Ugo Foscolo, “A Zacinto” (agosto 1802-aprile 1803). Un’interpretazione.
Questo è un lavoro scritto nell’ottobre del 1992 da una mia studentessa del quinto anno del Liceo Scientifico Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre, iniziato in classe e poi completato a casa. L’esercitazione dimostra che una ragazza di diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di acute osservazioni e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, anche se vagliate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica), inevitabilmente ricavate dai manuali scolastici e da alcune pagine saggistiche studiate in precedenza. Mi ha interessato, invece, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture, il non rinunciare al piacere delle idee e dei pensieri pazienti e curiosi. A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero. Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. E credo anche che la scuola dovrebbe essere un vivaio di menti indagatrici, quelle persone curiose che Francesco Bacone, nel ‘500, definiva “mercanti di luce”.
Con il tempo ho imparato che l’apprendere è una grande fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla. Non voglio, perciò, che questi micro-testi (anche se sono manifestazioni esteriori di pensieri legittimamente ingenui) siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi. Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.
prof. Gennaro Cucciniello
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar, da cui vergine nacque |4
Venere, e fea quell’isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque |8
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. |11
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura. |14
Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDE, CED).
Mai più, Zacinto mia, io toccherò il tuo terreno sacro (sacralizzato dalla nascita di Venere ma anche sacro per me, figlio riverente) e nel quale io trascorsi la mia prima fanciullezza, Zacinto mia, che ti rifletti nelle onde del mare greco, dal quale nacque già fanciulla Venere, la dea che rese fertili e ridenti col suo primo sorriso quelle isole dell’arcipelago, per la qual cosa la poesia illustre di colui (Omero) che cantò i mari fatali (le navigazioni destinate dal fato) e l’esilio errabondo, grazie al quale Ulisse giunse –reso illustre dalla fama e dalla sventura- a baciare la sua Itaca arida, quella poesia illustre celebrò le tue limpide nuvole e la tua vegetazione. O mia terra materna, tu non avrai altro che il canto poetico di questo figlio; a me il fato destinò un sepolcro non confortato dal pianto (in terra straniera, lontano da amici e compatrioti).
La critica è concorde nel sottolineare che la prima cosa che colpisce –di questo testo- è la non coincidenza tra il periodo sintattico e il periodo metrico. Il sonetto si divide in due enunciati molto disuguali: il primo comprende undici versi (due quartine e una terzina) ed ha un movimento estremamente dinamico –quasi convulso-, il secondo si riduce alla sola terzina finale (vv. 12-14) ed ha un carattere perentorio ed assertivo, quasi epigrafico.
vv. 1-2. “Mai più io toccherò il tuo terreno sacro nel quale trascorsi la mia prima fanciullezza, o Zacinto mia”. L’inizio è molto efficace: un critico ha sottolineato che Foscolo, cominciando a scrivere, sembra che continui un discorso fatto tra sé e sé e rimasto inespresso. Non ci sono antefatti. Un primo enjambement suggerisce già l’enfasi del ritmo, che poi –nei versi successivi- diventerà travolgente. L’isola è già rievocata come grembo materno, sulla terra giace il corpo del bambino che non riesce ancora a camminare, “ebbi in quel mar la culla”. Le sponde sono sacre perché, verrà chiarito in seguito, in quel mare nacque Venere, perché c’è il ricordo della civiltà e del mito greco, perché sono state celebrate dalla poesia di Omero e perché Zacinto è la patria di Foscolo, la terra madre “che lo raccolse infante e lo nutriva” (“Sepolcri”, v. 34). Questa nota mi sembra confermata e sottolineata dall’intreccio dei possessivi “mio corpo” e “Zacinto mia” dei vv. 2-3. Anche il verbo al futuro toccherò del primo verso esprime una certezza poetica e prefigura già il motivo della solitudine e dell’angoscia. Ho letto, infine, in un articolo di Marco Cerruti una suggestione filologica che fa rintracciare già in questi primi versi il tema della morte, di quel finale “sepoltura”: v. “sponda”, v. 1 = bara (in Marziale e altri) e “corpo”, v. 2 = corpus, cadavere), come se già il poeta presentisse la sorte che sente incombere.
vv. 3-5. “O Zacinto mia, che ti specchi nelle onde del mare greco dal quale nacque giovinetta Venere” (secondo la mitologia la dea nacque dalle spume del mare Ionio). Gli enjambement (vv. 3-4 e 4-5) si infittiscono e confermano il flusso appassionato e ininterrotto, sottolineato da molti commentatori, in aggiunta alla catena di legami sintattici (ove del v. 2, che del v. 3, da cui del v. 4) e alla disposizione delle parole con i vocativi e i soggetti sempre posposti (Zacinto, v. 3; Venere, v. 5) ma sempre collocati all’inizio di verso, tecnica che dovrebbe produrre una qualche sospensione nel lettore. Anche la dialettica dei tempi verbali di questi primi versi è molto interessante: grazie all’alternanza del futuro (toccherò, v. 1), del passato (giacque, v. 2) e del presente (specchi, v. 3) è evocato in modo inappellabile il destino del poeta. E’ iniziato comunque un procedimento ad incastro che nell’intero testo avrà esiti clamorosi; per ora Zacinto suggerisce il ricordo di Venere, sia l’isola sia la dea emergono dalle stesse acque, un collegamento che la rima in B (giacque/nacque) intreccia alla soggettività del poeta: la dea nacque giovinetta dal mare che circondava l’isola, Foscolo infante andava carponi sulla terra sacra dell’isola. Così si chiude, per ora, solo per ora, la triade Foscolo-Zacinto-Venere.
vv. 5-6. “Venere, nascendo da quelle acque, rendeva con la sua benevola disposizione le isole Ionie fertili, ridenti, lussureggianti”. L’enjambement (vv. 5-6), la congiunzione “e fea” fanno continuare la catena di legami già evidenziata; il campo semantico è illuminato dal quel “primo sorriso”, che richiama immagini di limpidità cristallina, di gioia, di luminosità, di grazia. Sostengono alcuni critici che il quadro estatico dell’isola sembra riproporre il mito primigenio del “paradiso perduto” e che il sonetto, pur svolgendo in termini negativi il tema già ortisiano del ritorno impossibile alla madre-patria, suggerisce però un desiderio struggente di regressione infantile e di rinascita, la nostalgia di un’età senza dolore e separazione. In quel “primo sorriso” si continua e si conclude una sorta di risalire all’origine delle cose, uno speciale processo di purificazione. Venere, dea dell’amore, è sentita come forza fecondatrice della natura: si sostiene che qui agisca il ricordo del proemio del “De rerum natura” di Lucrezio. Emerge con forza, a questo punto, il tema della fecondità, un nucleo luce-fertilità-vita che si genera dall’acqua: l’isola è circondata dalle acque, è nata dall’acqua, da quella stessa acqua è nata Venere, la madre del poeta ha partorito il figlio in quell’isola, per cui tutte e tre diventano la Grande Madre di Foscolo. Un altro critico, Marcello Pagnini, suggerisce –in chiave antropologica- l’equivalenza tra l’acqua e la vita e avanza, quindi, l’ipotesi che a livello di attività mentale profonda l’idea dell’acqua sia il nucleo centrale del componimento. Ci ritornerò più avanti.
vv. 6-9. “sì che la grande poesia di Omero (soggetto è l’inclito verso) non poté fare a meno di celebrare la serenità del suo clima e lo splendore della sua vegetazione; la poesia di quel grande che cantò i mari fatali, le navigazioni prescritte dal fato”. Si aggiorna ancora la catena dei congiungimenti –in tutto saranno ben sette questi segni funzionali- (onde, v. 6 –per il fatto che quelle isole erano state rese ricche di vegetazione dal sorriso della dea-; di colui che, v. 8) e il rincorrersi ora quasi ossessivo e sinuoso degli enjambement dei versi 6-7-8: il mare richiama la navigazione e preannuncia l’errare dei protagonisti, un destino voluto dagli dei. Ora emerge dalla rievocazione la figura di Omero e ne vedremo le implicazioni; e si definisce per la prima volta la simmetria tra il mare e il fato, costruita con il canto, con la scrittura poetica. Così si è andati dalla geografia al mito e l’isola comincia a rivelarsi, più che un luogo dei ricordi, il luogo della poesia: Zacinto infatti non è vista tanto con gli occhi o con la memoria di Ugo ma attraverso la parola dei poeti classici, Teocrito, Omero (che nel canto IX dell’Odissea ricorda le brune selve dell’isola).
vv. 9-11. “e cantò Omero l’esilio errabondo (“diverso”: alla latina, che va in diverse direzioni), grazie al quale Ulisse giunse –reso illustre e anche affascinante dalla fama e dalla sventura- a baciare la terra della sua Itaca petrosa”. Ancora una volta congiunzioni (ed, v. 9), legami (per cui, v. 10), il duplice enjambement (vv. 9 e 10) continuano la trama strutturale già ripetutamente evocata ma questa volta possiamo sviluppare compiutamente il tema. Il lungo periodo poetico di ben undici versi rende quasi magicamente l’affollarsi delle immagini nella memoria di Foscolo e mi sembra che riesca anche a dare un’idea favolosa dell’errare di Ulisse. La sintassi evocatrice di questo vagabondaggio accompagna ora l’errare dei due eroi del sonetto, Foscolo e Ulisse, e delle due isole, Zacinto e Itaca. Sembra una semplice e scontata suggestione culturale e letteraria; in realtà il rapporto è molto più complesso e ha una motivazione ben più intima e profonda. E’ un legame di somiglianza e di differenza, di coincidenza e di opposizione. Ulisse ha peregrinato per 10 anni, ha vagato per luoghi diversi ma alla fine è approdato alla sua Itaca, e il “baciò” del v. 11, proprio al principio del verso, ha un risalto tutto particolare ; anche Foscolo vorrebbe ritornare alla sua Zacinto ma non riuscirà a realizzare il suo sogno. Il suo esilio in questo senso è diverso da quello di Ulisse. Il mito si intreccia alla vita del poeta, la suggestione letteraria diventa esperienza esistenziale, il dato culturale un elemento drammaticamente affettivo. Qui la critica ha voluto sottolineare l’evidenza di un registro duplice, di due codici, uno classico e uno romantico. E’ classico il vagabondare di Ulisse, un errare nelle acque fatali del Mediterraneo voluto dagli dei ma con esito felice, con un destino amico. E’ romantico l’esilio del Foscolo, eroe moderno che non conclude felicemente le proprie imprese, segnate da un destino nemico. Con un gioco serissimo di aggettivi possessivi è costruita efficacemente la contrapposizione: la sua Itaca esprime il sentimento di Ulisse, la Zacinto mia (v. 3) – la materna mia terra (v. 13) riassumono la dolorosa constatazione di Foscolo. E anche la locuzione del v. 10, bello di fama e di sventura, è molto felice: sembra proprio la suggestiva definizione dell’eroe romantico che lotta contro un destino avverso, che soffre e che è destinato alla sconfitta: da questa sorte infelice deriva la sua superiorità rispetto all’uomo comune e il suo fascino innegabile. Ancora: da parte della critica si sottolinea che il motivo dell’esilio per il nostro poeta è da collocarsi accanto al motivo delle memorie, delle tradizioni, “cioè è un tutt’uno con quel trapasso dal cosmopolitismo settecentesco al riconoscimento delle singole individualità nazionali che si andavano affermando al principio dell’Ottocento”.
C’è ancora un’altra opposizione, implicita stavolta, ed è quella -clamorosa- tra Omero e Foscolo: il grande poeta greco ha cantato il ritorno di Ulisse, il giovane sconosciuto poeta italiano canta il suo non ritorno, il suo non approdo alla terra materna. Cosa gli resta allora? Il canto, la poesia. Al posto della morte liberatrice comincia a delinearsi il motivo della poesia eternatrice e consolatrice.
Posso, a questo punto, richiamare un’osservazione puntuale di Pagnini: il critico già aveva avanzato l’ipotesi che l’idea dell’acqua sia, a livello di attività mentale profonda, il nucleo centrale del testo e ne ritrova riscontri nella fonologia e nello schema intero delle rime delle quartine: sponde, onde, feconde, onde, fronde; giacque, nacque, tacque, acque. Sono tutte rispondenze abbinate intorno ai suoni e ai concetti di “onde e acque”. L’acqua si connette non solo alla fecondità e alla vita ma anche alla morte, evocando l’immersione e lo scioglimento, la discesa e lo sprofondarsi negli elementi primordiali della natura. La vita stessa è ritmo cosmico, come Foscolo sottolineerà nei primi versi dei “Sepolcri”, vita che si ricrea continuamente ma che in sé comprende anche il momento della distruzione e della fine dell’individuo. L’illacrimata del v. 14 ne è un’ennesima conferma: l’assenza d’acqua, la sterilità, l’infecondità è assenza di vita, è morte. Mi piace a questo punto citare una frase di Winckelmann sulla poetica del neo-classicismo: “il principale distintivo dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandiosità. Nella guisa istessa che il fondo del mare rimane sempre tranquillo per quanto agitata possa esserne la superficie; (…) il mare veduto a qualche distanza tranquillo sembra terso come uno specchio, sebbene di fatto sia sempre in moto, e volga incessantemente le sue onde” (Ceserani-De Federicis, “Il materiale e l’immaginario”, v. 7, Loescher, p. 587). Questa immagine mi sembra che riassuma bene la capacità foscoliana di sottoporre a un ferreo controllo formale una tormentata e appassionata vita sentimentale.
vv. 12-14. “O mia terra materna, tu non avrai altro che il canto poetico del tuo figlio (che alla sua terra può consacrare la sua poesia ma non affidare il proprio corpo morto); a me il fato destinò un sepolcro non confortato dal pianto (perché in terra straniera, lontano dai compatrioti e dai parenti). “Illacrimata” è una voce bellissima creata dal nostro poeta e che meriterà una splendida osservazione di De Sanctis, ripresa in tutte le antologie scolastiche: “Questo illacrimata è pieno di lacrime”. L’ultima terzina ribadisce il suo destino tormentato e nello stesso tempo l’unità formale della poesia: c’è quindi un ricongiungimento tra l’inizio e la fine, una specie di circolarità ad anello, sottolineata anche dalla simmetria fra i due vocativi: Zacinto mia del v. 3 e o materna mia terra del v. 13. Questa circolarità è ancora ribadita dall’opposizione tra l’immagine della prima infanzia (v. 2, ove il mio corpo fanciulletto giacque) e quella della sepoltura (vv. 13-14) e dal duplice richiamo all’isola natia, col ricordo felice dell’inizio e la sconsolata certezza del finale. E anche la ripetizione del verbo cantare, “cantò fatali” (v. 9), “il canto” (v. 12) risottolinea il rapporto tra i poeti, il grandissimo Omero e il giovane ambiziosissimo Foscolo. E che il nostro Ugo fosse già davvero presuntuosetto è confermato dal plurale “a noi” del v. 13, l’intellettuale in posizione agonistica contro il destino e contro la morale degli uomini comuni. Una convinzione che ritornerà nei “Sepolcri”: “A noi / morte apparecchi riposato albergo” (v. 145).
Alessandra B.