Gottfried Benn (1886-1956), “Bella gioventù”, 1912
La bocca di una ragazza, che era rimasta a
lungo nel canneto,
appariva tutta rosicchiata.
Quando le venne aperto il petto, l’esofago
era crivellato di buchi.
Si trovò infine in una pergola sotto il
diaframma
un nido di giovani topi.
Una piccola sorellina era morta.
Gli altri vivevano di fegato e reni
bevevano il freddo sangue ed era
quella passata qui una bella gioventù.
E bella e rapida venne anche la loro morte:
furono gettati tutti insieme nell’acqua.
Ah, quei musini come squittivano!
Schone Jugend
Der Mund eines Madchens, das lange im
Schilf gelegen hatte,
sah so angeknabbert aus.
Als man die Brust aufbrach, war die
Speiserohre so locherig.
Schlieblich in einer Laube unter dem
Zwerchfell
fand man ein Nest von jungen Ratten.
Ein kleines Schwesterchen lag tot.
Die andern lebten von Leber und Niere,
tranken das kalte Blut und hatten
hier eine schone Jugend verlebt.
Und schon und schnell kam auch ihr Tod:
man warf sie allesamt ins Wasser.
Ach, wie die kleinen Schnauzen quietschten!
da “Morgue”, 1912
La descrizione è di una crudezza quasi insopportabile: la bocca rosicchiata della ragazza stesa sul tavolo dell’obitorio, il petto squarciato e l’esofago fitto di lacerazione. Poi, fonte di massima provocazione, cuore terroristico del testo, la nidiata di topi scoperta sotto il diaframma. Ribrezzo e sorpresa, anche se quel “rosicchiata” poteva servire da indizio. I topolini si nutrono di fegato e reni, e bevono il sangue che si è fissato nelle ipostasi del cadavere. Contrariamente a quel che si può pensare, la coagulazione del sangue è un processo attivo e quindi nei morti il sangue resta liquido; la descrizione è tecnica, fatta da qualcuno che se ne intende. Una femmina della nidiata è già morta.
Il gioco tra morto e vivo è la struttura portante della poesia: c’è un corpo morto, quello della ragazza, che si fa contenitore di vita –i topolini trascorrono, in quel ricovero accogliente, una bella gioventù. In un testo così terribilmente letterale l’unica metafora forte (la “pergola” per indicare l’aggetto del diaframma che fa da riparo) suggerisce il rigoglio naturale del fogliame. Ma la morte, incarnata nella sorellina, giace accanto alla vita; e la bella gioventù finisce con una bella morte –il “shon und schnell” (coppia allitterante) tuffo nell’acqua; la ragazza nel canneto c’era rimasta a lungo, i topolini muoiono subito. Se per sottrarci all’orrore c’eravamo rifugiati nell’ottica dei topi, incuranti di ciò che li nutre e innocenti di ogni beffarda proiezione umana, è proprio da quell’innocuo punto di vista che arriva l’ultima stilettata: noi stessi siamo quei poveri musini squittenti, condannati a morte mentre escono da un cadavere. Sono loro che vengono puniti per la profanazione, o è l’autore che si punisce (sadomasochisticamente) per la propria sarcastica crudeltà?
Quando Benn scrisse questa poesia aveva ventisei anni, e non era stato un poeta precoce; le poesie di “Morgue” (parola francese che indica l’obitorio) sono praticamente le sue prime. “Si avventarono tutte nello stesso momento”, così Benn in una pagina autobiografica, “prima di esse non esisteva nulla… alla fine restai vuoto, affamato, barcollante e me ne uscii in silenzio dal grande sfacelo”. A quel tempo era ufficiale medico a Berlin-Spandau; l’esperienza della dissezione anatomica diventa l’ordigno che fa esplodere una visione del mondo. Queste poesie sono uno sfogo, una liberazione dallo shock. Il “man” impersonale (“le si aprì il petto… si trovò”) racchiude un “ich”: in un’altra poesia della raccolta parla di un autista di birreria a cui qualcuno (forse per scherno) ha messo in bocca un fiorellino –“io, scrive Benn, devo averlo urtato asportando palato e lingua” e “io, ricucendo, glielo sistemai nell’addome”. Anche lì la vita, fragile, a contrasto col ripugnante ingombro del cadavere. E lo sberleffo, la stridula allegria.
Siamo agli inizi dell’espressionismo tedesco, di quella cattiveria splatter che intende smascherare l’ipocrita barbarie borghese e il putrido opportunismo socialdemocratico; esasperando la freddezza chirurgica dei veristi (in fondo pietosa e solidale), Benn arriva a un nichilismo che riduce l’uomo alla propria carne: “la corona della creazione, il maiale, l’uomo”. Da bravo figlio ribelle di un pastore protestante, i suoi cadaveri tagliati scientificamente sono una mostruosa e irridente palinodia della resurrezione dei corpi. Della ragazza, nel nostro testo, si mettono in evidenza la bocca e il petto, cioè i luoghi canonici dell’erotismo; il tavolo dell’obitorio come alcova e altare, da cui si origina la vita. Per una di quelle scelte che illuminano un destino, Benn deciderà di lavorare, per 30 anni, come specialista in malattie veneree; costretto a visitare ogni giorno “Dio rovesciato sui genitali come un copriformaggio”. Faccio fatica a considerare questa un’atroce poesia realistica; mi pare piuttosto un atto di misticismo rovesciato, una meditazione sui novissimi (cioè sulle realtà ultime della religione su cui affaticarsi laicamente). Un nero mistero con sacrificio finale. Non c’è regolarità metrica e l’unica rima (Ratten – hatten) è casuale; i tagli metrici sono determinati dall’oltranza stessa della visione, come se fosse necessario riprendere fiato dopo ogni sequenza.
Non meraviglia che, dopo un esordio così, la successiva poesia di Benn si sia trincerata in un intellettualismo feroce, in un rifiuto della Storia in nome della Forma immutabile. Già in un ciclo di racconti del 1916 un suo eteronimo dichiara “la sensazione, quasi di trance, che la realtà non esistesse veramente”. Da lì l’interesse (reazionario) per le culture primitive e magiche. Solo verso la fine della vita troverà il piacere di osservare l’umanità con umile assenso; per esempio in “Gente incontrata” non sa nascondere l’amore verso quel tipo di donne che “coi genitori e quattro fratelli in una stanza ( crebbero, di notte, con le dita nelle orecchie,/ studiavano al focolare,/ si fecero strada, di fuori belle e ladylike come contesse / di dentro miti e operose come Nausicaa,/ avevano la fronte pura degli angeli./ Mi sono spesso domandato e non ho trovato risposta,/ da dove venga la dolcezza e il bene,/ nemmeno oggi lo so e ora devo andare”.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 13 aprile 2014, p. 56