Gabriele D’Annunzio, “I miei cani morti”, 1935

Gabriele D’Annunzio (1863-1938), “I miei cani”, 31 0ttobre 1935

 

Qui giacciono i miei cani

gli inutili miei cani,

stupidi ed impudichi,

novi sempre et antichi,

fedeli et infedeli                                                                            5

all’Ozio lor signore,

non a me uom da nulla.

Rosicchiano sotterra

nel buio senza fine

rodon gli ossi i lor ossi                                                                10

vuotati di medulla

et io potrei farne

la fistola di Pan

come di sette canne

i’ potrei senza cera e senza lino                                                          15

farne il flauto di Pan

se Pan è il tutto e

se la morte è il tutto.

Ogni uomo nella culla

succia e sbava il suo dito,                                                          20

ogni uomo seppellito

è il cane del suo nulla.

(testo scritto a matita e pubblicato nel 1979)

 

E’ quasi certamente l’ultima poesia scritta da D’Annunzio, che morirà meno di tre anni dopo. Ormai non usciva più dalla villa di Cargnacco sul lago di Garda, perso in un’aridità senile rancorosa e altera, amaramente sfidando gli acciacchi dell’età (“la miseria fisica mi fa ridere”): circondato dalle sue spese pazze, dal suo collezionismo sincretistico e decadente, dai souvenirs eroici –proiettato nel progetto megalomane di trasformare la villa in un Vittoriale degli italiani, suo museo preventivo e tomba anticipata. Lì nel 1979 l’allora giovane critico Pietro Gibellini ritrovò questa poesia, buttata giù a matita sul foglio di guardia e il piatto interno posteriore di un volume francese ottocentesco di viaggi. Stesura frettolosa e provvisoria, di cui Gibellini ha dato correttamente una trascrizione diplomatica; ma è possibile che alcuni versi contigui e similari costituiscano in realtà varianti alternative, da risolvere in fase di revisione. Così come è molto probabile che i settenari assai zoppicanti dei vv. 18-19 debbano essere letti come un unico fluido endecasillabo (“se Pan è il tutto e la morte è il tutto”). I vv. 13-14 sarebbero stati forse eliminati e sostituiti da quelli che nel testo figurano come i vv. 16-17 – il v. 11 potrebbe essere alternativo al v. 10 e non è escluso che i due settenari dell’incipit sarebbero anch’essi sfociati in un solenne endecasillabo d’esordio (“qui giacciono gli inutili miei cani”). Ma lo stato ancora un po’ magmatico giova al testo: le ripetizioni ne accentuano la furia annientatrice, l’ossessione mortuaria; succede qui come succede talvolta per l’arte figurativa, che certi schizzi a sanguigna o a carboncino risultano più interessanti e moderni del quadro finito.

L’autodenigrazione non è che l’altra faccia dell’autocelebrazione: D’Annunzio che si definisce “uom da nulla” è il superuomo rovesciato. C’è un parallelismo evidente tra l’epitaffio per i cani e l’epitaffio sottinteso per la propria vita ormai inutile: i suoi splendidi levrieri non sono più usati per la caccia, come le sue doti straordinarie non sono più richieste in servizio alla Nazione. L’impudicizia dei cani (topica fin dall’antichità) è fraterna alla propria stessa erotomania (nel Libro segreto confessa che l’esagerata passione di ultra-settantenne per il “delta rovescio” femminile spingeva gli amici ad accusarlo della “più lorda bestialità”, di cui per altro si compiace: “bevevo accucciato e talvolta il mio cane dappresso beveva meco”). La fedeltà canina, incerta e reversibile, all’Ozio non può non ricordargli la sollecitudine ambigua della Luisa Baccara o della Aélis Mazoyer, sue amanti e mezzane; o il profluvio delle “badesse di passaggio” che gli fornivano il sesso a pagamento. In tutti i suoi scritti di quegli anni circola la depressione più ancora che la disillusione: gli amici cari della giovinezza si presentano solo per chiedergli denaro, l’amore è ridotto alla funzione fisiologica (Angiolieri Solafica di Siena, banchiere duecentesco del Papa, gli fornisce “il nome appropriato alla mia amica penultima”), le illusioni sul fascismo sono cadute; immaginando la propria autobiografia per un editore americano, pensa al sottotitolo “a too long life”. Ma più forte della depressione batte il disprezzo del mondo, una desolazione metafisica: “l’eterno fato è un porco nero e cieco”.

L’immagine centrale del testo è quella degli ossi: ormai cavi perché privi di midollo, rosicchiato sottoterra dai cani-fantasma, potrebbero essere riuniti in una rudimentale (senza cera e fili di lino che la tengano insieme) zampogna di Pan. “Pan” in greco significa “tutto” ma è anche il dio del panico meridiano –e gli era stato guida, quando poco più che trentenne si era concesso una crociera tra le isole greche, verso l’esaltazione mitico-simbolista della Laus Vitae (“il gran Pan non è morto!”). Qui invece il “tutto” è la morte e dunque Pan si identifica con la morte. “Tutto è niente”, scrive in un tardo appunto del Vittoriale. Nel Compagno dagli occhi senza cigli (del 1928) e poi nel Libro segreto (del 1935) parla della cannuccia della propria penna, appoggiata alle labbra e “aggiustata in una delle sette canne della fistola di Pan, disciolta dal lino e dalla cera, dislegata e sparsa”. Il mirabolante artefice della parola, che si vantava “allevato sulle ginocchia della musica”, attesta qui disperatamente che anche la scrittura perde senso davanti alla morte, se può essere paragonata agli ossi rosicchiati da un cane.

Il talento (e D’Annunzio ne aveva tanto) zampilla quando vuole; in questa poesia tardiva e forse nemmeno apprezzata se non ha sentito il bisogno di correggerla o trascriverla in pulito, dal fondo del nichilismo più ipocondriaco, spunta una stupefacente quartina finale di settenari a rima incrociata. Il dito succhiato dall’infante è come l’osso succhiato dai cani morti: l’intera vita riassunta in nun gesto stupido, con una musica tornata elementare e una punta di fastidio liquidatorio –un ultimo verso potente come in un grande barocco: l’uomo dopo la morte è destinato ad essere “il cane del suo nulla”. Tutto il vitalismo estetizzante, la luce estiva dell’Alcyone, bruciati nel grido di chi non crede più.  

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 31 agosto 2014, p. 58