25 marzo 1977: assassinio a Buenos Aires
Quarant’anni fa scompariva (letteralmente) per mano della dittatura militare lo scrittore argentino Rodolfo Walsh. Nel cassetto aveva un ultimo scritto. Anche questo desaparecido.
In questo articolo, apparso nel “Venerdì di Repubblica” del 17 marzo 2017, il giornalista Matteo Nucci rievoca l’assassinio di Rodolfo Walsh.
Gennaro Cucciniello
E’ piccola, piazza Walsh, all’incrocio di Cile e Perù, nei quartieri più letterari di Buenos Aires. E’ piccola ma è come una potentissima calamita. Chiunque passi fra il barrio di San Telmo e Montserrat ne viene risucchiato e non solo in questi mesi in cui si celebrano i novant’anni dalla nascita e i quaranta dalla morte di uno degli scrittori decisivi del Novecento argentino. Cosa attrae il viandante, anche il turista ignaro della storia di quest’uomo morto per il suo Paese, non è semplice spiegarlo. Sarà il balconcino da cui si affaccia una scultura che lo riproduce nella sua mitezza e curiosità di intellettuale o il mural che mette in scena tutti gli elementi della sua lotta per la libertà e la dignità di un popolo: gli scacchi, la macchina da scrivere e gli occhiali sullo sfondo della celebre fucilazione dipinta da Goya (El tres de mayo de 1808 en Madrid)? O forse c’è altro ancora? L’eco che risuona in quella frase con cui si conclude la celebre Lettera aperta di uno scrittore alla Giunta Militare che segnò la condanna a morte di Walsh. Vergata sul muro in un corsivo all’antica essa sentenzia: “Fedele al patto di dare la mia testimonianza nei momenti difficili”. Forse è questa frase con ciò che sottintende e che tutti gli argentini sanno, ossia le parole precedenti: “senza aspettarmi di essere ascoltato e con la certezza di essere perseguitato”? O forse è tutto quanto insieme? Perché tutto questo fu Walsh. E di lui non resta certo soltanto questa piazzetta, per quanto misteriosamente magica, né la fermata della metro a lui intitolata nei luoghi in cui fu crivellato di colpi prima di essere fatto sparire, desaparecido come migliaia di suoi simili, né le condanne che finalmente, nell’era Kirchner, sono state emesse nei confronti dei suoi aguzzini. Di lui resta, quasi intera, l’opera letteraria, testimonianza –certo- ma ormai soprattutto esempio.
Era nato a Choele-Choel, Rio Negro, il 9 gennaio del 1927. Famiglia irlandese, studi in un collegio di monache a Buenos Aires, due anni di università, lavori di ogni tipo, fra frigoriferi, anticaglie, lavapiatti, lavavetri, fino a entrare in una casa editrice come correttore di bozze. Ossia, il mestiere che scelse per il suo primo eroe, l’investigatore Daniel Hernàndez, protagonista dei racconti pubblicati a partire dal 1953 che in questi anni sono tornati sui nostri scaffali (“Variazioni in rosso” e “Per non parlar del morto”, entrambi editi da Sur). Sciogliere l’enigma con il puntiglio del correttore di bozze e la concentrazione dello scacchista – ecco il cuore di questo tipo di investigazione sui generis in cui il ragionamento e la logica assieme alla tenacia non possono che portare alla verità. L’identificazione di Walsh con Hernàndez divenne però completa nel momento in cui la vita dell’autore prese la sua forma definitiva, quella dell’impegno sociale e politico.
E’ nell’estate del 1956 che Walsh viene a conoscenza di una storia di fucilazione sommaria da parte delle forze di polizia che sostengono il governo che si è sostituito con un golpe a Juan Domingo Peròn l’anno precedente. Quello che ne vien fuori è il capolavoro letterario di Walsh. Con “Operazione massacro” (La nuova Frontera), ben prima di Truman Capote, egli si affida a una forma narrativa destinata a enorme successo, una forma ibrida in cui romanzo e non fiction s’intrecciano raccontando in tutta la sua drammaticità una vicenda su cui l’autore indaga a lungo con le armi dello scacchista in cerca della soluzione e della verità.
La verità non ha valore in se stessa, fuori dalla realtà su cui incide, quasi fosse la semplice soluzione di un enigma logico da settimanale di intrattenimento. La verità vale solo quando può dar forma alla vita di uomini e donne in lotta per la libertà. E’ con questa idea, adesso definitiva e solida, che Walsh parte per Cuba nel 1959 per lottare contro la campagna di stampa internazionale che sta cercando di infangare le imprese dei barbudos. Assieme a Gabriel Garcìa Marquez fonda la Prensa Latina, un’agenzia di stampa anti-imperialista. Con le sue armi di enigmista, intanto, decritta un cablogramma in cui viene preannunciata l’invasione della Baia dei Porci. C’è anche Walsh dunque dietro alla difesa dell’isola. Argentino come Guevara, può capirlo molto meglio dei cubani, ma lui, a Cuba, diversamente dal Che, cerca anche un po’ di libertà dall’educazione rigorosa e monacale. Le avventure a pagamento con ragazze vitali e astute diventano la scusa per un’autoironia che lo alleggerisce dai sensi di colpa.
Del resto, è in Argentina che Walsh sente di dover portare il suo contributo. Negli anni seguenti, con racconti e reportage (usciti ora nelle raccolte Il violento mestiere di scrivere e Fotografie, entrambi editi da La Nuova Frontiera) cerca di trovare ascolto non solo fra gli intellettuali. Vivisezionare i meccanismi del potere con semplicità e spirito narrativo capace di sedurre il lettore – questo è il senso dell’impegno politico e letterario di Walsh. In un breve articolo sulla mkorte di Che Guevara, egli però ci confessa tutta la sua insoddisfazione: “Per molti di noi è difficile rifuggire la vergogna, non di essere vivi ma che Guevara sia morto con così pochi intorno a lui”. Non basta a Walsh la macchina da scrivere? O forse vuole spingerla ancora più in là, verso la verità che smaschera e umilia gli oppressori?
Gli ultimi anni di vita di questo scrittore che ci insegna il valore della vita più che la gloria della morte, girano tutti attorno a questo dilemma. Walsh rientra in clandestinità come negli anni in cui ha lavorato a Operazione massacro. Pubblica altri due romanzi di non fiction su altrettanti casi di omicidi oscuri e intanto entra tra le forze rivoluzionarie peroniste dei Montoneros. Non ne condivide gli estremismi. Ma ormai c’è poco da discutere quando nel marzo del 1976 la giunta militare guidata da Videla prende il potere. La libertà di stampa è soppressa integralmente e Walsh fonda l’agenzia di stampa clandestina Ancla (“Riproducete queste informazioni, fatele circolare come potete: a mano, a macchina, oralmente. Mandate copie ai vostri amici: nove volte su dieci le stanno aspettando. A milioni vogliono essere informati. Il terrore si basa sulla mancanza di comunicazioni. Tornate a provare la soddisfazione morale di un atto di libertà. Sconfiggerte il terrore”). Sua figlia Vicky, ventiseienne anch’essa fra i Montoneros, viene uccisa in uno scontro a fuoco, come uno dei suoi migliori amici, Paco Urondo. L’uso della parola, la diffusione con ogni mezzo della verità è quel che resta. Walsh scrive la celebre Lettera aperta. La invia a ogni giornale e rivista il 24 marzo del 1977, a un anno esatto dal golpe militare. Il giorno dopo viene ucciso. Nella sua abitazione clandestina, distrutta e ripulita dai militari, era depositato un ultimo manoscritto, un’opera completamente letteraria dal titolo “Juan se iba por el rio”. Durante il processo ai suoi aguzzini, la figlia Patricia ha implorato che venisse restituita. Un ghigno silenzioso è stata la risposta sprezzante. E’ difficile immaginare la storia di narrativa pura a cui Walsh doveva essersi dedicato negli ultimi anni di lotta clandestina e dolori intollerabili. Certo ogni senso di vergogna in lui doveva essere sparito. E forse è questo che deve aver confuso e terrorizzato i suoi assassini. La possibilità che un uomo in lotta avesse trovato l’impossibile serenità interiore per tornare alla letteratura.
Matteo Nucci