Johann Winckelmann assassinato a Trieste l’8/6/1768
Più di due secoli fa il grande storico dell’arte fu ammazzato in un albergo sul porto. Perché? Una brutta storia che nasconde un segreto, poco in sintonia con il cultore del “bello ideale”.
Questo articolo di storia-cronaca è stato scritto da Raffaele Oriani e pubblicato nel “Venerdì” di “Repubblica” del 25 novembre 2016.
Nel 2017 saranno tre secoli dalla nascita di Johann Joachim Winckelmann, il tedesco che per primo ci fece innamorare delle nostre impalpabili radici elleniche. Winckelmann nasce figlio di un ciabattino prussiano e muore Prefetto delle antichità di papa Clemente XIII. Muore, appunto: per prepararsi degnamente all’anniversario conviene partire dai suoi ultimi giorni a Trieste, in piazza Unità d’Italia, Locanda Grande, o meglio Grand Hotel Duchi d’Aosta. “E’ stato Winckelmann”, sbuffano i portieri di notte, quando un imprevisto si infila tra i velluti rossi e gli ottoni traslucidi di quello che oggi è il più lussuoso albergo della città, ma ai tempi era già una dignitosa sistemazione d’angiporto. La Locanda Grande dava direttamente sui moli, e le sue finestre erano un ottimo punto d’osservazione sullo scalo commerciale che allora non ospitava gru, muletti e container, ma merci sciolte, sacchi di juta e muscoli che se ne facevano carico.
E’ il 1768 e Winckelmann a Trieste deve fermarsi pochi giorni, rigorosamente in incognito. Arriva da Vienna, dove l’hanno accolto con onori imperiali. Ed è diretto a Roma, dove conta di ritrovare i marmi e i mecenati vaticani. Sulle ragioni di questa puntata clandestina in una città povera d’arte e non ancora ricca di traffici, rimangono solo illazioni. Certo è che qualcosa va storto, perché la mattina dell’8 giugno dalla camera 10 della Locanda Grande si avverte un “gran strepito”: il signor Giovanni, come si fa chiamare in quei giorni il cantore della “nobile semplicità e serena grandezza” dell’arte greca, è stato appena trafitto da sette colpi d’arma da taglio, cinque dei quali mortali.
Che fare di questa camera d’albergo? Cosa vuol dirci lo spiritello che fa ritrovare al quarto piano un ascensore che dovrebbe aprirsi al secondo? “E’ stato Winckelmann” ribadiscono le vecchie volpi in reception. A scorrere il registro degli ospiti illustri, nella hall del Grand Hotel Duchi d’Aosta Francis Ford Coppola avrebbe potuto incontrare Primo Levi, Claudio Abbado provare qualche accordo con Bob Dylan, la regina Noor di Giordania intrattenersi con Rita Levi Montalcini. In Locanda Grande, Winckelmann pare invece che cercasse solo quella che, sempre a Trieste, Umberto Saba avrebbe chiamato la calda vita. Ma lasciamolo per un attimo in compagnia dei nuovi amici triestini, e proviamo a capire meglio di chi stiamo parlando: venerato come un padre da Goethe e canzonato come un fanatico da Diderot, Johann Joachim Winckelmann è l’inventore della moderna storia dell’arte, che abbandona l’elucubrazione antiquaria per abbracciare l’attualità di ogni opera. Senza di lui Heinrich Schliemann non si sarebbe mai messo sulle tracce di Troia, Lord Byron non avrebbe preso il mare per la Grecia e mezza Europa non si sarebbe rifatta i connotati adottando per chiese, statue e palazzi lo stile sobrio e sensuale che passa sotto il nome di Neoclassico. Per esempio a Trieste, dov’è neoclassica anche l’aria tra le case, e il visitatore ha vita facile perché tutto è sempre e comunque nei paraggi: da piazza Unità non serve più di un quarto d’ora per salire al colle di San Giusto, infilare via della Cattedrale, suonare (!) il campanello del Civico museo di storia e arte e farsi aprire il tempietto dedicato all’umanista tedesco. Ai piedi del monumento rigorosamente nobile, semplice, grande e sereno, sono riprodotte le tre monete che gli costarono la vita alla Locanda Grande.
Difficile immaginare morte meno in sintonia con la vita che andò a concludere. Il cultore del bello ideale viene accoltellato da un ladro sfigurato dal vaiolo. Trieste se ne vergogna ancora, e il pannello che accoglie i visitatori al tempietto assicura un po’ meschinamente che al delitto seguì “un puntiglioso processo e un’esemplare esecuzione del colpevole reo confesso”. Ma torniamo in albergo. Non nella sontuosa Suite Winckelmann dei Duchi, ma nella camera 10 della locanda ai margini del porto: che succede in quel mattino del 1768? Cosa fa incontrare l’erudito e il malamente? Francesco Arcangeli è un trentottenne perdigiorno “di mediocre statura, più tosto grasso chemagro, di faccia bruna e vajolata”. Da ospite della camera 9 stringe presto amicizia con Winckelmann, e con lui prende a pranzare e cenare, a curiosare tra le banchine del porto e a frequentare le caffetterie cittadine. Già a quel tempo le guide turistiche raccomandavano di proteggere ogni oggetto di valore dagli sguardi indiscreti nelle locande italiane. Ma Winckelmann doveva preferire altre letture, perché appena entrato in confidenza con il vicino si fa bello delle monete ricevute a Vienna dalle mani dell’imperatrice Maria Teresa. Arcangeli è un pregiudicato pieno di debiti. Dopo aver consigliato al suo nuovo amico di non mostrare troppo in giro il tesoro, si procura “un coltello veneziano, pontuto, col manico di osso nero”. La mattina dell’8 giugno passa quindi all’azione, uccide Winckelmann e segna così la sua stessa fine: nemmeno due mesi dopo sarà giustiziato tramite “ordinaria pena della ruota dal di sopra all’ingiù”.
La frequentazione tra lo “scopritore di un nuovo organo dello spirito” (parola di Hegel) e il suo assassino fu assidua, ossessiva, incomprensibile. Certo, ci sono passi di Winckelmann che potrebbero campeggiare sulle bandiere di ogni Gay Pride: “Non è facile trovare un sentimento generale e vivace del bello in quelle persone che subiscono il fascino della bellezza femminile, e poco o nulla sono toccati dalla bellezza del nostro sesso”. Ma se Winckelmann è un omosessuale affascinato dalla nudità greca, il suo compare non è molto credibile come reincarnazione di Apollo. Eppure. Bisogna incrociare due libri per provare a dar forma ai misteri della camera 10: il biografo Wolfgang Leppmann ricorda che l’ultima persona a incontrare Winckelmann prima del viaggio a Trieste fu lo scultore Bartolomeo Cavaceppi, che lo descrive “pallido, tremante, stravolto, con lo sguardo vacuo di un morto”. Cosa turbava il figlio del ciabattino al culmine del suo successo? In una fantasia letteraria di fine anni ’70, l’accademico di Francia Dominique Fernandez azzarda che il Prefetto vaticano sia diventato “signor Giovanni” per tradire la bellezza di marmo con una disperata avventura di carne. Le monete sarebbero venute dopo: con la sua fine Winckelmann avrebbe messo innanzitutto il sigillo sulla pratica omosessuale in tempi di bigottismo borghese. Desiderio, rimozione, morte: “Quanto all’omicidio, non è improbabile che la vittima l’abbia presagito e atteso senza cercare di evitarlo”. E quanto a Fernandez, non è superfluo ricordare che un paio d’anni dopo aver scritto queste righe vinse il premio Goncourt con una biografia di Pasolini.
E quindi? C’è un filo rosso che unisce la camera 10 al litorale di Ostia? E’ soltanto un’ipotesi, non la più inverosimile. A suo tempo il delitto fu archiviato come un caso di rapina violenta. Non suscitò curiosità il fatto che Winckelmann fosse in incognito, che avesse frequentato per giorni un figuro infrequentabile, e nemmeno che si vantasse di essere stato appena ricevuto dall’imperatrice e di “avere scoperto a Sua Maestà un ragiro”. Rapina, passione, spionaggio avrebbero continuato per secoli a montare e smontare la trama del delitto triestino. Ma oltre a tanti misteri, la fine di Winckelmann sparge anche qualche luce inattesa: il suo amore per la forma non fu mai formale, se attribuiti al “signor Giovanni” i suoi celebri studi sul Laocoonte si rivelano una meditazione ancor più febbrile sul dolore. Quanto al “Duchi d’Aosta”, i pronipoti della Locanda Grande coltivano una memoria decisamente selettiva: la targa d’ingresso avverte che lo studioso prussiano –come Goldoni, Casanova e tanti altri- ha dormito qui. Per il resto, meglio affidarsi ai portieri di notte: “E’ stato Winckelmann”.
Raffaele Oriani