Tutto quello che Camilleri sa di Montalbano

Tutto quello che Camilleri sa di Montalbano

 

L’ultimo Camilleri si intitola “La rete di protezione”. Da quando è uscito, a fine maggio 2017, si è abbarbicato in cima alle classifiche. A metà luglio è ancora lì. Farlo scendere non sarà un giochetto.

Con questo a quanti Montalbano siamo arrivati, Camilleri?

Boh.

Come sarebbe “boh”?

I romanzi saranno un venticinque, più cinque raccolte di racconti.

Il personaggio debutta nel 1994. In 23 anni di convivenza Montalbano glieli ha mai rotti “i cabasisi”?

Spesso e volentieri.

E’ diventato un incubo.

Diciamo un ricattatore irresistibile.

Cioè?

Vede, quando un eroe seriale ha successo, la tentazione di portarlo avanti su corsie prefabbricate si fa sempre più forte. Perché finisci col ritrovarti tra le mani dei meravigliosi punti d’appoggio. Nel caso di Montalbano sono la sua squadra –Augello, Fazio, Catarella- e i luoghi –il commissariato, la casa di Marinella, la trattoria da Enzo… La cosa rischia di diventare automatica, troppo semplice. E allora io provo a complicarmi un po’ l’esistenza lanciandomi in un nuovo romanzo senza Montalbano.

Pausa balsamica.

Solo in teoria. I libri senza Montalbano sono tutti da inventare e le difficoltà aumentano. Ma mentre sto lì a scervellarmi sa che succede?

Cosa?

Succede che mi arriva in casa il commissario, mi si siede accanto e dice: “Lo vedi? Se invece di buttarti a scrivere ‘sta cazzata ti fossi messo su un altro Montalbano, in quattro mesi lo avresti già bello che finito e adesso saresti fuori dai guai”.

Ma al vile ricatto Camilleri resiste.

Però è dura. Ci aggiunga che a vantaggio del commissario gioca pure un altro elemento. Ogni volta, dopo l’uscita di un nuovo Montalbano, Antonio Sellerio si diletta a mandarmi una specie di relazione. Un rapporto nel quale si elenca in dettaglio quanti miei romanzi senza il commissario si sono venduti grazie alla spinta dell’ultimo Montalbano.

Effetto traino.

Un libro del commissario può far vendere 200, 250 copie di, che so, “Il birraio di Preston”. Montalbano permette che le mie opere, comprese le più vecchie, rimangano in catalogo. Lei capirà: in una situazione simile resistere è un’impresa.

E’ ‘na catena ormai.

Mi domando come abbia fatto Simenon a sopravvivere a 72 Maigret o quanti sono. Una tale mole di libri rischia di soffocarti. Anche come peso specifico intendo: se ti cascano addosso tutti insieme come niente t’ammazzano.

D’accordo ma ormai, complici la tv e l’ottimo Zingaretti, Montalbano è qualcosa di più di un personaggio di successo. Gli italiani se ne sono innamorati. Parlano, mangiano come lui, vanno in vacanza dalle sue parti… Tanto ardore collettivo lei come se lo spiega?

E vuole che in tanti anni non me lo sia chiesto? Però la credo di credermi: una risposta non l’ho ancora trovata. Perché all’ultimo G7 di Taormina la moglie del leader polacco Tusk ha scritto sul libro degli ospiti: “Sono felice di trovarmi nella terra del mio amato Montalbano”? Mistero.

Andiamo, una vecchia volpe del giallo come lei se non una prova quantomeno uno straccio di indizio lo avrà scovato…

Molto tempo fa Carlo Bo scrisse un articolo che mi colpì. Diceva: con Montalbano Camilleri è andato a occupare un posto che, a differenza dei paesi anglosassoni o della Francia, nella nostra letteratura era rimasto vuoto, quello dell’intrattenimento medio-alto.

Perché lo avevano disertato?

Perché in Italia la tentazione dello scrittore è sempre quella di creare un’opera che sconvolgerà per sempre la vita dei lettori, che si ergerà nella Storia come ‘na cattedrale. Io questa ambizione non l’ho mai avuta. L’ho detto tante volte: al massimo io fabbrico chiesette di campagna.

Nella sua chiesetta si parla vigatese stretto. Una scelta linguistica che rischiava di non attirare molti fedeli…

Infatti Leonardo Sciascia mi consigliò fraternamente di evitare quello strano dialetto.

Anche ai migliori capita di non azzeccarci. Oggi il vigatese è sotto la lente di filologi, glottologi…

Per studiarlo si sono alleate dodici università. Pubblicano una rivista, i “Quaderni camilleriani”, dove Montalbano è analizzato fino al duecentesimo pelo sotto il ginocchio sinistro.

Come definirebbe il vigatese?

Una lingua inventata, in continua mutazione, infedele a se stessa. C’è voluto un po’ di tempo, ma alla fine ci si è accorti che non è siciliano. I primi a capirlo sono stati proprio i miei amici in Sicilia: “Ma unni a pigghiasti ‘sta parola? Non esiste!”.

Di Maigret Simenon diceva che un giorno lo aveva visto in carne ed ossa, nella persona di un passante con pipa, bombetta e cappotto che gli ispirò fisicamente il personaggio. E lei, Montalbano lo ha mai incontrato?

Quando scrissi i due primi romanzi, “La forma dell’acqua” e “Il cane di terracotta”, riuscivo a vederlo solo per frammenti: il taglio dei baffi, un porro sulla faccia… Non ero in grado di inquadrarlo nella sua interezza e la cosa mi dava un fastidio enorme. Poi alla fine degli anni Novanta mi telefonò il professor Giuseppe Marci, che insegnava Letteratura italiana all’università di Cagliari. Mi disse: “Quest’anno ho fatto il corso sul suo libro “Il birraio di Preston”. Perché non viene lei a chiudere le lezioni?”. Accettai, chiedendo: “Ma all’aeroporto come faccio a riconoscerla?”. E lui: “Avrò in mano una copia del “Birraio””. Quando sbarcai rimasi impietrito: davanti a me avevo finalmente il commissario Montalbano. E teneva sottobraccio una copia del “Birraio di Preston”.

E vabbè pazienza, anche se cagliaritano, sempre isolano era.

Quando si cominciò a pensare di adattare Montalbano per la tv, il produttore Degli Esposti mi chiese se avessi in testa una figura ideale di attore che andasse bene per il personaggio. Dissi: di attore no, se però vuoi capire che tipo d’uomo ho in mente ti farò avere qualche foto di un mio amico professore a Cagliari. Alla fine un interprete che assomigliasse a Giuseppe Marci non lo trovammo. Avrebbe potuto essere Pietro Germi, ma era già morto.

Questo per il fisico. Invece per la personalità di Salvo Montalbano ha tratto spunto da qualcuno?

Quando arrivai al quinto romanzo mia moglie mi disse: “Ti rendi conto che stai scrivendo la biografia di tuo padre?”. Non ci avevo mai pensato. Però, è vero, il coraggio di Montalbano è in parte quello di mio padre. Lo invidiavo: fu un uomo coraggiosissimo. Anche di fronte alla morte.

Le va di raccontarmela?

Passai i suoi ultimi trenta giorni senza mai staccarmi da lui. L’ultima notte ebbe un delirio. Mi ero appisolato quando sentii una voce che diceva: “Tenente Camilleri! Tenente Camilleri!”. Era mio padre seduto sul letto. Ripeteva: “Tenente Camilleri, si defili! Non vede che è sotto tirooo??!”. Non sapevo cosa rispondere. Lui insisteva: “Le ho detto di spostarsi! Si defili, Cristo! Oppure crede di insegnarci il coraggio, coglione di un siciliano?”. A quel punto capii. Durante la prima guerra mondiale papà aveva combattuto nella Brigata Sassari agli ordini di Emilio Lussu, che in battaglia doveva avergli strillato in quel modo. Nel delirio lui era diventato Lussu e io il giovane soldato Camilleri.

Altri punti di contatto tra Montalbano e suo padre?

Per esempio l’estrema prudenza nel ricorrere alle armi.

Giuseppe Camilleri le odiava?

No, ne aveva, era cacciatore. Io lo seguivo, poi decisi che non avrei più sparato agli animali. Però a diciott’anni mi venne voglia d’avere il porto d’armi. “Ah, ti sei infine convertito alla caccia?”, disse papà. No, risposi, è solo che mi piacerebbe andare in giro col revolver. E lui: “Non c’è problema. Sali in camera da letto e prendi la mia Smith & Wesson nel cassetto. Attenzione perché è carica”. Vado, torno e gliela do. Eravamo nel baglio di campagna. Ci spostammo nella stalla. Papà mi allungò il revolver: “Adesso tira all’asino”, disse. Ma perché? “Ammazza l’asino, dai. Comincia a esercitarti con lui”. Rifiutai. “Allora niente porto d’armi”, disse papà. “La pistola si porta per legittima difesa. Ma a un certo punto devi tirarla fuori e sparare. Se non hai il coraggio di premere il grilletto, quelli che hai di fronte il revolver te lo faranno mangiare”. Per questo alla fine del mio primo romanzo al protagonista lo ammazzano: gli rompono i denti con la pistola in bocca perché lui non ha osato sparare.

Per via della sua etica gli esegeti hanno definito Montalbano un “cristiano di sinistra”, “anticlericale e calvinista”.

Esagerazioni. Per quanto io ne sappia, Montalbano non parla con Dio. Quanto al calvinismo, è una posizione troppo estrema per uno come lui.

Politicamente è più moderato di lei.

Certo, io resto comunista. Lui è accusato di esserlo, ma non lo è. Dice solo cose di buon senso che in un mondo stravolto come il nostro sembrano rivoluzionarie.

Ha fatto il ’68.

Sì, ma guardi che, come notava lo storico Giovanni De Luna, dalla contestazione sono venuti fuori dei meravigliosi funzionari. Pensi al commissario Ninni Cassarà che finì ammazzato dalla mafia a Palermo: anche lui veniva dal ’68.

Vediamo Montalbano invecchiare. E’ diventato saggio?

Non abbastanza per non perdere la testa e impazzire al momento opportuno. La sua saggezza non è d’acciaio, diciamo è di marzapane. Montalbano si crede una zuppiera, invece è un colabrodo.

Si piace?

Per niente. Quando si guarda allo specchio si sta antipatico. Non ha molta cura del proprio aspetto. E’ un uomo trasandato. Guardi come si veste: un giubbotto, un maglione, un paio di pantalonacci. Quando è costretto a imbellirsi si trova ridicolo, ripugnante. In questo assomiglia a mio zio Massimo: ogni volta che gli toccava indossare un vestito nuovo, lui cominciava a rovinarlo. Munito di una forbicetta, tirava un filo in modo che al momento di uscire l’abito sembrasse usato. Il commissario farebbe lo stesso.

Salvo Montalbano teme i cambiamenti. L’idea di essere trasferito gli fa orrore, per lui il microcosmo di Vigàta è una corazza contro la Storia.

Vigàta è come una famiglia. Ma la Storia preme sempre alle porte. Pensi solo ai migranti, ne ho parlato nel libro precedente, “L’altro capo del filo”: quelle persone diventeranno Storia. Lo sono già.

Camilleri, a questo punto posso confessarle il vero motivo della mia visita.

Mi dica.

Lo ha già annunciato qualche settimana fa, però me lo ripeta: mi giuri solennemente che non farà morire Montalbano.

Non muore né va in pensione. Per l’ultima avventura ho trovato un’idea di cui vado orgoglioso. Mi sono detto: meglio scriverla subito ché se arriva l’Alzheimer me la perdo. Con uno stratagemma Montalbano sparirà senza morire e non sarà più recuperabile in nessun sequel.

E’ l’ormai leggendaria, segretissima puntata finale che uscirà postuma e sta sigillata nella cassaforte dell’editore Sellerio?

Quella. Ma non c’è mai stata nessuna cassaforte, solo un semplice cassetto. Ho scritto il libro undici anni fa, quando ne avevo 79. Un’opera giovanile, insomma. Di recente ci ho rimesso mano perché era invecchiata. Nel frattempo il vigatese è cambiato. Ho dovuto aggiornarlo.

Nel 2018 andranno in onda sulla Rai due nuovi Montalbano tratti dal romanzo “La giostra degli scambi” e dal racconto “Amore”. Ma in che rapporti è il personaggio letterario con il suo doppio televisivo? C’è rivalità?

Quello della tv comincia a rompergli i “cabasisi”. Nel giallo che chiuderà la serie Montalbano viene chiamato perché uno è stato sparato per strada. La polizia ha sbarrato l’accesso ma non può impedire alla gente di guardare da finestre e balconi. Arrivando, lui sente due del vicinato che dicono:

  • “U commissario arrivò…
  • Ku? Chiddu da’ televisione?
  • No, chiddu vero”.

Poi Salvo si mette a interrogare un testimone ma siccome la gente non riesce a sentire protesta: “Voceee!”. A quel punto Montalbano s’incazza e porta via tutti al commissariato.     

Marco Cicala

 

Questa intervista di Marco Cicala ad Andrea Camilleri è stata pubblicata nel “Venerdì di Repubblica” del 21 luglio 2017, alle pagine 17-20.

Lo scrittore è nato a Porto Empedocle nel 1925.