Spagna. La fine dell’Eta.
Esce in Italia il libro che ha infranto il tabù degli anni di piombo del terrorismo basco, “Patria” di Fernando Aramburu.
Questo articolo, un’intervista che Marco Cicala ha fatto a Fernando Aramburu, è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 25 agosto 2017, alle pp. 17-21. Verso la metà del mese di luglio di vent’anni fa, 1997, baschi e spagnoli decidevano di dire basta alla violenza. Poi però l’unità politica contro il terrorismo si ruppe. E ora, in Spagna come in Europa, i particolarismi si rifanno minacciosi. Vedi il caso della Catalogna, ora alle prese con gli esiti del referendum secessionista dello scorso primo di ottobre. A Madrid il governo centrale risponde alla sfida lanciata dal Parlamento catalano. Ma a Barcellona sono andati avanti e hanno votato la legge che regolerà la separazione…..
Gennaro Cucciniello
Berretto nero, Vestito nero e guanti neri. Cappucci bianchi e il pugno alzato dei combattenti che mai si arrenderanno davvero. Era la messinscena canonica dei comunicati rivoluzionari quella con cui, nell’ottobre di sei anni fa, tre miliziani dell’Eta –un officiante e due concelebranti- annunciavano in un video la fine della lotta armata basca. Uno spot da ultimi Beati Paoli che avrebbe potuto indurre il sorriso se non fosse stato l’atto conclusivo di una carneficina durata mezzo secolo. Quasi cinque volte più dei nostri anni di piombo.
In azioni rivendicate, il terrorismo separatista ha fatto 829 morti. Ma restano 379 omicidi ancora da chiarire. Gli attacchi cominciarono sotto e contro il franchismo, con le sinistre di mezzo mondo che si innamoravano della causa basca accorpandola al romanticismo –Dio sa quanto equivoco- delle guerre popolari di liberazione e dei movimenti di indipendenza postcoloniale. Però, morto il Caudillo, si continuò a sparare. E di brutto. Del resto, sin dagli inizi sulle riviste radicali si potevano leggere cose tipo: “Il nostro nemico non è Franco… E’ la Spagna incarnata in qualsiasi sistema, forma di Stato o di governo che neghi ai baschi la libertà di creare uno Stato indipendente”. Il 90% degli ammazzamenti firmati Eta è avvenuto in democrazia. I più colpiti sono stati i poliziotti. A seguire imprenditori, politici, magistrati, funzionari delle carceri, giornalisti… Tecnica prediletta era l’agguato alle spalle con pistolettata alla nuca, ma non ci si è fatti mancare nemmeno le bombe in supermercati, caserme, aeroporti, spiagge, piazze. Senza contare rapimenti ed estorsioni –la famosa “tassa rivoluzionaria”, il pizzo con cui si spremevano imprenditori e professionisti.
Agli sgoccioli del ‘900 cadevano muri, si sfarinavano imperi, ideologie, assetti geopolitici… Cambiava tutto. Salvo l’Eta. Che tirava dritto. Sigillandosi nell’autismo omicida. Fino al 2011, quando, decimata dagli arresti e in perdita di consenso anche nel campo nazionalista, l’organizzazione proclamò la resa. Dietro di sé lasciava una società lesionata nel profondo, dove riannodare i vincoli della convivenza sarebbe stata una delicatissima impresa di chirurgia ricostruttiva.
E’ la società raccontata da Fernando Aramburu in “Patria”, romanzo che in Spagna è diventato un caso: venti ristampe, 400mila copie vendute, undici traduzioni. Quella italiana esce adesso da Guanda. Affresco polifonico, Patria ripercorre trent’anni di tragedia basca ad altezza di individuo: delle vittime, degli assassini e di tutta la frastagliata umanità che sta in mezzo. E’ la storia di due famiglie che, saldate da antica amicizia e capitanate entrambe da vigorose matriarche, si ritroveranno divise dalla violenza. Bittori (Vittoria in basco) perde il marito Txato, padroncino di un’officina che finisce sparato per aver rifiutato di pagare balzelli agli etarras. Miren ha invece un figlio terrorista, al quale, in un delirio di adesione materna, farà scudo sino all’accecamento fanatico. E’ il ragazzo ad aver ucciso Txato, l’ex amico di famiglia che da piccolo gli comprava i gelati? E a mandare tutto a catafascio cos’è stata? La politica? La Storia con la maiuscola? O magari una più impalpabile invidia sociale tra vicini che covava sotto l’apparente armonia?
“Patria” pesa 650 pagine, un centinaio in meno avrebbero giovato all’insieme, però ti introduce perfettamente in quello che, benedicendo il libro, Mario Vargas Llosa ha definito El pais de los callados, Il paese delle bocche cucite. Un microcosmo spugnoso di omertà, sospetti, rancori, minacce. La vicenda si svolge in una località immaginaria che assomiglia molto alla cittadina di Hernani, feudo ultranazionalista nella Guipùzcoa. Ci sono l’incessante pioggerellina delle regioni basche; la birreria dove, orecchino e felpa con cappuccio, sbevazzano i ragazzotti pro Eta. Ci sono le retate, i brutali interrogatori della polizia. E c’è una figura di parroco nazionalista che fomenta l’odio con untuosità tutta pretesca. E’ l’unico personaggio interamente negativo in un romanzo che senza cedere all’irenismo dell’equidistanza si immerge nella complessa orologeria delle ragioni e delle sragioni di tutti.
“Qui c’è stato fascismo, o comunque lo si voglia chiamare. Ci sono stati aggressori e vittime. Qui si è fatta politica ammazzando” mi dice Aramburu tanto per cominciare. Viene da una famiglia operaia di San Sebastiàn. E’ nato nel 1959, proprio l’anno di fondazione dell’Eta. Dal 1985 vive in Germania, ma solo perché ha sposato una tedesca. A lungo ha insegnato spagnolo. Ora riesce a farcela unicamente con la scrittura. E’ un tipo barbuto, riflessivo, molto basco. Risponde alle domande scegliendo bene le parole. Mi ha dato appuntamento in un bar di San Sebastiàn dove è ambientata qualche scena del libro. “In un’intervista devo dire da che parte sto, però “Patria” non è un romanzo a tesi sulla società basca né tantomeno sul terrorismo. Mi interessano la gente, gli individui, i legami. Non volevo che i miei personaggi incarnassero delle astrazioni, che fossero dei recipienti di idee o concetti. A tutti volevo conferire spessore umano, complessità, sfumature. Anche a quelli che nella vita mi sarebbero stati più distanti”.
Hanno scritto che con “Patria” è cominciata “la sconfitta letteraria dell’Eta”. In che senso?
Nel senso che forse è iniziato il declino della letteratura favorevole all’Eta. Anche se, certo, si pubblicheranno ancora storie di eroici “muchachos” che si sono sacrificati per il loro popolo e in fondo hanno fatto quello che hanno fatto per il bene collettivo. Già lo sento il rumore delle tastiere dove si stanno scrivendo cose del genere.
Come ha reagito al libro il mai domo ambiente degli “abertzales”, gli indipendentisti radicali?
Dapprima ignorandolo. Poi, quando ha preso a vendere, ne hanno scritto. Alcuni stroncandolo, altri in modo più sfumato. D’altronde in “Patria” non si passano sotto silenzio nemmeno certe violenze della polizia. Ciò detto, le critiche negative dei radicali per me sono un onore. Mi avrebbe preoccupato molto di più se a sentirsi offesa fosse stata qualcuna delle vittime.
Un trenta per cento delle copie si è venduto nei Paesi Baschi. Però un libro così lo si sarebbe potuto scrivere quando l’Eta ammazzava?
No, perché il romanzo parte proprio da quando fu annunciata la fine della violenza. I personaggi rifanno i conti con il passato in una fase storica nella quale non ci saranno altri morti e quel passato è diventato in qualche modo oggettivabile. La cessazione degli attacchi era una condizione necessaria per raccontare questa storia. Nuovi attentati mi avrebbero costretto a reimpostare completamente il libro.
Ma lo avrebbe scritto quando l’Eta minacciava chiunque dissentisse?
Scritto sì. Pubblicato non so.
Molti suoi coetanei rimasero irretiti dal verbo dell’Eta. Che tipo di appeal sprigionava?
La propaganda era assai efficace. Ma c’era anche un fascino estetico, eroico, giovanilistico. Nelle foto che venivano esposte per chiederne la liberazione i detenuti dell’Eta apparivano sempre giovani e attraenti. Anche se nel frattempo in carcere erano ingrassati, avevano perso i capelli, si erano ammalati…
La lotta, bagno di eterna giovinezza.
Il fanatico nega il trascorrere del tempo, non vuole sentirsi passeggero, aspira all’eternità. E certe idee politiche ti promettono l’immortalità nella Storia, ti assicurano che rimarrai sempre presente, non in forma individuale, ma collettiva.
Lei come si salvò dall’ipnosi “etarra”?
Non ci sono finito dentro per varie ragioni. Innanzitutto non vivevo in un paesino come quello del romanzo ma in una città. Nei grandi centri c’è una maggiore offerta in termini di modelli di vita e di pensiero. E poi hai più posti dove rifugiarti, sfuggire al controllo sociale. Ma è stata importante anche l’educazione cristiana che ho ricevuto in famiglia. Non sono credente, però alcuni criteri morali mi vengono dalla religione. In base a quei criteri mi sembrava impossibile che ammazzando si potesse creare un mondo migliore. Un altro anticorpo sono stati i libri. Leggendo scopri che il posto dove sei nato e vivi non è per forza il centro o il migliore del mondo. A 16 anni pensavo a Dostoevskij, Dickens, Cervantes… Mica a sparare alla gente.
Però in gioventù anche lei visse la sua fase ribelle.
Nel ’78 con alcuni amici fondammo un gruppo d’avanguardia. Si chiamava Cloc. A San Sebastiàn erano anni sanguinosi. Noi reagivamo con interventi tra il poetico e l’umoristico. Sui muri cancellavamo le scritte “Viva l’Eta!” o “No Costituzione” per sostituirle con “Viva Tristan Tzara” o “Nietzsche sì!”. Una volta mandammo a “Egin”, il quotidiano pro Eta, la notizia che eravamo stati tutti assassinati. La pubblicarono. Sono orgoglioso del giovane che fui allora.
Torniamo al libro. “Patria” è dominato da figure di donne energiche. Specie le due madri. Incarnano la proverbiale cultura matriarcale del Paese Basco?
Non so fino a che punto sia vera questa faccenda del matriarcato. Però di donne come quelle raccontate nel romanzo ne ho conosciute parecchie. Erano le padrone del focolare. Detenevano il potere della parola, mentre i mariti erano uomini silenziosi, schivi. Portavano a casa lo stipendio, mangiavano e dormivano. Fuori dal territorio domestico, naturalmente, il potere delle donne finiva. Ma oggi, come in qualsiasi altro posto, anche qui le cose stanno cambiando.
Don Serapio, l’odioso prete indipendentista, è l’unico personaggio al quale il romanzo non conceda attenuanti.
E’ vero, su di lui mi sono un po’ accanito. Non tutto, ma una parte consistente del clero basco ha svolto un ruolo importante nell’indottrinamento politico. C’erano sacerdoti che raccoglievano la tassa rivoluzionaria… C’è chi sostiene che al 70% i religiosi baschi fossero nazionalisti.
“Patria” è uscito in Spagna nel settembre 2016. Da allora non smette di essere ristampato. Diventerà anche una serie televisiva e una pièce teatrale. Lei come se lo spiega questo tornado?
E’ sempre difficile capire perché un libro ha successo. Forse c’era necessità di una storia così. Finora la letteratura aveva raccontato il terrorismo dal punto di vista delle vittime o da quelli degli etarras, io ho cercato di inglobare tutti in un’unica narrazione che nell’arco di trent’anni mostrasse l’evoluzione dei personaggi. Forse con questa scelta il lettore si è sentito coinvolto, interpellato. Prima di pubblicarlo ho fatto leggere il manoscritto a uno storico, a un giornalista e anche a una vittima, che mi ha suggerito qualche cambiamento. Volevo avere la serenità che Patria non avrebbe offeso chi ha sofferto. Non me lo sarei perdonato. Oggi chi è stato colpito si dice contento che questo libro esista.
Nei giorni scorsi la Catalogna è stata sconvolta dagli attentati jihadisti, mentre si prepara a un referendum per l’indipendenza molto contestato. Come era stato accolto il suo libro da quelle parti?
Sul fronte di certa stampa nazionalista con aperta ostilità. Il romanzo non dipinge il mondo come a loro piacerebbe. Finora non c’è stata violenza separatista, ma quando in una società si accumulano troppe tensioni basta nulla per farla esplodere.
A sei anni dalla fine della lotta armata, nei Paesi Baschi sarebbe avventato parlare di pace. Tra i detenuti resistono gli irriducibili. E i pentiti che vengono scarcerati sono acclamati come eroi. Che clima si respira?
L’Eta ha iniziato a consegnare le armi. Per ora è stato un gesto soprattutto simbolico, ma i simboli non vanno sottovalutati. Per le strade la gente gira tranquilla, non si vedono più autobus bruciati, scritte aggressive sui muri… Vedremo se si tratta o meno di un processo irreversibile. C’è sempre il rischio che qualche gruppuscolo riprenda le armi per ricominciare daccapo.
Tra le richieste sulle quali i radicali continuano a battere c’è quella, annosa, del trasferimento nei Paesi Baschi dei detenuti dispersi nei penitenziari spagnoli. I tempi sono maturi per accettarla?
Dipende. Bisognerebbe valutare caso per caso. Però un gesto di generosità da parte dello Stato potrebbe facilitare la dissoluzione totale dell’Eta.
Altra richiesta, l’amnistia.
Non sono favorevole. Per le vittime sarebbe una cosa orrenda. Immagini di incrociare per strada uno che ha ammazzato suo padre… E poi in passato abbiamo avuto pessime esperienze di amnistia. Una volta fuori, molti corsero a riprendere le armi.
E’ già forte la tentazione dell’oblio?
Esistono vari tipi di oblio. Dopo la guerra, in Germania la gente voleva dimenticare semplicemente per tornare a vivere. Ricostruirsi la casa, lavorare, mettere su famiglia. Anche qui si sente il bisogno di guardare avanti. C’è poi un oblio protettivo, terapeutico. Spiegare a un figlio perché suo padre non tornerà più a casa è un problema enorme. Come fai a farlo crescere in una condizione così complicata come quella di vittima? Non puoi. Ci vuole tempo. Poi, certo, esiste anche un oblio interessato, calcolato: quello di chi ha delle colpe e vuole che rimangano sepolte.
E il perdono? E’ uno dei temi centrali del romanzo…
Il perdono non si può teorizzare. Non lo si può reclamare in piazza davanti a giornalisti e fotografi. E’ una cosa intima, privata. Sulla scena dovrebbero esserci soltanto l’aggressore e la vittima. E guardarsi fissi negli occhi.
Quante generazioni si è bevuta l’Eta?
Perlomeno tre.
Quante ce ne vorranno per uscire definitivamente da tutto questo?
Se almeno una generazione potesse crescere senza violenza, la cosa potrebbe essere più rapida di quanto pensiamo. Non creda: certe volte gli eventi storici sono fulminei. Quando cadde il Muro di Berlino io già vivevo in Germania. Fino al giorno prima mai avrei immaginato che potesse succedere.
Fernando Aramburu Marco Cicala