G. Leopardi (1798-1837), “A Silvia” (19-20 aprile 1828)
Questo è un lavoro scritto nel novembre 1988 da una studentessa del quinto anno, Corso propedeutico all’università, dell’Ist. Magistrale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che una ragazza di diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di acute osservazioni e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, anche se vagliate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica), inevitabilmente ricavate dai manuali scolastici e da alcune pagine saggistiche studiate in precedenza. Mi ha interessato, invece, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture, il non rinunciare al piacere delle idee e dei pensieri pazienti e curiosi. A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero.
Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. E credo anche che la scuola dovrebbe essere un vivaio di menti indagatrici, quelle persone curiose che Francesco Bacone, nel ‘500, definiva “mercanti di luce”. Con il tempo ho imparato che l’apprendere è una grande fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla. Non voglio, perciò, che questi micro-testi (anche se sono manifestazioni esteriori di pensieri legittimamente ingenui) siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi.
Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare. La memoria del passato aiuta a mettere i fatti in prospettiva, a tracciare un percorso, a individuare le cause e i loro effetti, a fornire –quando è possibile- un punto di orientamento.
prof. Gennaro Cucciniello
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare|5
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta |10
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri |15
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce, |20
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte. |25
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia |30
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura. |35
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, |40
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome, |45
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei |50
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme! |55
Questo è quel mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero |60
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
Metro: le strofe sono di diversa misura e sono composte da settenari ed endecasillabi liberamente alternati; ogni strofa si chiude con un settenario che rima con uno dei versi precedenti.
Versi
- 1-6 L’immagine di Silvia che emerge dalla memoria
- 7-14 Le illusioni giovanili di Silvia e la sua realtà quotidiana
- 15-22 Le illusioni giovanili di Giacomo e gli studi graditi e impegnativi
- 23-27 Il paesaggio bellissimo delle Marche
- 28-35 I “pensieri soavi e le speranze” di entrambi
- 36-39 Anatema contro la Natura
- 40-48 Il tristissimo destino di Silvia
- 49-55 La fine delle speranze di Giacomo
- 56-59 Cosa resta di tante speranze?
- 60-63 La prospettiva della gelida morte
Versi 1-6 L’immagine di Silvia che emerge dalla memoria.
Silvia, ricordi ancora quel tempo della tua vita, quando la bellezza risplendeva nei tuoi occhi gioiosi e sfuggenti (per il pudore e l’ingenua timidezza) e tu, serena e assorta, stavi per varcare la soglia della giovinezza?
Silvia è un nome di pastorella, tratto forse dall’Aminta di T. Tasso; qui sembra che si tratti di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi nel settembre 1818 e per la cui morte precoce il poeta aveva registrato negli “Appunti e ricordi”: “Odi anacreontiche composte da me alla ringhiera sentendo i carri andanti al magazzino e cenare allegramente dal cocchiere intanto che la figlia stava male. Storia di Teresa da me poco conosciuta e interesse ch’io ne prendeva come di tutti i morti giovani in quello aspettar la morte per me”. Le prime due strofe rappresentano l’età delle speranze in Silvia adolescente ma fin dall’inizio si avvertono connotazioni funebri (fuggitivo ha spesso nei “Canti” anche il significato di vicino alla morte e in questo senso anche il pensosa del v. 5 ha un suo suggerimento). La più gran parte dei canti pisano-recanatesi si fondano sulla situazione psicologica del ritorno del poeta a un paese, a una famiglia –non dobbiamo mai dimenticarlo- amati e al tempo stesso violentemente disamati. Il 25 febbraio 1828 Leopardi aveva scritto alla sorella Paolina e le aveva confessato “che in materia d’immaginazioni, mi pare di esser tornato al mio buon tempo antico”; e poco dopo, il 2 maggio, ancora le aveva confidato “dopo due anni, ho fatto dei versi quest’aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta”. L’intonazione colloquiale di questo dialogo immaginario richiama subito il tema del ricordo, della memoria di un tempo che sembrava felice, e non a caso viene usato, dopo il rimembri iniziale (dettato dall’improvvisa felicità del ricordo), il tempo verbale dell’imperfetto (splendea, salivi), che non colloca l’azione in un tempo preciso ma la lascia nel vago; e giustamente Contini ha sottolineato l’effetto fonosimbolico di splendea, “in quanto l’iato che la desinenza in –ea contiene a fin di verso fissa la durata della contemplazione”. E’ la parola “ancora” (v. 1) che misura subito la lontananza nel tempo, sono passati dieci anni dalla morte della fanciulla. L’imperfetto indica continuità nel passato, spiega perciò la durata indefinita dei sogni giovanili, è il tempo della memoria e dell’illusione. Da subito, infine, compaiono quei binomi lessicali diventati celebri –dice la critica- per “una capacità evocativa prodotta dalla dolcezza del suono e dal valore vagamente contrastivo del rispettivi significati: ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa”. Su questo passaggio il filtro letterario è davvero invadente (v. Petrarca, “che gentil cor udia pensoso et lieto”, Rime, CCCXXXII, 16; e Tasso, “lieta e pensosa vinse”, madrigale Incontra Amor, v. 3). Non c’è corrispondenza amorosa tra Giacomo e la fanciulla, come appare chiaramente da questo passo: “una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti, ecc., un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso” (Zibaldone, 30 giugno1828, p. 4310-11). Silvia è un’immagine vagheggiata, un’immagine del cuore e del ricordo. La critica poi non si stanca mai di sorprenderci: fate attenzione alle ben undici allitterazioni con dentro il fonema “t” in questi primi versi (tempo, tua, vita, mortale, beltà, tuoi, ridenti, fuggitivi, lieta, limitare, gioventù); esse suggerirebbero una specie di disseminazione fonetica del pronome “tu”, quasi prolungando come in un’eco l’invocazione iniziale, col verbo salivi (v. 6) che contiene, dissimulato in forma di anagramma, il nome Silvia ( così la lunga e affettuosa interrogazione si apre e si chiude con questo nome).
Versi 7-14 Le illusioni giovanili di Silvia e la sua realtà quotidiana.
Le stanze silenziose della casa, e anche le vie circostanti, risuonavano al tuo canto continuo, quando sedevi, intenta ai lavori femminili al telaio, felice abbastanza di quel futuro dolce e indeterminato che immaginavi per te. Era il maggio profumato: e tu così eri abituata a trascorrere le giornate.
Anche in questa seconda strofa, coerentemente con la dedica a Silvia, continua la semina fonetica della “t” (quiete, stanze, dintorno, tuo, perpetuo, canto, intenta, contenta, mente, tu). Nei “Ricordi d’infanzia e d’adolescenza” noi leggiamo: “canto mattutino di donna allo svegliarmi, canto delle figlie del cocchiere e in particolare di Teresa mentre ch’io leggeva il “Cimitero della Maddalena””. E nella “Vita solitaria”, vv. 63-66: “e di fanciulla / che all’opre di sua man la notte aggiunge / odo sonar nelle romite stanze / l’arguto canto”. Ora Leopardi rievoca la vita della fanciulla e nel farlo usa naturalmente l’imperfetto, non solo perché è il tempo dell’azione continuata nel passato ma anche perché è quello del racconto fantastico, quasi della favola. La sintassi è piana, scorrevole, con degli enjambement dolci, quasi meditabondi (intenta/sedevi, contenta/di quel vago, così/solevi), e le rime baciate, intenta-contenta, (in consonanza con quiete-mente), e avevi-solevi, si associano alla paratassi dei vv. 13-14, la stessa natura in fiore sembra partecipare alla gioia vitale della ragazza, illuminata dalla luce dei suoi sogni. La realtà descritta è quella umile e quotidiana di un lavoro servile: noi ne siamo suggestionati non perché ci sia concretezza realistica ma perché è filtrata attraverso il ricordo e l’immaginazione e diventa così indefinita. Concorrono a questo risultato le influenze dei classici; qui, per esempio, sembra abbastanza clamorosa la memoria di Virgilio, Eneide, VII, 11-4: “ubi Solis filia lucos / adsiduo resonat cantu, tectisque superbis / urit odoratam nocturno in lumine cedrum / arguto tenuis percurrens pectine telas” (dove la figlia del Sole –è la maga Circe- fa risuonare i boschi del suo canto e nella superba dimora brucia alla fiamma notturna il cedro odoroso, mentre lo stridulo pettine percorre tele sottili). Quanto al futuro indeterminato che Silvia avrebbe pensato per sé ci aiuta, ancora una volta, un passo dello Zibaldone: “divino ondeggiamento d’idee confuse e brillanti di un indefinibile romanzesco e di quella eccessivamente cara e soave stravaganza e meraviglia, che ci solea rendere estatici nella nostra fanciullezza”, 8 gennaio 1820, p. 100. Un’ultima nota: il dato fisico del canto di Silvia è sì percepito coi sensi ma è soprattutto trasfigurato con l’immaginazione; c’è una doppia visione nel suo rapporto con il reale e questo è chiarito nello Zibaldone proprio nel novembre dell’anno 1828: “All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io son vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso con l’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono”. E ancora; “è piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga e indefinita che desta (…) un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza”.
Versi 15-27 Le illusioni giovanili di Giacomo e gli studi graditi e impegnativi. Il paesaggio bellissimo delle Marche.
Interrompendo a volte e per un momento i graditi studi letterari e gli impegnativi lavori di filologia e filosofia, nei quali io consumavo la mia giovinezza e le mie energie più fresche, dalle logge dei balconi del palazzo paterno ascoltavo la tua voce e cercavo anche di seguire il suono prodotto dalla tua mano che, rapida e con destrezza, percorreva con il pettine la tela che costa fatica. Io contemplavo il cielo sereno, le vie indorate dal sole del tramonto, gli orti e i giardini e da una parte il mare Adriatico in lontananza e dall’altra l’Appennino. Non ci sono parole per esprimere il sentimento che provavo nel cuore.
Anche questa strofa rappresenta l’età delle speranze, prima di Silvia fanciulla, ora del nostro poeta. Le due vicende parallele della fanciulla del popolo e del giovane aristocratico vogliono spiegare una verità filosofica: in questa prima parte Leopardi sostiene che è proprio della natura umana, al di là della distanza fra le classi, sperare nella felicità. Sarà mantenuta nell’età adulta? Lo vedremo. Intanto le illusioni giovanili si contrappongono alla faticosa realtà vissuta ogni giorno, per Silvia al duro lavoro di tessitrice casalinga, per Giacomo allo studio concentratissimo. Tra i due ragazzi sembra instaurarsi un’affinità di pensiero e di stato d’animo, anche se espressi in modo diversissimo. Entrambi lavorano e segretamente sperano. Il chiasmo, studi leggiadri / sudate carte, nei versi 15-16, spiega bene la simmetria contrapposta degli aggettivi che qualificano l’attività intellettuale, avvalorata anche dalla rima carte-parte. Così come la rima baciata, voce-veloce nei vv. 20-21, unifica le azioni di Silvia, il canto e il lavoro. La strofa è ricca di parole auliche e arcaiche (leggiadri, veroni, ostello, mirava, orti, quinci, lungi) ma è ugualmente dotata di immediatezza espressiva e di chiarezza; è un linguaggio che nello stesso tempo tende all’incorporeo, all’evanescente ma è anche capace di incisività ed evidenza. Le due strofe sono anche un concentrato di sensorialità: dall’udito (Giacomo prima intercetta con facilità il perpetuo canto della ragazza, poi dal chiuso del suo studio raggiunge il balcone e porge gli orecchi) all’olfatto (era il maggio odoroso, il profumo della primavera) alla vista (il ciel sereno, le vie dorate, il mare, il monte). Ma il poeta non è mai completamente immerso nel mondo, ne è separato sempre da una distanza, in questo caso la finestra. Scrive la critica che egli “percepisce sempre il mondo dal chiuso della propria stanza, dove studia pensa scrive, cioè –in definitiva- dall’interno del proprio mondo interiore: la finestra è come il confine simbolico, che mette in contatto i due mondi, l’interiore e l’esteriore, il reale e l’immaginario. La sua funzione è simile a quella della siepe dell’Infinito: limitando il diretto contatto col reale, stimola l’immaginazione”. Si legga la nota dello Zibaldone del luglio 1820: “L’anima si immagina quel che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario (…) Quindi il piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora, nel vedere il cielo ecc attraverso una finestra”. Gli ultimi versi si aprono alla visione del bellissimo paesaggio marchigiano. Al riguardo in una lettera a Pietro Giordani del 30 aprile 1817 si legge: “Quando io vedo la natura in questi luoghi che veramente sono ameni (…) e in questi tempi specialmente, sento così trasportarmi fuori di me stesso, che mi parrebbe di far peccato mortale a non curarmi e lasciar passare questo ardore di gioventù”. E questi pensieri si traducono anche in una ricerca di musicalità con la frequenza delle “a” toniche: il loro timbro aperto suggerisce una sensazione di vastità indeterminata (mirava, dorate, mar, mortal).
Versi 28-35 I “pensieri soavi e le speranze” di entrambi.
Quali pensieri dolcissimi, quali speranze, quali sentimenti, o Silvia mia, erano i nostri di allora! Quanto bella e intensa allora ci appariva la nostra vita e il destino degli uomini! Quando torno col pensiero a quelle sconfinate speranze, un tormento amaro e inconsolabile mi opprime e torno a provar dolore per quello che mi è accaduto poi, per la mia infelice sorte.
Ora i due protagonisti sono accomunati e mi piace far notare la corrispondenza tra il “Silvia mia” del v. 29 e la “mia sventura” del v. 35, legate dal “ci apparia”, v. 30. Silvia è “mia” non solo perché ora essa vive nell’accorato ricordo del poeta ma anche perché li avvicinavano le speranze e i sogni che entrambi proiettavano nell’avvenire; con “mia sventura” Leopardi torna a concentrarsi unicamente su di sé. In un passo iniziale dello “Zibaldone”, p. 76, era stato annotato: “Questo divino stato l’ho provato io di sedici e diciassette anni per alcuni mesi ad intervalli, trovandomi quietamente occupato negli studi senz’altri disturbi, e colla certa e tranquilla speranza di un lietissimo avvenire”. La triplice ripetizione del “che” all’inizio della strofa e la rima baciata “speme-preme” dei vv. 32-33 danno enfasi e rilievo al contrasto tra la gioia della speranza e il dolore della delusione. E anche i tempi verbali sono significativi: al v. 30 l’imperfetto ci apparia è ancora immerso nella nostalgia dei ricordi giovanili, nei versi successivi irrompe il presente, “sovviemmi, preme, tornami”. Come all’inizio della lirica il presente era stato il tempo dell’improvvisa felicità del ricordo, “Silvia, rimembri ancora”, v. 1, ora rappresenta l’irrompere del disinganno e del rinnovato dolore. Il discorso è diventato concitato e la tensione si esprime attraverso le anafore e le iterazioni, le esclamative e le interrogative retoriche. E’ il momento riflessivo che rompe la contemplazione della memoria e sfocia in frasi poetiche di sdegno e di protesta. Leopardi è approdato ad una visione fermamente pessimistica del mondo. L’illusione risorge prepotente ma, a differenza degli anni giovanili, ora è accompagnata dalla coscienza del vero. Il ricordo richiama dal passato immagini di bellezza, di gioia, ma quelle immagini sono proiettate come su uno sfondo d’ombra, sulla consapevolezza che tutto è nulla. Eppure l’evocazione di un fantasma del passato e il riemergere delle speranze giovanili, sia pure a confronto con la morte e le disillusioni, non provocano angoscia e disperazione ma anzi, al contrario, un conforto nuovo.
Versi 36-39 Anatema contro la Natura.
O natura, o natura, perché non mantieni nel corso della vita quello che sembri promettere nell’adolescenza? Perché inganni i tuoi figli in un modo tanto crudele e fino a questo punto?
Questi versi sono la conferma del mutamento irreversibile della concezione leopardiana della natura. Annota S. Timpanaro: “La colpa della caduta delle illusioni non è più attribuita all’uomo, che ha distrutto la saggia opera della natura, ma alla natura stessa, all’inesorabile vicenda biologica che condanna gli esseri viventi o alla morte immatura (col rimpianto di non aver goduto la felicità sperata e di lasciare nel lutto i propri cari) o ad una sopravvivenza non più allietata dalla speranza: Silvia e il poeta stesso rappresentano emblematicamente queste due possibili sorti dell’uomo”. E’ proprio della natura umana sperare nella felicità ma è inevitabile che tale speranza sia disattesa poiché la natura generale delle cose non è finalizzata alle aspettative degli individui. Si promette un futuro di felicità e non si danno poi gli strumenti per poterla conseguire. Come madre e dominatrice del mondo la natura inganna tutti i propri figli con promesse di felicità, poi non mantenute; sotto la forma del destino, invece, non segue alcuna regola ma colpisce alla cieca e con una durezza che varia da individuo a individuo. La poesia di Leopardi è una sfida ostinata al silenzio e al nulla.
Versi 40-48 Il tristissimo destino di Silvia.
Tu, prima che l’inverno inaridisse i prati (che la maturità facesse svanire le illusioni della giovinezza), consumata e uccisa da una malattia nascosta (la tisi), morivi, o povera ragazza. E non vedevi fiorire la pienezza della tua gioventù; e non lusingava il tuo cuore la dolce lode ora dei tuoi neri capelli, ora del tuo sguardo che suscitava l’amore ed era pudico; né con te le compagne nei giorni di festa e di passeggio paesano parlavano d’amore. (In una lettera a Giordani del 30 maggio 1817 Leopardi ricorda il verbo “ragionare” come una delle espressioni del toscano letterario che si potevano udire anche “in bocca de’ contadini e della plebe minuta di Recanati”).
Questa è la strofa della morte delle speranze di Silvia. L’infelice giovinetta non arriva a vedere il fiore della sua vita, muore prima ancora che l’inverno dissecchi le erbe del prato. Tutti ripetono che la metafora del fiore = gioventù disegna l’accostamento tra due ordini di vita, tra il corso della vita umana e il ciclo vegetativo della natura: le fasi naturali si succedono con regolarità (prima la primavera, poi l’inverno), il destino dell’essere umano non si compie nemmeno biologicamente, non fiorisce. I tempi verbali sono tutti coniugati all’imperfetto (perivi, non vedevi, non ti molceva, né ragionavan), persino al congiuntivo (inaridisse), molti preceduti da negazioni, tutti legati da assonanze, come se il ricordo addolcisse la durezza del vero; e la rima “perivi-schivi” accenna con delicatezza alla vita riservata e timida della ragazza, segnata dalle rinunce e destinata alla morte, e riprende ancora una volta il gruppo fonemico /vi/ che aveva contrassegnato fin dall’inizio l’immagine di Silvia affiorata dalla memoria; come la coppia, “sguardi innamorati e schivi” che reitera la serie bellissima dei primi versi, ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa.
Versi 49-55 La fine delle speranze di Giacomo.
Di lì a poco sarebbe venuta meno anche la mia dolce speranza: anche alla mia vita, come alla tua, il destino negò la giovinezza. Ahi, come, come sei inesorabilmente svanita, o mia facoltà di sperare e di illudermi, tu che eri cara compagna della mia adolescenza.
E in questi versi si compie il destino delle speranze di Giacomo. Silvia è la speranza, Silvia dà alla speranza il suo sorriso labile e affascinante. A prima vista colpiscono le ripetizioni, anche (vv. 49, 51), come (vv. 52, 53), e soprattutto l’insistenza quasi ossessiva di mia (speranza mia dolce, anni miei, età mia nova, mia lacrimata speme). Leopardi vorrebbe una vita energica e intensa, piena di gioia e di affetti. Ma questa sua profonda aspirazione è inesorabilmente delusa, come se il destino fosse particolarmente crudele nei suoi confronti. E allora il poeta non si lamenta ma protesta con tutte le sue forze contro questo destino ostile. A questo atteggiamento più risentito corrispondono gli enjambement che mettono in rilievo le parole-chiave, quello a cui si aspira e che la natura maligna nega, “peria fra poco / la speranza mia dolce; agli anni miei / anche negaro; questi / i diletti; gli eventi / onde”. La sua idea del nulla è una lucida conquista della sua ragione. Però questa consapevolezza è capace di rendere vitale anche la morte. A questo Leopardi accenna in un famoso passo dello Zibaldone che ci guida nel capire l’ultima fase della sua poesia: “Hanno questo di proprio le opere del genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia a un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere disgrazie (…) servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta” (4 ottobre 1820, pp. 259-260).
Versi 56-59 Cosa resta di tante speranze?
Questo dunque è quel mondo tanto sognato? Queste le gioie, gli amori, le opere, gli avvenimenti, di cui così a lungo ragionammo (si rivolge ancora alla speranza)? Questo il destino degli esseri umani?
Continuano le ripetizioni, questo, sottolineato per tre volte, con una struttura interessante, prima l’interrogativa sul mondo (un orizzonte vasto), poi la dissezione sui minuti aspetti della vicenda della vita umana (diletti, amor, opre, eventi), infine la domanda sulla universale sorte finale. E le rime incardinano il tutto, speme-insieme, eventi-genti.
Versi 60-63 La prospettiva della gelida morte.
Quando, caduti i sogni e le illusioni, si è rivelata la reale natura delle cose, tu, speranza, misera, sei stata spazzata via e –nell’atto di scomparire- con la mano additavi da lontano, come unico fiore della vita, la gelida morte e una tomba desolata.
Qui la figura di Silvia gradualmente svanisce e va a confondersi con l’allegoria, il simbolo; il quadro non ha più descrizioni, ci sono solo astrazioni: la speranza che si allontana, la verità che emerge lucidissima, una mano che mostra, la tomba nuda. Il destino del poeta è anche più crudele di quello di Silvia: essendo egli rimasto in vita dopo che la speranza è svanita, l’unica prospettiva di liberazione resta quella della morte. Annota in modo finissimo Bacchelli: “Il tempo del verbo, l’imperfetto narrativo di “mostravi”, dopo il passato remoto “cadesti” –che ha data per consumata la fine della speranza-, indica che l’apparizione è più lentamente dileguata, mentre il sentimento, con macabra solennità, estende a tutta la vita, esistente e futura, l’essenziale profezia della morte”. E ci ricordiamo di quello che Leopardi aveva scritto nel “Dialogo di Tristano e di un amico”: “Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare ancora quaranta o cinquanta anni, quanti mi sono minacciati dalla natura. Al solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco!”. Leopardi morirà a 39 anni a Napoli il 14 giugno 1837.
Giovanna B.