La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. Lo Stato pontificio. “Er bon governo”, 25 settembre 1836
La Roma raccontata dal Belli è la Roma dei sei papi che regnarono nei settantadue anni (1791-1863) nei quali egli visse, anni di enormi agitazioni, di grandi rivoluzioni politiche, di un frenetico andirivieni tra occupazioni militari e restaurazioni, in una città sordida e spopolata, abitata da plebi –con quelle di Napoli- tra le più incolte e ciniche che ci fossero allora in Italia. Il poeta ritrae questa città che si lascia vivere con indolenza mentre si diffonde la consapevolezza che lo Stato della Chiesa è diventato ormai un anacronismo.
Già in un sonetto del 1832 (“Li punti d’oro”) Belli aveva scritto: “Cusì viengheno a dì li giacubini,/ ar gran sommo pontefice Grigorio:/”che te fai de li stati papalini,/ dove la vita tua pare un mortorio?”. Non fu così facile, comunque, liberarsi di questi “stati papalini”. Ancora nel 1862 trecento vescovi reclamarono che il potere temporale dei papi era una necessità voluta direttamente dalla Provvidenza divina. Affermazioni impegnative per questi vescovi, un anno dopo la proclamazione dell’unità d’Italia.
Non si dimentichi che papa Gregorio XVI, che tanto piaceva a Belli, era il papa che nell’enciclica “Mirari vos” del 1832 aveva scritto tra l’altro: “E’ un vaneggiamento che ognuno debba avere libertà di coscienza, a questo nefasto errore conduce quell’inutile libertà d’opinione che imperversa ovunque”. “La sessantina di sonetti dedicati a questo papa rendono bene, nell’insieme, l’idea che il popolo romano poteva avere del papa-re: da una parte la fede cristiana, anche se spesso rappresentata dal poeta come superstizione, fa rimanere salda la componente religiosa della figura del papa, come successore di Pietro e Cristo in terra; ma i romani, proprio per la vicinanza fisica con l’uomo che ad un certo punto diventa papa e la diretta conoscenza dei meccanismi per nulla spirituali che lo portano all’elezione al pontificato, lo giudicano anche come individuo e lo temono come governante che impone le gabelle e commina le condanne, come capo della fatiscente società del putrido Stato pontificio”.
Alla fine, quando al soglio di Pietro salirà Pio IX – che si stava acquistando fama di “liberale”-, Belli –in un sonetto del gennaio 1847, scriverà un testo con un attacco grandiosamente reazionario: “No, sor Pio, pe’ smorzà le turbolenze,/ questo qui non è er modo e la magnera./ Voi, padre santo, nun n’avete cera,/ da fa’ er papa sarvanno le apparenze./ La sapeva Grigorio l’arte vera / de risponne da Papa a l’insolenze./ Vonno pane? Mannateje indurgenze;/ vonno posti? Impiegateli in galera”.
Nell’Introduzione alla sua opera Belli aveva spiegato i motivi che lo avevano spinto a scegliere per i suoi testi la forma del sonetto: egli voleva costruire tanti quadretti distinti, soprattutto per raggiungere due scopi: il lettore doveva accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di dover continuare nella lettura; il poeta doveva usare una forma in sé conclusa in un veloce giro di versi, perché la realtà descritta si concentra tutta in brevi episodi, in azioni e battute di spirito, tanto più efficaci in quanto si esauriscono nel momento in cui sono colti.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. M. Teodonio, “Er catachisimo. La riliggione spiegata e indifesa nei sonetti di Belli”, Elliot, 2015.
“Er bon governo” 25 settembre 1836
Un bon governo, fiji, nun è quello
che v’abbotta l’orecchie in sempiterno
de “viscere pietose” e “cor paterno”:
puro er lupo s’ammaschera da agnello. 4
Nun ve fate confonne: un bon governo
se sta zitto e soccorre er poverello.
Er restante, fijoli, è tutt’orpello
pe accecà l’occhi e comparì a l’isterno. 8
Er vino a bommercato, er pane grosso,
li pesi giusti, le piggione basse,
bona la robba che portàmo addosso… 11
Ecco cos’ha da fa un governo bono;
e nò piàgneve er morto, eppoi magnasse
quant’avete, e lassavve in abbandono. 14
Un buon governo, figli, non è quello che vi riempie le orecchie di continuo con false professioni di umiltà e di solidarietà (le frasi in corsivo rientravano tra quelle più usate nei documenti ufficiali del governo pontificio): anche il lupo si maschera da agnello. Non vi fate confondere: un buon governo sta zitto e soccorre i poveri. Tutto il resto, figlioli, è tutta scena per accecare gli occhi e fare bella figura all’esterno. Il vino a buon mercato, il pane in confezioni grandi e a prezzi bassi, le bilance non falsate, basso il prezzo degli affitti, buoni i vestiti che indossiamo… Ecco quello che deve fare un governo davvero buono: e non fare finta di aiutarvi, voi povera gente, e poi mangiarsi tutto quello che avete e lasciarvi in pieno abbandono.
Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, EDE).
Le quartine.
L’anonima voce popolare esprime una serrata critica contro il governo papalino, che in linea teorica parla sempre di solidarietà ma in realtà rivela la sua natura rapace. Chi parla si rivolge ai suoi ascoltatori-lettori come un vecchio padre saggio che dalle esperienze della vita ha imparato a conoscere la dura realtà delle cose. Anzi, a me dà l’impressione di un prete contestatore abituato a parlare dal pulpito e che ora intende smascherare le ritualità dei suoi confratelli (ecco quel meraviglioso “v’abbotta l’orecchie in zempiterno / de viscere pietose e cor paterno”). Dal punto di vista stilistico è interessante la scelta di rime assonantizzate (“ello-erno”) che crea una musicalità omogenea. Simmetrici sono anche gli enjambement (vv. 1-2, 5-6, 7-8).
Le terzine.
Qui si espongono le linee fondamentali di un buon governo, realmente solidale con la povera gente. Niente di rivoluzionario, ma almeno prezzi accessibili per i generi di prima necessità (vino, pane, affitto e vestiario). Il programma è semplice: tener conto delle reali esigenze del popolo. Nello Stato pontificio, invece, si fa solo finta di aiutare i poveracci mentre li si depreda e li si lascia abbandonati a loro stessi. In questi versi il ritmo rallenta, i versi sono spezzati, salvo gli ultimi due (uniti ancora dall’enjambement). Il tono linguistico si fa greve, appesantito dalle consonanti raddoppiate (bommercato, grosso, piggione, basse, robba, addosso, maggnasse, lassavve, abbandono) che creano un effetto straniante di sarcasmo.
Il giorno dopo, il 26 settembre 1836, Belli crea un sonetto ironico e gustoso:
Certe parole latine
Una ce n’ho ppur’io guasi compaggna.
Quanno annai cor padron de zi’ Pacifica
A Terni indove er marmo se pietrifica
Eppo’ a Ssisi e a la fiera de Bevagna, 4
In chiesa, doppo er canto der “Maggnifica”
Dimannai a un pretozzo de campaggna:
“Quer parolone “fecimichimaggna”,
Sor arciprete mio, cosa significa?” 8
L’abbate je pijò un tantin de tossa,
Poi disse: “Fecimichimaggna”, fijo,
Vò dì in vorgare “Me l’ha ffatta grossa”. 11
Dico: “E cosa j’ha ffatto, eh sor curato?”
“Oh, certi tasti”, dice, “io ve conzijo
De nun toccalli; e quer ch’è stato è stato”. 14
Anch’io ora vi racconto una storia quasi uguale. Fu quando andai col padrone di zia Pacifica a Terni, alle cascate delle Marmore con le sue stalattiti, poi ad Assisi e alla fiera di Bevagna. In chiesa, dopo il canto solenne del “Magnificat” io domandai a un prete di campagna: “Quel parolone –“Fecit mihi magna”- signor arciprete mio, cosa significa?” (è la frase di ringraziamento di Maria al Signore: “Mi fece grande”). All’abate (si noti l’ironia, da pretozzo di campagna a sor arciprete mio fino all’abate e poi al sor curato del v. 12) venne un po’ di tosse, poi disse: “figlio, Fecimichimaggna vuol dire in lingua volgare “Me l’ha fatta grossa”. Io dico: “E cosa gli ha fatto?”. Lui risponde: “Oh, certi tasti io vi consiglio di non toccarli; e quel che è stato è stato”.
Gennaro Cucciniello