Emily Dickinson. Senza titolo. La fuga libertaria.
Senza titolo, n. 277, 1861 circa
E se dicessi che non aspetto più?
Se sfondassi il cancello di carne
e guadassi verso la libertà?
E se mi defilassi dal peso mortale
-guarda dove mi fa male- basta!
e, evasa, venissi da te?
Loro non possono più prendermi-
chiamino le prigioni, implorino i fucili
insensati, adesso, per me
coma la risata di un’ora fa
o i pizzi, o un circo viaggiante
o chi è morto, ieri!
What if I say shall not wait!
What if I burst the fleshly gate
And pass, escaped, to thee?
What if I file this mortal off,
See where it hurt me, -that’s enough,-
And wade in liberty?
They cannot take me any more,-
Dungeons may call, and guns implore;
Unmeaning, now, to me
As laughter was an hour ago,
Or laces, or a traveling show,
Or who died yesterday!
Alcuni interpreti sostengono che gli interrogativi delle prime due terzine richiamano le domande famose di Amleto nel monologo “Essere o non essere”? Il mortal del quarto verso riprenderebbe il mortal coil (tumulto, o groviglio, mortale) a cui fa riferimento Amleto chiedendosi quali sogni possano visitarci nel sonno eterno. La poesia parlerebbe dunque di una voglia di suicidio. Citazione impaziente e sbrigativa: lei non è un sofisticato principe filosofo, è una donna che ha fatto un solo anno al college e della correttezza grammaticale le importa poco. Che succederebbe se mi liberassi di “questo mortale”, cioè del corpo, e mi rifugiassi da te? I suoi what ripetuti sembrano una sfida, non una riflessione accademica.
Il “tu”, naturalmente, sarebbe Dio. E tutto il testo sarebbe una preghiera a Dio di accoglierla finalmente nella libertà, liberandola dal dolore. Guarda dove mi fa male, basta. Il tono è confidenziale, lei verso Dio e la religione non usa mai formalismi o riverenze; una delle cose belle del testo è che, pur avendo una struttura metrica impeccabile (in ogni strofa due versi a rima baciata di quattro piedi giambici, più un verso di tre piedi con la stessa rima in ogni strofa), sembra buttato giù all’impronta, con una lingua rasoterra, dettato dall’urgenza dello sfogo. Sono gli anni della guerra civile americana, che ha fatto sentire i suoi contraccolpi perfino nel piccolo paese di Amherst dove lei vive; la liberazione sarebbe anche liberazione dalla guerra (i morti non sono più minacciati né da prigioni né da fucili) e dichiarazione audace che la guerra stessa è senza significato. Qualcuno ha ipotizzato addirittura (puntando su un us, noi, che in una prima redazione stava al posto di me nel settimo verso) che il testo sia da intendersi come pronunciato da un soldato ferito in guerra che invoca la morte. Tutto andrebbe dunque declinato al maschile. Ma la quarta strofa resterebbe un enigma, un’aggiunta inspiegabile: che c’entra con un battaglione di soldati il riferimento ai merletti e al circo ambulante? E perché un commilitone morto il giorno prima dovrebbe essere senza significato?
Personalmente ho l’impressione che la quarta strofa sia la più straordinaria del testo e che proprio da lì si debba partire per capirlo. In termini logici è solo un esempio, quasi inutile, di cose prive di significato: la tentazione romantica sarebbe di vedere Emily alla finestra della sua stanza (in reclusione forzata dovuta, pare, a una diagnosi di epilessia), che ha abbandonato sulla poltrona il lavoro di ricamo attratta dai rumori di un circo ambulante. Lei che ha ancora nell’orecchio una risata venuta dal piano di sotto, e che ricorda un lutto recente ma senza la retorica del lutto. Sarebbe una Dickinson simil-Leopardi, che in un testo cominciato con la dichiarata tentazione di morire rivela in tre versi incongrui una repressa voglia di vivere. Solo che lei non è di quella razza lì, non supplisce all’azione col pensiero; lei è un fucile carico, ha una tale gioia dentro che se sapesse ballare sulle punte oscurerebbe qualunque étoile del balletto. Lei il ricamo lo schifa, disprezza il quotidiano femminile come quello maschile, e la vita come la morte.
Non sono convinto che il “tu” del terzo verso si riferisca a Dio. Penso che alluda a una persona amata: o al reverendo Wadsworth che proprio nel 1862 si era trasferito da Boston a San Francisco, o a Sam Bowles, o alla cognata Sue da cui la dividevano un semplice giardino ma anche una montagna di convenzioni sociali e morali. Si può essere intensamente erotici anche prescindendo dalla carnalità e allora non si ha bisogno di morire per forzare il “cancello di carne” – né di distinguere pedantescamente tra l’erotismo e Dio. Semplicemente l’amore (come nella sua amata Emily Bronte) supera la morte e la vita, rende il resto insignificante perché giudica a partire dall’assoluto. Il testo è tutto uno slancio: c’è un prima che non conosciamo e che comunque è fatto di noia, da cui esplode quel what – e allora? e se invece io… Se andassimo insieme, liberi, in un territorio spirituale che con la carne non ha più niente a che fare, senza più subire minacce violente, lasciandoci alle spalle la casa, il paesello e i suoi miserabili passatempi? Altro che romanticismo, è pura barbarie.
Off rima con enough, lei vuole andar via perché non ne può più; e l’ultima strofa è come se dicesse “io con la fantasia vado dove mi pare”. La sintassi è libera dalle regole scolastiche, le rime sono approssimative; i trattini sostituiscono le subordinate, le virgole collegano segmenti primordiali, i contenuti si aggiungono uno dopo l’altro come escono dalla mente. Non è ingenua, è refrattaria. Un’anima e lo spazio senza mediazioni, come solo potevano concepire i coloni del Nuovo Mondo con le loro genealogie strampalate in una terra aliena, violenta e semivuota. Come Walt Whitman che aveva qualche anno in più e tante più esperienze aveva digerito.
In vita pochissimi hanno conosciuto le sue poesie, rimaste praticamente inedite; nessuno dava importanza a quella zitella altera, sempre vestita di bianco, dal carattere ombroso e dagli entusiasmi anomali. Il suo modo apparentemente facile di scrivere, la sua finta trascuratezza che allude a una genialità incompresa sono diventati un alibi per molti cattivi poeti; ma un diamante non è meno tagliente se in molti l’hanno preso a modello.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 12 gennaio 2014, p. 62