Il feticista, l’uomo che ama una calza più di una donna
La passione dell’avaro è ipnotizzata dai suoi averi. La dedizione per la borsa conta di più di quella per l’amore. Tra la donna e la sua “cassetta” non è sfiorato dal minimo dubbio. La sua attitudine accentua il carattere feticistico del desiderio umano che Freud ha per primo messo in evidenza. Il feticista è, infatti, colui che individua l’oggetto del suo desiderio in un oggetto inumano (scarpe, mutande, calze, ecc.) o in un frammento del corpo (seni, gambe, piedi, ecc.). Se l’avaro non ha dubbi nello scegliere tra l’amore e i suoi averi, anche il feticista preferisce una calza, una scarpa o un piede all’incontro con l’Altro. La sua opzione è chiara: egli subordina il valore dell’oggetto amato dalla presenza o meno del feticcio. Come la cassetta rende l’avaro incapace di ragionare, prigioniero del suo fantasma di appropriazione sconfinata, la fascinazione irresistibile che emana dal feticcio rende il feticista un vero me proprio idolatra: i feticci di cui egli è dipendente gli appaiono come veri e propri idoli ai quali consegnarsi senza riserve.
Nel “Capitale” Marx ha sviluppato una celebre analisi del feticismo delle merci mostrando come nel regime capitalista gli oggetti del mercato non rispondano più alla semplice necessità di soddisfare un bisogno, ma appaiono dotati di un valore di scambio che prescinde dal loro reale valore d’uso. Si tratta di una sorta di animazione paradossale degli oggetti attivata in modo artificioso dall’azione del mercato che li trasforma in merci feticizzate. La sociologia contemporanea rivela che questo processo ha talmente smaterializzato l’oggetto dando luogo a un inedito feticismo: quello delle marche. La bellezza e l’efficienza di un prodotto non valgono nulla se non sono contrassegnate dal potere impalpabile della marca, nella cui importanza crescente Pasolini aveva giustamente avvistato il passaggio epocale dalle società religiose a quelle dominate dalla pubblicità e dal consumismo dove, come in un celebre slogan pubblicitario –al quale non a caso egli aveva dedicato un’attenzione speciale- una marca di jeans può prendere letteralmente il posto di Dio: “Non avrai altro jeans al di fuori di me!”.
Il desiderio feticista è un desiderio idolatra perché preferisce il “pezzo” all’incontro con l’Altro. Si tratta per Freud di un’attitudine che qualifica in modo particolare il desiderio maschile: il corpo della donna viene smembrato meccanicamente in una molteplicità di “pezzi” dai quali il desiderio del soggetto appare irresistibilmente attratto. Il desiderio del feticista viola l’idea del rapporto sessuale come rapporto tra corpi erotici. Quello che lo interessa non è il corpo del suo partner, ma solo una parte di quel corpo (seni, gambe, mani) o l’appendice che lo riveste (mutande, calze, scarpe). Il rapporto non è più tra soggetto e soggetto: il feticista adora il suo oggetto-feticcio che gli serve per scongiurare la sua angoscia di fronte all’incontro con l’Altro sesso. Meglio, infatti, dipendere da un oggetto inanimato o da un pezzo di corpo che da un soggetto libero di rivolgersi altrove, di andarsene o di desiderare altro. Non a caso per Freud la genesi dell’oggetto-feticcio scaturisce dalla percezione penosa e insopportabile da parte del bambino della castrazione del corpo della madre. Se la madre è stata una figura idealizzata, vissuta come onnipotente e priva di mancanza (madre fallica), essa, in realtà, si rivela prima o poi agli occhi del bambino come castrata, sprovvista del fallo. Di qui l’angoscia che, secondo Freud, sovrasterebbe il soggetto sospingendolo a trovare una soluzione. La più nota è quella della rimozione che consiste nel relegare nell’inconscio questa percezione spiacevole per conservare intatta l’immagine idealizzata della madre. L’altra è quella propriamente feticistica: la percezione è stata talmente intensa che non può essere rimossa ma viene rinnegata. Il bambino vive, cioè, nello stesso tempo sia la percezione penosa della castrazione della madre, sia la sua negazione. Il feticcio serve infatti al soggetto per attribuire, in un modo obliquo, un fallo alla madre castrata risolvendo così l’angoscia di castrazione che la vista del suo corpo senza il fallo aveva provocato: le mutande, i seni, le scarpe col tacco servono al feticista per esorcizzare l’impatto angosciante.
Di questo “film” di Freud possiamo trattenere l’idea di base: la presenza del feticcio serve a scongiurare l’angoscia di castrazione. In questo senso viviamo in un’epoca dove gli oggetti appaiono come partner inumani (droga, televisione, bottiglia, psicofarmaco, internet, cibo, culto della propria immagine –selfie?-,ecc) che hanno preso feticisticamente il posto dei partner umani ma che, diversamente da questi ultimi, hanno la caratteristica di assicurare la loro presenza, di non tradire e di non andarsene mai.
Il tratto feticistico del desiderio maschile diventa una patologia quando non costituisce più un ingrediente erotico necessario al desiderio per animarsi, ma il solo oggetto del desiderio che declassa l’esistenza del partner a pura comparsa. Si tratta di un artificio che tenta di ricostruire un’immagine senza ferite dell’Altro. Il culto stesso della bellezza senza imperfezioni, compatta come un diamante, serve al desiderio maschile proprio a questo scopo. L’estetismo è un grande riparo dal carattere scabroso della castrazione. Di qui lo smarrimento che può intervenire di fronte all’invecchiamento del corpo, ai suoi cedimenti, alle sue rughe come indici dell’imminenza inaggirabile della fine. Questo –come accade per ogni avaro che tende solitamente ad accentuare la sua avarizia con il passare degli anni- sospinge il feticista a dipendere ancora più fortemente dal suo feticcio come se fosse una sorta di amuleto nei confronti della morte. Il desiderio feticista in quanto desiderio idolatra esige, infatti, il carattere imperituro –sottratto all’erosione del tempo- del suo oggetto. E’ quello che Marx definiva come la natura “sovrasensibile” della merce. E’ la vena “religiosa”, assoluta, della passione feticista ma anche la sua illusione più fatale.
Massimo Recalcati
Articolo pubblicato in “Repubblica”, domenica 28 febbraio 2016, p. 60