ha vissuto non solo questa stagione ma anche quella della belle époque, dove la libertà creativa correva come un fiume lavico per le strade illuminate dall’elettricità e sulle gambe delle modelle nude che vagavano per gli atelier. E dunque, quanto influì questa primavera infinita di sensi nella sua radicale trasformazione della figura umana? E’ il campo di indagine della mostra che si apre a Palazzo Forti ma è anche uno dei nodi della poetica picassiana: vicinissimo all’astrazione totale ma senza mai abbandonare le forme.Il sodalizio con Georges Braque, per esempio, lo spinse fino a opere come Il poeta del 1911, oggi nella collezione Peggy Guggenheim di Venezia, dove gli oggetti sono quasi irriconoscibili grazie al bisturi del Cubismo analitico, ma non andò oltre.
Emilie Bouvard, curatrice della mostra, trova una definizione calzante: “Non abbandonò mai la tradizione, perché in essa cercava l’atipicità. Ne aveva bisogno”. Si delinea allora il “metodo Picasso”: conservare la figura per mostrarne ogni possibile trasfigurazione, anche grazie a quella libertà di mezzi, di espressione, di parola e di sensi che Parigi gli dava. Lui, il pittore che a quattro anni dipingeva “come Raffaello” e che era bravissimo nel disegno partì dall’Ingres più atipico, “quello del Ritratto di monsieur Bertin –dice Bouvard- cioè l’Ingres più lontano dalle rappresentazioni epiche. O studiò bene la lezione di Francesco Primaticcio, l’allievo di Giulio Romano che decorò alcuni ambienti del castello di Fontainebleau su invito del re Francesco I di Francia”.
Perché Picasso era interessato alle declinazioni della figura umana così come Cézanne era interessato alla mistica delle cose (delle mele, delle pere, delle montagne brulle). Le prostitute di Les demoiselles d’Avignon nascono dalle sensualissime odalische del Bagno turco di Ingres ma hanno la solidità dei corpi cezanniani e al tempo stesso quella leggerezza in dissolvenza che Picasso aveva preso dal cinquecentesco El Greco.
“Cézanne aveva insegnato sia a lui che a Braque la costruzione dello spazio”, commenta Bouvard. Solo che Picasso ci aggiunse una continua reinvenzione dello stesso soggetto (dalla donna ai Bambini).
Si può dire che la storia della rappresentazione della figura umana sia stata quella di tante rivoluzioni picassiane, anche nel passato? “In un certo senso sì” –ammette Bouvard-: “ogni volta che si individua un nuovo modo di raccontare la figura, modo legato alla sensibilità dell’epoca. Prendiamo, per esempio, il Manierismo del primo ‘500”. Cioè i dipinti di Pontormo o di Rosso Fiorentino: quest’ultimo in particolare, nel 1518, si vide rifiutare una pala d’altare perché il committente disse che quei santi “parevano diavoli”, tanto i visi e i corpi erano stravolti. E, secoli dopo, parlando delle sue Demoiselles, Picasso affermò: “Questa bruttezza è il segno della lotta del suo creatore per dire una cosa nuova in maniera nuova”.
Roberta Scorranese
Cubismo o fase “surrealista”: Indagine su un rivoluzionario
“L’arte non è l’applicazione di un canone di bellezza, ma ciò che l’istinto e il cervello elaborano dietro ogni canone” diceva Pablo Picasso. Istinto e cervello, passione e ragione: il maestro spagnolo, classe 1883, ha intrecciato questa doppia visione in infinite soluzioni creative, personalità tanto poliedrica e vitale da rivelare sempre aspetti inediti.
Benvenuta quindi la nuova mostra “Picasso. Figure (1906-1971)”, appena aperta all’Arena Museo Opera (A.M.O.) di Verona a cura di Emilie Bouvard, conservatrice del Musée national Picasso di Parigi, che ha concesso in prestito i capolavori esposti.
Organizzata da Arthemisia Group, la rassegna propone un viaggio lungo l’itinerario creativo picassiano tra il 1906, data convenzionale per la nascita del primo Cubismo, e il 1971, ultime produzioni del pittore, morto nel 1972.
La scommessa? Esporre almeno un’opera per ognuno di questi anni: scommessa vinta, 90 i pezzi eccellenti tra dipinti, sculture e grafiche, integrati da foto e filmati. Il taglio? Raccontare le trasformazioni a cui Picasso ha sottoposto la figura umana, scardinata e ricomposta più volte durante le molte fasi creative.
Importante in questo senso il trasferimento in Francia. “Giunto dalla Spagna nel 1900 carico di cultura accademica, a Parigi trova un mondo molto diverso, dove la pittura può confrontarsi con la realtà e con il corpo, esaltato dall’Art Nouveau –spiega in catalogo Macha Paquis-. Influenzato dal lavoro degli autori dell’Ottocento, Picasso può avventurarsi alla scoperta di un nuovo tipo di rappresentazione: inizia a far posare le modelle e a catturarne le immagini da diversi punti di vista”.
Ma anche la cosiddetta traccia accademica in Picasso diventa spunto di novità. “Sarebbe arrivato alla scomposizione cubista anche grazie all’applicazione di schemi proporzionali la cui funzione è, in origine, la creazione di figure armoniose –osserva nel suo saggio Hiromi Matsui-. Questi schemi, che dovrebbero sparire nell’opera finita, qui invece affiorano e alterano le forme in senso geometrico”.
La mostra si articola in sei sezioni. In primis il Cubismo, 1906-’16, arte concettuale in cui non si riproduce la natura come è ma come si presenta alla nostra mente: nell’Uomo col mandolino si intravvedono solo tracce di realtà, anche se Picasso non raggiunge mai l’astrazione totale.
Si passa, nel periodo che abbraccia l’arco temporale 1917-’24, alla reinvenzione della classicità, scoperta grazie ad un viaggio a Roma: la Prima comunione propone figure plastiche che sembrano ispirate ad un’estetica antica.
Poi le metamorfosi surrealiste, anni 1925-’36: il contatto col Surrealismo suggerisce maggiore libertà nella deformazione del ritratto, come in Donna con gorgiera, fisionomia sconvolta e aggressiva. Quarta sezione, guerra civile spagnola, 1937-’45: nella Donna che piange, volto distorto dal dolore, Picasso riassume la sofferenza delle madri che perdono un figlio.
Quinto step, il ritorno alle origini, 1946-’53, un nuovo primitivismo alla ricerca di forme originarie e infantili, come in Madri e figli che giocano. Per chiudere gli ultimi vent’anni, 1954-’71, tra riflessione sui maestri del passato, da Diego Velasquez a Manet, e ossessiva meditazione sul rapporto artista-modella.
Le sei sezioni aiutano a capire perché il pittore faceva riproduzioni in serie e perché riprendeva sempre lo stesso soggetto, per riprodurlo negli anni (con stili diversi) al fine di raccontare quanto fosse ossessivo per lui il ripetersi, nelle proprie creazioni, della figura umana e dei ritratti.
Chiara Vanzetto