Meteo-Story. Così Maya, Micenei ed Egizi sono scomparsi per il troppo caldo.
Correnti oceaniche, attività solare e spostamento dell’asse terrestre hanno determinato nella storia violente variazioni climatiche. Che l’uomo non ha saputo affrontare.
Questo è un articolo scritto da Alex Saragosa e pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 7 settembre 2012, alle pp. 64-67. Oggi il tema è diventato attuale perché il cambiamento climatico si sta imponendo all’attenzione del mondo con una serie impressionante di eventi traumatici.
Nel 2005 David Zhang, dell’Università di Hong Kong, ha iniziato a studiare le relazioni fra temperature medie in Cina e frequenza delle guerre nel corso degli ultimi 1200 anni, scoprendo che nei periodi più caldi i conflitti erano molto più rari che in quelli freddi: delle 15 guerre più importanti combattute in Cina, 12 erano avvenute in periodi più freddi del normale. Zhang, successivamente, ha voluto controllare se questo fosse vero anche per l’Europa, analizzando il periodo 1400-1900, e di nuovo il rapporto è risultato valido: più freddo corrispondeva a più conflitti. Non a caso, in quell’intervallo, il periodo meno pacifico fu il XVII secolo, con l’interminabile guerra dei 30 anni, che sconvolse l’intero continente. Il XVII secolo segna anche il punto più gelido del recente clima europeo, con la cosiddetta “Piccola era glaciale”, causata probabilmente da una ridotta attività solare. Zhang spiega questo parallelo fra clima e guerra con il fatto che un clima più rigido, e in genere più secco, diminuisce la produzione di cibo. Le carestie provocano tumulti, migrazioni e rivendicazioni su territori più produttivi, che ingenerano tensioni fra le nazioni e infine guerre.
Gennaro Cucciniello
La Città era tra le più grandi del mondo e controllava la Rete, l’infrastruttura che consentiva agli abitanti di prosperare, in un territorio reso arido dal cambiamento climatico. Una burocrazia specializzata assegnava ad ognuno lavoro, tasse e risorse, ma moltitudini provenienti dai territori devastati dal cambiamento climatico premevano ai confini. Si eresse allora una barriera sorvegliata dall’esercito, lunga 180 km, per bloccare i rifugiati. Ma fu tutto inutile, l’invasione dei disperati e un clima sempre più ostile portarono al collasso la Città e di lei restò solo un vago ricordo. Una profezia sul futuro di Los Angeles o Shanghai? No, una sintesi di quanto accadde intorno al 2200 a. C. a Uruk, Mesopotamia. La grande città sumera fu cancellata da un cambiamento climatico, ma non fu l’unica: recenti ricerche scientifiche confermano che molte importanti svolte nella storia non furono solo frutto di politica, innovazioni e guerre, ma anche delle variazioni di remoti parametri fisici, come la temperatura degli oceani o l’intensità della luce solare. “Le città sumere”, conferma Brian Fagan, antropologo dell’Università della California, “nacquero a partire dal 5000 a. C., in risposta al continuo inaridirsi del clima locale, provocato da variazioni nell’orbita terrestre, che impedì ai contadini di irrigare i campi contando solo sulle piene dell’Eufrate. La popolazione si concentrò sempre di più, fino all’80%, in grandi centri urbani, le cui élite amministrative gestivano la distribuzione dell’acqua tramite una fitta rete di canali, e tenevano nota dei tributi ricevuti e delle razioni di cibo assegnate, usando una nuova invenzione, la scrittura. Ma la siccità si aggravò e, nonostante mura e soldati, i sumeri non riuscirono a fermare l’invasione di chi fuggiva dalle terre inaridite a nord. Alla fine si arrivò al collasso e delle prime città del mondo restarono solo rovine”. Fagan, che su questo tema ha scritto “La lunga estate”, pubblicato nel 2005 da Codice Edizioni, conclude: “Insomma, tre delle principali invenzioni del passato, scrittura, irrigazione e città, nacquero per far fronte a un cambiamento climatico”.
L’idea di un nesso fra storia e cambiamenti climatici venne già nel 1966 allo storico Rhys Carpenter, ma non ebbe molto seguito, per la difficoltà di determinare con certezza il paleoclima. Oggi, però, grazie a tecniche come l’esame dei pollini nei sedimenti, la misura degli anelli degli alberi o l’analisi di polveri e gas nei ghiacci di Groenlandia e Antartide, i legami tra svolte storiche e climatiche sono ormai indiscutibili. Così Christopher Bernhardt e colleghi dello US Geological Survey hanno annunciato ad agosto che negli strati dei sedimenti del delta del Nilo esistono vari intervalli privi di pollini di piante palustri, e ricchi invece di cenere e carbone da incendi. Uno di questi periodi aridi risale a 4200 anni fa e coincide non solo con la caduta di Ur, ma anche con la fine dell’Antico Regno egiziano, quello dei costruttori di piramidi. A precipitarlo nel caos non fu quindi solo una crisi politica, ma anche ambientale e culturale. “I faraoni del Regno Antico”, dice Fagan, “erano considerati divinità, che garantivano le piene del Nilo e la fertilità dei suoli. Quando queste vennero a mancare, il popolo perse ogni fiducia in loro e lo Stato unitario crollò”. Negli strati del delta del Nilo è stato evidenziato anche un altro periodo di siccità estrema, intorno al 1200 a. C. In quel periodo scomparve misteriosamente la civiltà micenea, quella dei conquistatori di Troia, colpita da un collasso tanto estremo che, quando la Grecia si riprese, 400 anni dopo, la sua scrittura era dimenticata e i suoi re guerrieri erano diventati leggenda. E nello stesso periodo crollò anche il potente regno Ittita, il cui ultimo messaggio al regno di Ugarit implorava l’invio di carichi di grano. Ma anche Ugarit ebbe i suoi problemi in quello stesso periodo: orde di misteriosi “popoli del mare” l’attaccarono per saccheggiarla, così come, poco dopo, assaltarono l’Egitto, che solo a stento li respinse. “Tutto fa pensare che questi “popoli del mare” non fossero altro che gente scacciata da terre afflitte dalla carestia”.
Qualcosa di simile avvenne alla fine dell’Impero Romano. L’espansione verso nord dei romani fu favorita, dal 300 a.C., da un lungo periodo di clima caldo e stabile, che portò a coltivare la vite fino in Inghilterra. Il surplus alimentare permise di mantenere grandi popolazioni urbane e un forte esercito. Dal 300 d.C. il clima diventò invece sempre più variabile, freddo e secco, e questo portò a un calo della produzione alimentare, e spinse i popoli delle steppe asiatiche a cercare cibo e terre verso ovest, travolgendo gli ormai fragili confini imperiali. Il clima tornò a scaldarsi fra il 900 e il 1300, aiutando l’Europa a uscire dal Medioevo. Ma mentre da noi si erigevano cattedrali per ringraziare Dio dei raccolti, dall’altra parte dell’Atlantico fu la catastrofe.
“I Maya occupavano un territorio semiarido e poco fertile e, un po’ come gli egizi, erano dominati da re-semidei che garantivano le piogge, offrendo alle divinità continui sacrifici umani. La variazione nelle correnti oceaniche, che dall’anno 900 donò un clima ideale all’Europa, provocò invece siccità nelle Americhe”. Il calo delle piogge nelle terre Maya all’inizio fu solo di circa il 15%, secondo una ricerca pubblicata ad agosto da Benjamin Cook, climatologo della Columbia University, ma per mantenere la loro sovrabbondante popolazione, dieci milioni di persone, le città furono costrette a estendere i campi, tagliando le foreste. In assenza dell’evaporazione dagli alberi, la piovosità diminuì ancora, innescando il crollo della civiltà maya.
Oggi il mondo si trova nuovamente alle prese con un cambiamento climatico, e viene da chiedersi se quanto avvenuto in passato si possa ripetere. “Nell’antichità bastavano pochi anni di freddo o secco maggiori del solito per causare un collasso, perché le riserve di cibo erano scarse e i trasporti lenti e costosi. Oggi tecnologia e alta produttività agricola permettono di compensare i problemi climatici di breve durata in un’area con il commercio e gli aiuti internazionali. Ma non ci illudiamo di essere al sicuro, la nostra società è ancora terribilmente vulnerabile”. Ogni anno ci sono 70 milioni di persone in più da sfamare e da circa un decennio ripetute ondate di siccità colpiscono aree fertili in Australia, Russia, Usa, intaccando produzione e scorte. “Studiando il passato si nota una costante”, conclude Fagan, “nei periodi di clima favorevole ci si illude che durino per sempre e si lascia crescere la popolazione, portando lo sfruttamento ambientale a una soglia pericolosa. Solo quando il clima peggiora si tenta di rimediare, ma aumentando ancora la pressione su campi, foreste, pascoli e mari, finendo così pere accelerare il collasso. Poche civiltà, penso ai Chimu del Perù o al Giappone del XVII-XIX secolo, riuscirono a trovare un giusto equilibrio fra uso e conservazione delle risorse, superando così periodi di clima ostile”.
Alex Saragosa