Dalla Terra alla Luna
Muoversi. Viaggiare. Superare i limiti nazionali e quelli della tecnologia. Un geografo spiega cosa lega l’ansia di scoperte e di indipendenza.
Questo articolo di Franco Farinelli, geografo, è stato pubblicato nell’”Espresso” del 27 maggio 2018, alle pp. 78-79. La lezione di Farinelli è stata tenuta all’interno della Festa di Radio 3 a Cesena, il cui tema è stato “Tirannia e libertà”.
Alcuni opinionisti si sono preoccupati di approfondire le ragioni di una discrasia significativa di questa nostra epoca: le popolazioni dei paesi industrializzati sempre più rancorose e in rottura con i governi che le hanno guidato negli ultimi due decenni. Le ragioni sono diverse: soprattutto spaventa la crescita delle disuguaglianze in un quadro globalizzato pieno di contraddizioni. Eppure il tenore di vita delle grandi masse è enormemente migliore rispetto solo a cinquanta anni fa: sicurezza sanitaria, welfare, disponibilità di merci, risorse tecnologiche avanzatissime, prolungamento del tempo di vita fanno sì che un cittadino medio dell’Occidente (ma anche dell’Asia ormai) viva in condizioni di tanto migliori rispetto all’aristocrazia di qualche secolo fa. E un’altra considerazione s’impone: oggi anche un adolescente in possesso di uno smartphone ha in mano uno strumento potentissimo che dilata oltre ogni limite sopportabile l’onnipotenza del singolo e il suo egoismo narcisista, con i suoi fraintendimenti ed errori ma anche con i suoi slanci e le sue solidarietà. Stanno mutando i codici cognitivi e comunicativi. Così se il Novecento è stato il secolo della nazionalizzazione delle masse (con tutti i suoi corollari di libertà e di dittatura), il nostro XXI° secolo potrebbe caratterizzarsi come quello della mediatizzazione delle masse, dell’ultra-individualismo sovvertitore di ogni regola, capace di ogni impresa, ma nello stesso tempo disponibile alla più insulsa pecoraggine autoritaria.
Gennaro Cucciniello
Qualche anno fa Amartya Sen scrisse un libricino per rivendicare le origini non soltanto occidentali ma anche africane e asiatiche della democrazia, omettendo sorprendentemente tra gli ingredienti l’elemento fondamentale senza il quale nessuna discussione pubblica avrebbe mai potuto aver luogo, in nessuna parte del mondo: uno spiazzo piatto e sgombro dove le persone potessero, parlando, vedersi in viso l’una con l’altra. Senza tale radura nessun impulso alla discussione stessa e nessuna tolleranza dei diversi punti di vista (le caratteristiche che per Sen definiscono la pratica democratica) sarebbero mai stati concretamente possibili. Viene in mente il vecchio Michelet, che giusto un secolo e mezzo fa affermava che senza una base geografica il popolo, protagonista della storia, sembra camminare nell’aria come in quelle pitture cinesi dove non c’è il suolo. Ancora prima Voltaire definiva la libertà come il potere di fare ciò che si vuole in riferimento a specifiche circostanze, idee e luoghi, perché ad esser libera non è la volontà ma sono libere soltanto le azioni, che corrispondono sempre a un determinato, materiale contesto.
E d’altronde già per Dante la questione era chiara. Si prenda ad esempio il passo, nell’Inferno, dove si descrive la situazione politica della Romagna, e in particolare la terzina del 27° canto. Così “com’ella sie’ tra il piano e il monte / tra tirannia si vive e stato franco”, scrive Dante a proposito di Cesena. Fin qui tali versi sono sempre stati intesi soltanto come un riconoscimento della natura non troppo oppressiva di Galasso da Montefeltro, meno dispotico degli altri signori della regione. Ma la corrispondenza tra dato fisiografico e regime politico (pianura uguale tirannia, montagna uguale sua assenza) è troppo chiara e netta per non significare anche altro.
E basta uno sguardo un po’ più ampio per comprendere. Si pensi, per restare al tempo di Dante, all’addensamento dei movimenti ereticali dei Catari e degli Albigesi lungo la linea costituita dalle Alpi di Provenza e dai Pirenei. Oppure, sul fronte opposto del Mediterraneo, ai Berberi arroccati ancora oggi sui monti dell’Atlante e dell’Hoggar: capaci di tener testa a tutte le invasioni provenienti dal mare (Fenici, Romani, Vandali) ma in ritirata sui rilievi di fronte alla prima e unica irruzione via terra, quella araba terminata all’inizio del Mille. Oppure si consideri ancora la geografia culturale delle Isole Britanniche, al cui interno l’elemento celtico, che prima dell’arrivo di Cesare abitava l’intero paese, risulta ancora oggi confinato sulle alture, accuratamente evitate non soltanto dai conquistatori latini ma anche dai loro successori, gli Angli e i Sassoni arrivati dalla Scandinavia cinque secoli dopo. In ogni caso, indipendenza (il monte) contro soggezione (la piana), libertà contro tirannia.
In fondo, soltanto lo Stato nazionale territoriale centralizzato, come lo chiamava Carl Schmitt, quello in cui ancora oggi viviamo, è stato in grado di sormontare in qualche misura l’opposizione tra pianura e montagna che appartiene all’origine della cultura occidentale: la prima l’ordinato ambito delle sedi stabili e della coltivazione (cioè della cultura), la seconda la scoscesa e disordinata massa montuosa regno della pastorizia nomade e dell’assenza di valori civili, cioè alla lettera riferibili alla città. E all’interno dello Stato nazionale il superamento di tale strutturale e storica opposizione ha assunto la forma moderna del contrasto tra i luoghi e lo spazio. Luoghi e spazio non sono cose, ma due diversi modi con i quali ci rappresentiamo la stessa cosa, la faccia della Terra. Essa si compone di luoghi se la concepiamo come un insieme di parti ognuna dotata di qualità specifiche, che cioè non si possono scambiare con quelle di nessun’altra. Si compone invece di un unico spazio se la concepiamo composta di parti l’un l’altra equivalenti, cioè che si possono scambiare senza che nulla cambi, come quando dovendo percorrere un tratto di strada il più velocemente possibile non ci importa nulla della bellezza del paesaggio.
La contrapposizione tra spazio e luoghi, cioè tra pianura e rilievi, muove tutta la costruzione della modernità. Ancora tra Sette e Ottocento, ad esempio, per Schiller la montagna coincide senza mediazioni con la libertà, perché è il luogo dove la “corte della vecchia verità”, cioè il dominio dell’aristocrazia di origine feudale, non riesce ad arrivare. Il suo amico Alexander von Humboldt inviterà alla libertà dei monti “tutte le anime oppresse”. E da noi basterebbe ricordare il notturno vagare di Jacopo Ortis sui Colli Euganei.
La tirannia dello spazio termina nell’estate del 1969, la stessa in cui gli americani mettevano il piede sulla Luna, ma il satellite della Terra non c’entra nulla. In quegli stessi giorni invece, senza che nessuno si rendesse conto dell’importanza dell’evento, tra Washington e Los Angeles due computer iniziavano a dialogare tra di loro : nasceva così quel che oggi chiamiamo Rete, al cui interno la logica spaziale (la distanza in termini metrici tra due punti) non conta quasi più niente. Nasceva così il nuovo Nuovo Mondo, quello al cui interno viviamo senza ancora conoscere davvero i modelli (la logica) del suo funzionamento. Nasceva cioè la globalizzazione, come oggi indichiamo il complesso di quei processi attraverso i quali diventa sempre più difficile dar volto, in qualsiasi punto della Terra, al tiranno. Una realtà di cui appunto la Rete è il veicolo e l’agente, perché è in grado di promuovere un’inusitata capacità di colonizzazione dell’interiorità dei soggetti, attraverso la messa in crisi di tutte le nostre categorie di cui fin qui ci siamo serviti per orientarci nel mondo. Così adesso altro non possiamo fare che aggrapparci ai luoghi, all’unico modello alternativo rispetto allo spazio che la nostra cultura ci ha lasciato in eredità.
Al contrario di quanto da tempo e con successo si sostiene, non esistono i non-luoghi (come tra l’altro un film di Spielberg del 2004, “The terminal”, con Tom Hanks, mirabilmente racconta). Un luogo è ovunque tra soggetti e oggetti si stabilisce una relazione fondata sul prendersi reciproca cura uno dell’altro e sul riconoscimento (cioè sulla coscienza) di tale relazione, nella consapevolezza di vivere all’interno di uno stato di sospensione tra la nostra capacità di libertà nei modi di riproduzione della vita sociale e l’incombente tirannia di qualcosa di molto più potente dello spazio, la tirannia delle Rete. La globalizzazione non è affatto in crisi, come adesso è di moda sostenere: smantellata la moderna struttura spaziale del mondo, essa punta oggi direttamente sui luoghi, in funzione di un’estrazione di valore non più estensiva, come lo spazio permette, ma molto maggiore, perché intensiva. Ed è su questo bilico che si gioca oggi, per l’intera umanità, la partita tra il sottostare ad una tirannia che non ha quasi più nulla di quel che siamo soliti definire umano e l’esercitare la propria libertà.
Franco Farinelli