Questo è il testo d’una lettera scritta ai miei studenti di liceo. Lo spunto mi era stato offerto dal desiderio di usare un esempio di scrittura tratto da “La chiave a stella” di P. Levi.
“ Sui lavori possibili…”
Questo racconto-apologo m’è venuto in mente un anno fa quando Silvia Izzo disse in classe:”vorrei fare l’insegnante dopo la laurea ma in un modo tutto nuovo”. Era una battuta criticissima, sdegnosa anche, ma poneva problemi seri e stimolanti sul lavoro in generale e su quello intellettuale in particolare, anche nella versione sperimentale.
Ci ho pensato su e m’è sembrato uno spunto interessante per un approfondimento.
L’Antefatto. Qualsiasi lavoro fatto con competenza e passione è moralità, è civiltà, è nobiltà, è senso di vita. Il lavoro inteso non solo come necessità economica per tirare avanti ma come virtù rispettata e tramandata, come libertà utile agli uomini.
L’operaio. Eh sì, ci sono giornate che tutto va storto; e si ha un bel dire che uno non ci ha colpa, che il progetto è imbrogliato, che uno è stanco, e che per giunta tira un vento del diavolo: tutte verità, ma quella preoccupazione che uno si sente qui, quella non gliela toglie nessuno. E allora uno si domanda magari fino delle domande che non hanno nessun senso, come per esempio che cosa ci stiamo a fare nel mondo, e se uno ci pensa su non si può mica rispondere che stiamo al mondo per montare bulloni e viti, dico bene? Insomma, quando fatichi sei giorni, ci metti tutti i sentimenti e tutte le malizie, sudi, geli e brontoli, e poi ti vengono dei sospetti, e ti cominciano a rosicare, e tu controlli, e il lavoro non va bene, e quasi non ci credi perché non ci vuoi credere, ma poi ricontrolli e -poco da fare- tutte le cariche sono imballate; allora, caro tu, come la mettiamo? Allora per forza che uno cambia mentalità, e comincia a pensare che non c’è niente che valga la pena, e gli piacerebbe fare un altro lavoro, e poi pensa che tutti i lavori sono uguali, e che anche il mondo è fuori quadro…
Lo storico. Può capitare che uno scriva con entusiasmo una pagina, o anche un libro intero, e poi si accorga che non va bene, che è pasticciato, sciocco, già scritto, mancante, eccessivo, inutile; e allora si rattrista e medita di cambiar mestiere, aria e pelle, magari di mettersi a fare l’operaio. In realtà è peggio per lo scrittore: la carta è un materiale troppo tollerante. Le puoi scrivere sopra qualunque enormità, non protesta mai: non fa come il legname delle armature nelle gallerie di miniera che scricchiola quando è sovraccarico e sta per crollare. Nel mestiere di scrivere la strumentazione e i segnali d’allarme sono rudimentali: non c’è neppure un equivalente affidabile del trapano e del cacciavite. Ma se una pagina non va se ne accorge chi legge, quando ormai è troppo tardi, e allora si mette male; anche perché quella pagina è opera tua e solo tua, non hai scuse né pretesti, ne rispondi completamente.
Il professore. E’ una successione nevrastenica di momenti felici e tristi; per questo poi i nervi s’indeboliscono e ti scombussoli facilmente. Ci sono giorni in cui tutto va bene, sei in sintonia, stabilisci un collegamento con quegli studenti che stanno lì nei banchi -chissà che pensano- e sembra che le cose importanti per te, anche le sfumature, siano diventate curiose per loro, e la tua voglia di approfondire sia contagiosa e permane l’illusione d’aver guidato i bambini-compagni-discepoli per i sentieri sassosi della ricerca e che pezzi della tua carne e dei tuoi pensieri siano sopravvissuti. Ma tante altre volte ti sorprendi a pensare: ma perché parlo? A chi mi rivolgo? a che fine li tormento? Che senso ha questo ciangottìo, questo rosario interminabile di parole, e concetti, alla fine così logorante? A volte è bello sognare di comunicare col silenzio, di iniziare un lavoro di scavo intorno al rumore del mondo. Uso parole, perché il linguaggio resta pur sempre il destino dell’uomo ma -sottratte all’impiego quotidiano delle nostre abitudini- forse ci consentono per pochi momenti di conoscerci sotto altri profili, di far muovere le cose taciute. Ma, infine, questo lavoro mio cosa è? Questi occhi qui davanti a me sono forse bulloni, carte, fascicoli, telai, macchine, pagine, libri? o invece tesori autonomi e intricati di personalità, di circuiti cerebrali,di pulsioni istintuali, di inenarrabili malinconie, di tenaci ambizioni, di stuporosi sogni, di stupefacenti arrabbiature? E come mettersi in contatto con tutti loro, in cordialità o in scontro intellettuale, senza impazzire o rassegnarsi?
Questo è uno dei miei mestieri e questa è un’esperienza importante del mio vivere…
Lo studente. (Questa è una parte che,ora, non voglio più scrivere. La lascio a voi).
Epilogo. Ma una cosa vorrei dirvi: non dovete aver paura dei dubbi, degli interrogativi, delle incertezze, delle domande senza risposta. Dovreste amare la tenerezza e il coraggio senza violenza, un’autorità senza potere. Guardate, esplorate, immaginate. L’anima e la voce di poeti e pensatori vi avvolgono, vi circuiscono, vi invadono. Siate curiosi, capricciosi, impazienti; siate audaci, ardimentosi, anche polemici. Scrivete, anche se qua e là la superficie lascia intravedere inquietudini e angosce, il grande lago della malinconia che è sempre nostra compagna. Quali che siano le ombre, scrivere le rende tragiche e insieme le placa: scrivere dà sempre gioia. Siate convinti che non tutti i dolori possono essere semplicemente compatiti e non tutti gli amori essere semplicemente condivisi, e che l’intelligenza e l’apprendimento non funzionano se non li alimenta il cuore.
Contemporaneamente però non dovete allontanare il disagio dell’apprendere il nuovo, del mettere in discussione le proprie certezze, equilibri, identità. La tv, i media, il senso comune orientano verso il già noto. Una formazione vera, severa, incide sull’identità personale, implica rotture, discrepanze con quanto è precostituito, traumi, coscienza dei limiti. Non vale rifiutare lo shock della qualità: le difficoltà a prima vista insormontabili scuotono dalla pigrizia mentale e costringono a pensare. Siamo capaci di gustare un sapere-assaggio, scoperta, sfida? O siamo impigriti da quel sapere-saputo che ci conferma nelle facili sicurezze senza esporci alla crisi? Se non c’è crisi non c’è nascita perché non c’è separazione dal mondo-matrice da cui veniamo ma da cui dobbiamo allontanarci per ri-nascere, per esistere, per assaporare le solitarie autenticità.
Conclusione. Tutti i mestieri, nei loro giorni buoni, possono dare la pienezza. Quelli dell’operaio e dello studente insegnano a essere interi, a pensare con le mani, con la mente e con tutto il corpo, a non arrendersi davanti alle giornate storte e alle pagine che non si capiscono, perché si capiscono poi per strada; ed insegnano infine a conoscere la materia e a tenerle testa. Il mestiere mio di studioso e di insegnante pure è bello perché concede (raramente ma pure concede) qualche momento di creazione, come quando in un circuito spento ad un tratto passa corrente, e allora una lampada si accende e qualcuno si mette a pensare.
Tutti ci possiamo misurare, specchiare nella nostra opera, senza dipendere da altri. E’ un piacere veder crescere la tua creatura, piastra su piastra, pagina dopo pagina, solida, e -dopo finita- la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, nei tuoi lettori e studenti. E che importa se è bella solo per te.
Un saluto amichevole,
21 novembre 1996 prof. Gennaro Cucciniello