E’ cambiato ed aumentato l’accesso alla cultura in Europa negli ultimi secoli.
In “Robinson” di “Repubblica” di domenica 4 giugno 2017 il giornalista Paolo Di Paolo intervista lo storico inglese Donald Sassoon, professore emerito di Storia europea comparata a Londra. Tra i suoi libri, “Il mistero della Gioconda. La storia di un dipinto attraverso le immagini”.
Basta riavvolgere il nastro di due secoli. La cultura, fino all’altro ieri, era un lusso: un libro, nell’Inghilterra dell’Ottocento, costava una sterlina e mezzo; lo stipendio di un domestico era intorno alle dieci sterline l’anno. Imparare qualcosa implicava prima di tutto un costo, e un bel pezzo di strada da fare, spesso impervio e con l’abito giusto. Nel monumentale “La cultura degli europei” (Rizzoli, 2008) lo storico britannico Donald Sassoon ha attraversato in 1600 pagine la storia culturale di un continente. Mostrando, con una sterminata bibliografia e una chiarezza impressionante, come il cambiamento sociale determina la mutazione dei bisogni e dei consumi culturali. Astenersi apocalittici: l’allievo di Hobsbawm liquida i rimpianti. Diverse forme di cultura “pop”, spiega, hanno sempre occupato gran parte del mercato; le élite vi hanno sempre gettato il loro sguardo inorridito. Ma l’espansione del consumo di cultura –questo è il punto- da due secoli non conosce battute d’arresto. Sassoon, guarda caso, è in Italia per un festival. Sta per cominciare una conferenza a Pistoia, invitato per i “Dialoghi sull’uomo”: quando gli dicono che c’è il pienone e i biglietti sono esauriti, mi guarda stupito. “In Inghilterra questo fenomeno sarebbe impensabile. Uno storico davanti a centinaia di persone!”. Le piace? “Naturalmente sì, anche questo è un modo di consumare cultura, cresciuto negli ultimi anni. C’entra la fame di sapere, ma forse, in Italia, anche la voglia di stare insieme”. Il saggio di Sassoon si apriva con un colpo d’occhio nella metropolitana di Londra, a inizio 21° secolo. C’è chi sfoglia un quotidiano, chi una rivista, qualcuno legge un libro.
Oggi, a un decennio di distanza dalla pubblicazione del suo studio, quello stesso colpo d’occhio sarebbe molto diverso?
Quasi tutti sarebbero inchiodati al telefonino, non tanto per chiacchierare con gli amici, ma per ascoltare musica, guardare video, scorrere testi di ogni tipo. Tutto sommato, non è una grande differenza: si consuma cultura, nel senso più ampio della parola, da quando ci si sveglia la mattina fino a quando si va di nuovo a letto.
Per questo “misurare” i consumi culturali diventa più difficile?
Non è mai stato facile. Mi dispiace fare lo storico noioso e ripetere che tutto è già successo. Le statistiche dell’Ottocento non sono granché affidabili: per esempio, si parla già di bestseller ma è molto difficile sapere quante copie venissero davvero vendute e lette. Né possiamo sapere con certezza quanti andassero ai concerti. L’unico aspetto di cui siamo sicuri, al di là della statistica, è l’enorme aumento del consumo culturale degli ultimi duecento anni. Se pensiamo che un uomo nato in una famiglia modesta, anche nella ricca Inghilterra dell’Ottocento, andava a lavorare a dodici, tredici anni, lavorava dieci ore al giorno per sei giorni alla settimana, non aveva vacanze e moriva a 65 anni, ci rendiamo conto di differenze macroscopiche. Oggi, un giovane di famiglia modesta non lavora fino ai diciotto anni, magari poi va all’università, se è fortunato trova un impiego con i weekend liberi, va in pensione a 65 anni e vive fino a 80 anni. E’ ben più che raddoppiato, direi quintuplicato, il numero di ore disponibili per consumare cultura.
E tuttavia c’è sempre chi vede nubi all’orizzonte.
E’ l’ansia permanente delle élite. D’altra parte, se stiamo ai libri, più aumenta il consumo, più è facile che siano premiati prodotti che fanno rabbrividire gli intellettuali –Il codice Da Vinci, le Cinquanta sfumature. Vorrei però far notare che l’equivalente di chi oggi legge Dan Brown, 150 anni fa era analfabeta. Meglio allora? Non vedo dove ci sia un regresso. Il Dan Brown dell’Ottocento francese, Eugène Sue, veniva letto dai ceto medio-alti, semplicemente perché i ceti medio-bassi non leggevano. Detto questo, io ho provato a leggerlo e l’ho lasciato dopo cento pagine. Prendiamo la musica. Mozart, quando componeva, aveva un pubblico limitatissimo. Oggi la sua musica è studiata da 36 milioni di bambini cinesi. Anche per la cosiddetta cultura alta, c’è stata un’espansione impressionante. La “Monna Lisa” viene vista al Louvre da nove milioni di turisti l’anno, e il 70% non sono francesi…
Le distinzioni alto/basso, le gerarchie non hanno senso?
Faccio lo storico, non il moralista. O meglio, come privato cittadino faccio il moralista dalla mattina alla sera, ma come storico non posso. L’élite dice: essere colti vuol dire aver letto Tolstoj, Proust e non avere letto Harmony. E’ il modo che ha per auto-definirsi. Poi, come è evidente, all’interno delle stesse élite c’è una discussione continua, interminabile, sui valori estetici, su cosa è dentro e cosa è fuori. “No, ma Agata Christie però…”. In ogni caso, l’influenza delle élite è tale che, condizionando programmi scolastici e universitari, condiziona anche il marketing. Allunga la vita degli oggetti culturali: pensi al vostro Manzoni. Quanti libri contemporanei dei “Promessi Sposi” sono spariti? Il bestseller del 1919 non lo ricordiamo più, ma ricordiamo Proust, che non fu bestseller. Resta il fatto che le gerarchie ci sono state, ci sono ancora, e –per le mie scarse previsioni- continueranno a esistere. Ma anche i ceti intellettuali cambiano: quelli odierni hanno origini molto più umili rispetto al passato. La mia generazione è andata all’università, molti dei nostri padri no…”.
La guerra dichiarata alle élite passa anche per i commenti su Amazon, per la “sconfitta” della critica come professione?
Essere disprezzati e contestati da quelli che loro considerano i senza-cultura in fondo serve agli intellettuali per ribadire la propria sopravvivenza. Certo, di ciò che nell’Ottocento si pensava delle élite culturali sappiamo pochissimo, i ceti bassi non avevano modo di esprimersi. Ma i commenti di TripAdvisor e di Amazon sono una novità solo in parte. Qualunque forma di consumo (culturale, gastronomico, ecc.) si è sempre un po’ basata sul sentito dire, anche se su scala più piccola: una forma di critica “dal basso”, spesso molto più efficace di quella istituzionale.
E un professionista della critica a questo punto come se la cava?
Deve accontentarsi di scrivere su un giornale! Magari finendo per buttarsi anche lui sulla mania delle classifiche –un genere volgarissimo, roba da Eurovision. Fa quello che fanno tutti, credendosi diverso.
Nelle pagine finali del suo libro parla di “villaggio globale balcanizzato”, di tribù culturali che non si parlano e non si conoscono.
Un’indagine svolta in Francia su ciò che nazioni confinanti sanno delle rispettive culture, al livello di nozioni scolastiche, dà risultati sorprendenti. Alla richiesta di citare il nome di un italiano nato prima del 1900, un’ampia percentuale di francesi non sapeva fornire un nome, al massimo tirava fuori Mussolini. Ognuno vive nel proprio piccolo villaggio: tutt’al più, nazionalizza pezzi di cultura pop trasversale (in larga parte di provenienza anglo-americana). Non solo non esiste una cultura europea, ma forse non ha nemmeno più molto senso parlare di cultura italiana, spagnola, ecc. Come si potrebbero definire i tratti distintivi di una cultura degli europei che si differenzi dalla cultura dei cinesi? Più banalmente, ci sono oggetti culturali che gli europei consumano e i cinesi no. Ben poco ci arriva da Cina e India (eppure, si tratta di metà della popolazione mondiale). Quando accade, si tratta paradossalmente di pezzi di cultura “alta”: non i filmoni di Bollywood, ma gli impegnati che vanno al Festival di Cannes e di Venezia e che in Cina o in India non vede quasi nessuno.
E i suoi consumi culturali?
Da privato cittadino, posso dirle che non mi piace la musica pop, che non voglio sentirla nei ristoranti dove mangio e che non mi interessa Dan Brown. Ma si tratta di preferenze personali. Ascolto Mozart perché mi piace. Punto. Tutti dovrebbero ascoltare Mozart? Alla domanda diretta, forse risponderei sì, ma è una sciocchezza, non le pare?
Donald Sassoon Paolo Di Paolo