Carlo Ginzburg, storico d’azzardo
In occasione di un premio alla carriera, il grande studioso si racconta: la famiglia, l’università, le streghe, gli inquisitori. E una disciplina interpretata come scommessa
Pubblico sul Sito l’intervista che Simonetta Fiori ha fatto a Carlo Ginzburg ed uscita nel “Venerdì” di “Repubblica” il 25 novembre 2016.
Bologna. A casa di Carlo Ginzburg l’unico tavolo sgombro dai libri è in cucina. E non potrebbe esserci luogo simbolico più adatto per intervistare lo studioso di Menichino e di Menocchio, l’autore di Il formaggio e i vermi, tradotto in ventisei lingue, lo storico italiano più conosciuto nel mondo grazie alle sue ricerche di microstoria su bovari, mugnai, contadini accusati di eresia o di stregoneria. Aveva 27 anni quando uscì “I Benandanti”, un libro rivoluzionario per la storiografia dell’epoca. Da allora è passato mezzo secolo, ma su quel primo lavoro Ginzburg non smette di interrogarsi. Come l’inizio di una partita a scacchi non ancora finita. Il caso e i casi, il gioco e l’azzardo. Il coinvolgimento emotivo e la distanza intellettuale. L’officina d’uno storico –ora insignito del premio Sila per il complesso della sua carriera- può diventare una Wunderkammer dove imbattersi in culture e discipline diverse, in streghe e stregoni, in sciamani siberiani e lupi mannari, in dee dalla mano pelosa e in avvocati del diavolo. Sempre restando nella cucina della casa bolognese vicina alle torri. Sotto lo sguardo sorridente della madre Natalia ritratta in una foto in bianco e nero.
Professor Ginzburg, lei ha scritto che la sua decisione di diventare uno storico fu improvvisa.
Sì, avevo vent’anni. Mi trovavo nella biblioteca della Scuola Normale a Pisa e decisi tre cose: che volevo fare lo storico; che volevo studiare i processi di stregoneria; e che volevo studiare non i meccanismi di persecuzione ma i perseguitati.
Quale fu la scintilla?
La lettura de “I re taumaturghi” di Marc Bloch: mi fece capire che i libri di storia potevano essere qualcosa che io non sospettavo.
Che cosa?
Fui colpito da una sorta di doppia mossa da parte di Bloch. Da un lato c’era la demistificazione d’una leggenda: il potere di curare con il tocco della mano i malati di scrofola, attribuito per un lunghissimo periodo ai sovrani di Francia e d’Inghilterra. Ma dall’altro c’era il tentativo di capire che cosa spingesse i malati a intraprendere viaggi lunghi e difficili.
E in che modo questa ambivalenza l’ha formata?
La ritrovo nel mio modo di studiare lungo gli anni i processi di stregoneria. Prima è scattata una sorta di identificazione emotiva con le vittime; più tardi avrei scoperto una inquietante contiguità intellettuale con gli inquisitori.
Ne ha anche scritto in “L’inquisitore come antropologo”.
Quando ho cominciato a lavorare sulle vittime mi sono trovato davanti a un paradosso: potevo farlo solo attraverso gli archivi della repressione. Dovevo imparare a leggere quei documenti contro le intenzioni di chi li aveva prodotti. Ma poi mi resi conto che in molti casi c’era, da parte degli inquisitori, una straordinaria attenzione nei confronti delle testimonianze degli imputati. Proprio come fa uno storico.
Lei inizialmente si era identificato nelle vittime. Ma c’è una relazione tra questo e la sua identità di ebreo scaturita dalla persecuzione?
Sì, certamente. Ma la cosa che mi colpisce retrospettivamente è che per molti anni di questa relazione non mi sono reso conto. Mi è capitato di parlarne a Gerusalemme suscitando un senso di incredulità: ma come è possibile? Da lettore di Freud rispondo che la rimozione è una forza potentissima. E sono portato a pensare che la rimozione delle radici soggettive della mia ricerca avesse uno scopo inconscio: far lavorare meglio l’analogia. Penso che Freud mi darebbe ragione; ma capisco che non basta.
Forse questa sua ambivalenza tra vittime e inquisitori deriva anche dalla sua storia personale: lei nasce in una famiglia segnata dalla persecuzione –suo padre Leone è morto in carcere da oppositore antifascista- e allo stesso tempo culturalmente privilegiata.
Può darsi. Ma penso di essermi reso conto pienamente del mio privilegio solo quando sono entrato alla Scuola Normale: un ambiente socialmente variegato che mi ha insegnato moltissimo.
Quando suo padre è morto lei aveva cinque anni. Ha dei ricordi?
Sì, molto vividi.
Vuole parlarne?
No.
Ci sono state altre figure paterne, in qualche modo sostitutive?
Mio padre non è mai stato sostituito.
Una relazione nutrita dall’assenza.
Un’assenza che si è tradotta in una presenza molto forte.
Quando ha capito chi era suo padre?
Non l’ho capito ancora. E’ un processo di conoscenza e di approfondimento che continua.
Sua madre Natalia che ruolo ha avuto? L’ha influenzata anche nella scoperta del potenziale narrativo della storiografia?
E’ stata una figura fondamentale. Ed è possibile che io abbia scoperto qualcosa che è patrimonio comune –la dimensione narrativa della ricerca storica- grazie a questa radice personale. Ho un ricordo molto nitido di quando ero bambino, e camminavo con mia madre per le strade di Torino. A un tratto mia madre mi raccontò d’un libro che parlava di qualcuno che si svegliava trasformato in un insetto. Quando, anni dopo, lessi La Metamorfosi di Kafka mi tornò in mente quel momento.
Si ricorda quando ha letto “Lessico famigliare”?
Mia madre me lo fece leggere mentre lo stava scrivendo, un capitoletto per volta, proprio come un feuilleton. Non era mai successo, non successe mai più. Ero sbalordito, commosso e divertito. E allo stesso tempo mi chiedevo, ma credo di non averglielo detto: a chi può interessare questa storia? Fui un pessimo profeta.
Quanto ha contato tutto questo nella sua esperienza?
Oggi prevale la consapevolezza del privilegio. Penso di dover trasmettere i risultati della mia ricerca. Ma devo dire che l’impulso a comunicare viene prima.
La ricerca ha una radice sentimentale?
Diciamo emotiva. Senza questa dimensione emotiva la ricerca sarebbe impossibile. O forse sarebbe possibile, ma si risolverebbe in un gioco sterile. Ma questa dimensione emotiva, passionale, non basta. Dobbiamo riuscire a vedere una realtà che in molti casi contraddice le nostre aspettative, i nostri desideri. Uno dei miei personaggi preferiti è l’avvocato del diavolo, figura usata nei processi di canonizzazione: è quella che poneva domande imbarazzanti ai sostenitori della beatificazione. Chi fa ricerca deve introiettare la figura dell’avvocato del diavolo. Lo dico sempre, ma non sempre ci sono riuscito.
Una scintilla emotiva dà origine al suo primo lavoro importante: l’incontro con Menichino, il bovaro di Latisana che le rivela l’esistenza dei “benandanti”.
Sì, negli anni sono tornato ossessivamente su quel primo incontro, chiedendomi perché avessi reagito in quel modo.
Come reagì?
Avevo cominciato un giro degli archivi italiani alla ricerca di processi di stregoneria. E nell’Archivio di Stato di Venezia giocai quella che definii retrospettivamente una roulette veneziana. Entravo la mattina in archivio e chiedevo a caso alcuni fascicoli dal Fondo, ricchissimo, del Sant’Uffizio. Un giorno mi imbattei in poche pagine dove un bovaro friulano, Menichino da Latisana, racconta all’inquisitore chi sono i benandanti. Era una parola che non avevo mai incontrato prima: siamo benandanti, diceva Menichino, siamo nati con la camicia, tre volte all’anno ci rechiamo in spirito nel prato di Josafat, a lottare con le streghe e gli stregoni per la fertilità dei campi… Provai un’emozione fortissima. Era –penso oggi- come sbarcare sulla Luna.
Cosa fece?
Chiusi il fascicolo e andai fuori a fumare. Cominciai a passeggiare lungo la chiesa dei Frari, accanto all’archivio. Un posto meraviglioso. Mi pareva di aver fatto una scoperta straordinaria.
Quel libro fu rivoluzionario nei contenuti –trattava un tema appannaggio dell’antropologia- e anche nel metodo. Ma è tutto cominciato per caso?
Caso è una parola che uso spesso, per definire la disponibilità ad accettare l’imprevisto. Ma col passare degli anni si è sviluppato in me anche l’impulso a produrre il caso. Di solito usiamo i cataloghi delle biblioteche o degli archivi per trovare quello che stiamo cercando: ma è possibile usarli anche per trovare l’ignoto, qualcosa di cui non sospettiamo l’esistenza. Si digita una parola e si sta a vedere che cosa esce fuori. E se ci imbattiamo in un titolo ignoto e promettente dobbiamo andare a cercare il libro, magari rileggerlo chissà quante volte. Alla scintilla che in certi casi dà il via alla ricerca deve seguire la filologia: l’arte di leggere lentamente, come la definì Nietzsche.
Quindi nella sua ricerca c’è una componente di azzardo.
Non c’è dubbio. Non sono uno storico dell’arte ma sono affascinato dalla connoisseurship: l’attribuzione di un’opera d’arte, basata, spesso, su elementi esclusivamente formali. E ho una straordinaria ammirazione per Roberto Longhi. Il fatto che fosse un giocatore d’azzardo forse non era casuale. Devo dire che ho provato due volte a giocare alla roulette, vincendo sempre: cosa che mi ha terrorizzato.
Perché?
Ho capito che il gioco d’azzardo era una tentazione tremenda. Mi è accaduto la prima volta a Las Vegas, puntando pochi gettoni sul 17. Qualche anno dopo lo rifeci a Bad Homburg, il luogo del “Giocatore” di Dostoevskij. Puntai ancora sul 17 e vinsi due volte. E allora capii che in me c’è un giocatore d’azzardo potenziale.
Quindi l’azzardo è necessario?
Francesco Orlando, grande studioso e mio carissimo amico, diceva, col suo indimenticabile accento palermitano, che in tutte le università italiane andrebbe messa una lastra di marmo con su scritto in lettere d’oro: “Chi non rrisica non rrosica”. Nella ricerca il rischio è necessario, anche se certo non sufficiente. Ma chi non è disposto a rischiare troverà tutt’al più quello che cerca. Non è un gran risultato.
Lei si definirebbe un irregolare?
E’ una definizione in cui non mi riconosco. Direi piuttosto che ho un impulso molto forte a lavorare su temi intorno ai quali non so nulla; anche se poi, retrospettivamente, mi pare di vedere una coerenza sotterranea tra le mie ricerche. Ma forse mi illudo. Certo sono attratto dal potere conoscitivo delle anomalie. Le anomalie sono più ricche della norma perché la implicano, mentre la norma non può prevedere le anomalie.
L’elemento del gioco ritorna nella metafora degli scacchi, con cui lei rappresenta il complesso della sua ricerca. Qual è il finale di partita ovvero il senso di tutto questo?
Ogni ricercatore gioca una partita limitata, ma cerca di stabilire un dialogo con altri giocatori. Ma la realtà è inesauribile. Bisogna sforzarsi di conoscerla in modo sempre più approfondito, anche se inevitabilmente limitato. La ricerca è ricerca della verità: una verità umana, quindi confutabile.
Professor Ginzburg, lei ha mai frequentato lo studio di un analista?
No, mai. Forse ne ho avuto paura. L’unica volta che ne sono stato tentato, mi sono seduto sulla sedia dello psicoanalista. E la cosa è finita lì.
Simonetta Fiori