“Alice”. La bambina di un libro per adulti
Il romanzo di Lewis Carroll, che compie 150 anni, è ancora considerato letteratura per ragazzi. Ma i riferimenti metafisici e logici ne fanno qualcosa di più complicato.
Questo è un articolo di Nicla Vassallo, professore ordinario di filosofia teoretica e saggista. E’ apparso nel “Venerdì” di “Repubblica” del 6 novembre 2015, alle pp. 108-110.
Difficile comprendere perché “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” (di cui quest’anno ricorrono i centocinquant’anni della pubblicazione) venga a tratti classificato nella letteratura infantile. Certo, bambine e bambini si identificano volentieri in questa nostra Alice pronta ad andare oltre quotidianità e normalità per addentrarsi in un mondo dalle fattezze ironiche, i cui sregolati principi vengono, in buona sostanza, dettati da un coniglio bianco e sempre in ritardo, da un cappellaio matto e da una regina, che delle tante regine pare l’emblema. Eppure questo non è un volume per bambini, bensì per adulti, con e di una certa cultura.
“Presumo che tu non ti sia esercitata abbastanza –disse la Regina-. Quando avevo la tua età, mi esercitavo sempre mezz’ora al giorno. Diamine, delle volte mi è riuscito di credere fino a sei cose impossibili prima dell’ora di colazione” (edizione Einaudi, Torino, 2003). Eccola la nostra Regina, che impartisce lezioni ad Alice, suggerendole di nutrire credenze impossibili. Sembra un gioco da ragazzi, e invece è un problema logico-matematico, se non metafisico, perché, prima di provare a credere alle cose impossibili, occorre comprendere cos’è impossibile e cosa non lo è, e se l’impossibile fa o no a pugni con quanto noi umani riusciamo a concepire.
Attenzione, tra le tante sue avventure, felici e infelici, Alice si imbatte pure in un unicorno: “L’Unicorno guardò Alice come in un sogno e disse: -“Parla, bambina”. Alice non poté fare a meno di increspare le labbra in un sorriso nel rispondergli: -“Ma lo sa che anch’io ho sempre pensato che gli Unicorni fossero mostri favolosi? Mai visto uno vivo prima d’ora!” –“Be’, ora che ci siamo visti l’un l’altro”, -disse l’Unicorno,-“ se tu crederai a me, io crederò a te. Siamo d’accordo?”.
Ecco, qui compare un ulteriore elemento di riflessione, che da letteratura infantile non è, nonostante farebbe piacere a parecchi, bimbi inclusi, incontrare un unicorno. Nel mondo di Alice, l’unicorno è non solo concepibile (come lo è per tutti noi), ma anche possibile (cosa che, invece, non accade nel nostro mondo reale). Per di più, torna il problema della credenza sotto una nuova veste, la veste della lealtà: se crederai a me, e, suppongo, in me, io crederò a te, e, suppongo, in te. Insomma, due “strane” creature affrontano il tema dell’amicizia, a partire dalle sue basi. Insomma, quando si tratta di vera amicizia, non prendiamoci in giro.
Di Alice, e non solo di quanto Carroll ne scrive, vi sarebbe da parlare e sostenere a lungo, se pensiamo all’infanzia. Lei è unica. Non assomiglia alla buffa Pippi Calzelunghe, né ad alcuna delle “ragazze” che compaiono nelle fiabe dei fratelli Grimm, fiabe oscure, tenebrose, malate, fiabe che mi hanno sempre impaurita, anche quando a lieto fine, fiabe da passare sotto la lente d’ingrandimento di qualche acuta psicoanalisi, prima di darle in mano con nonchalance ai propri figli.
Leggere, invece, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie presuppone il ragionamento, in base a conoscenze fisiche, linguistiche, logiche, matematiche. Cosicché, anche questo non è volume per i propri figli, ma per una diversa ragione: fino a una certa età, alcune conoscenze non le si posseggono. E non è neanche volume per quegli adulti che queste conoscenze le snobbano e che non hanno idea dei vari poemetti vittoriani a cui spesso nel volume si allude. Per di più, volume da leggersi preferibilmente in lingua originale: è noto che anche i migliori traduttori si sono trovati spaesati di fronte a quanto, a prima vista, può essere giudicato un’assurdità, un nonsenso, un paradosso, se, per l’appunto non si praticano quotidianamente le conoscenze di cui si diceva.
Non sto così implicando che in pochi possano leggere bene il volume. La mia vuol limitarsi a una sorta di avvertenza: è un capolavoro da leggersi e rileggersi con molta accuratezza e accortezza, perché anche le continue trasformazioni del corpo di Alice o gli ordini e le intenzioni di uccidere, che compaiono qui e là, non fanno parte di una favola, ma, piuttosto, a mio avviso di una sorta di anti-mito platonico, in cui si viene costantemente provocati rispetto al dualismo tra possibilità e impossibilità della propria esistenza interiore, a meno che non vi sia più nulla da fare, ovvero quando si è ben inquadrata l’esistenza nei miti d’oggi –e mi sto riferendo all’attualità, non a Roland Barthes.
Molte, troppe a mio avviso, le trasposizioni cinematografiche e televisive, proprio perché in troppi vi hanno visto una favola e null’altro. L’ultima mi pare la serie americana Once Upon a Time in Wonderland: no, una volta ogni tanto non si può entrare nel mondo delle meraviglie. Non è però da sottovalutarsi affatto, anzi, la trasposizione che ne ha offerto Tim Burton, circa cinque anni orsono, in cui Alice non è vista e vissuta come una bambina, bensì come una diciannovenne. Scontato che negli States, la guida per i genitori (parental guide) si sia subito premurata di sottolineare le situazioni inquietanti e violente del film di Burton, come se nel volume di Carroll non fossero presenti.
Ma il problema rimane costituito dalle illustrazioni: quelle classiche, in bianco e nero, o quelle surrealiste di Salvador Dalì, o quelle pop?
Ricordando il noto Manifesto del 1924, il surrealismo vi viene definito quale movimento in cui si esalta “la psiche automatica e l’assenza di controllo della ragione”. Di ragione e ragione, invece, in Lewis Carroll ve ne è fin troppa. Eppure, tra poco, è da non perdersi Alice’s Adventures in Wonderland, edizione illustrata appunto da Dalì e pubblicata, in lingua originale, of course, dalla Princeton University Press (pp. 120, $ 24,95). Ne vale la pena se non fosse altro perché queste illustrazioni non sono state sempre facili a vedersi, o a lasciarsi vedere.
Nicla Vassallo