La notte di San Lorenzo e l’ascesi dello sguardo
Nel quotidiano “La Repubblica” di venerdì 10 agosto 2018, a pagina 33, Silvia Ronchey pubblica un suo articolo, nel quale il fenomeno delle stelle cadenti le suggerisce un viaggio dall’antica Grecia al cristianesimo.
Gennaro Cucciniello
Nel mondo cristiano la notte delle stelle cadenti è una festa della luce e una celebrazione dello sguardo. In Grecia, e in genere nel calendario ortodosso, è associata alla contigua festa della Metamorphosis, ossia della Trasfigurazione, quando Cristo sul Tabor appare ai discepoli in una mandorla accecante di luce. Un’esortazione, nell’esegesi teologica bizantina e poi russa, alla metamorfosi dello sguardo, all’esercizio di quella capacità di percepire la struttura spirituale delle cose, di intravedere, come ha scritto Pavel Florenskij, “tra le crepe del mondo sensibile l’azzurro dell’eternità”, che in altre tradizioni mistiche, come quella buddista, è chiamato appunto “retto sguardo”.
“Mea nox obscurum non habet, sed omnia in luce clarescunt”, recitano, in metrica classica, i Vespri della liturgia di San Lorenzo: “La mia notte non ha oscurità, ma tutto nella luce diventa chiaro”. Quello di Lorenzo, uno dei sette diaconi martirizzati a Roma nel Terzo secolo, secondo la leggenda agiografica è il sacrificio dei sacrifici: oltre ai tratti dell’olocausto pagano (Lorenzo fu “cotto”, arso vivo sul fuoco come un’antica hostia animale) conserva anche, nella tradizione cristiana, un elemento cannibalesco, come ricorda la frase che secondo il “De Officiis” di Ambrogio Lorenzo pronunciò durante il supplizio: “Assum est, versa et manduca”, “Questa parte è cotta, gira e mangia”.
Secondo la tradizione popolare sono le lacrime di San Lorenzo, o le scintille di fuoco sprigionate in alto dalla graticola, le scie luminose dello sciame meteorico più visibile dell’anno, che la Terra nella sua rivoluzione si trova ad attraversare tra la fine di luglio e la seconda metà di agosto, con un picco di visibilità concentrato, appunto, nella notte del 10.
In età più antica questa pioggia di luci è stata interpretata anche altrimenti. I romani le ritenevano spruzzi di bianco sperma del dio Priapo, sparsi a inseminare i campi, associati quindi alla grande festa della divinità femminile fecondatrice della terra, che cade il 15 agosto. Il radiante della pioggia meteorica, ossia il punto dal quale sembrano provenire tutte le scie, è nella costellazione di Perseo. Per questo le stelle cadenti si chiamano Perseidi, richiamando il mito antico della decapitazione della Gorgone Medusa, il cui sguardo fisso nel nostro ci impedisce di guardare rettamente il mondo, ci pietrifica e ci inocula la morte negli occhi, secondo la definizione di Jean-Pierre Vernant.
Anche nel mito greco cui gli astronomi ottocenteschi associano queste particelle siderali, rilasciate da un’antica cometa durante le sue passate orbite, si celebra dunque la liberazione dello sguardo. Che si tratti di Ulisse o del pastore errante nell’Asia, del salmista o di Elia rapito sul carro, da sempre lo sguardo umano si è diretto al cielo. Se è nell’immenso ricamo astrale che ogni sapienza antica riconosce il disegno dei suoi eventi sacri, è nel cielo stellato sopra di sé che i navigatori dei mari o dei deserti, gli ispirati o i mistici trovano la propria rotta nel mondo esteriore così come il retto orientamento interiore. Se è alla vertigine cosmica che il filosofo affida la sua visione del mondo, se oggi le luci della città oscurano il cielo, se la scienza moderna ci insegna che è di stelle morte anche da migliaia e migliaia di anni la luce che arriva allo sguardo di noi terrestri, è ancora più necessario, una volta l’anno, rivolgerlo a questo universale, letterale simbolo di caducità. Come scriveva Pascoli: “E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale,/ oh! d’un pianto di stelle lo inondi / quest’atomo opaco del Male”.
Silvia Ronchey