La bara vuota di Totò
A 50 anni dalla morte. Era così amato dal pubblico che gli fecero tre funerali. L’ultimo, nel suo rione Sanità a Napoli, fu un bagno di popolo. Ma nel feretro lui non c’era. Ad organizzare fu un guappo.
Il 15 aprile 1967, in seguito ad un infarto, moriva a Roma, a 69 anni, Totò. Nell’occasione dell’anniversario il “Venerdì di Repubblica” del 7 aprile 2017, alle pp. 16-25, ha pubblicato articoli di Angelo Carotenuto, Paola Zanuttini e un’analisi di Goffredo Fofi. Riporto quest’ultima.
Gennaro Cucciniello
La maschera che ci ha presi per fame
E’ stato indubbiamente l’attore (in cinema) di maggior durata, il solo tra gli attori del Novecento a oltrepassare il suo tempo e a parlare, peraltro in modi diversi e ancora da indagare, al mutare del gusto e all’avvicendarsi delle generazioni. Gli altri, anche i più grandi –la Magnani e Fabrizi, la Valli e Nazzari, Sordi e la Loren, la Mangano e Mastroianni, Gassman e Tognazzi- hanno avuto i loro momenti di gloria, ma sono oggi, perfino Sordi che fu il più grande dopo Totò, monumenti allo ieri, hanno perso attualità e importanza. Il mondo cambia e li lascia da parte, così come fa con i politici e i “grandi” giornalisti, ma non con i veri scrittori, con i veri artisti.
Totò è cresciuto sotto il fascismo, è esploso nel dopoguerra e negli anni della Ricostruzione, si è adattato al boom e alla modernità, ma la sua fama si è assopita negli anni-berlusconiani, quando però, diceva Paolo Volponi, grazie alla televisione era diventato il nostro grillo del focolare, un folletto bizzarro che teneva compagnia assai più dei battutisti da cabaret, conformisti rispetto all’epoca anche quando si volevano alternativi. Era scomparsa un’identità nazionale, proiettata bensì nel benessere e nel sogno di una civiltà migliore, un’identità culturale con le sue radici e con la sua storia, con i suoi contadini artigiani impiegati operai, con i suoi modelli famigliari culturali sociali, con le sue differenze e con le sue somiglianze. Sembrò per un tempo, e Pasolini se ne avvide con più angoscia di tutti, che a vincere fosse una monocultura di stampo televisivo, ma ci accorgemmo ben presto che certe radici resistevano, anche se con fatica, all’omologazione, anche se non sempre si trattava delle radici più sane. La ricezione di Totò era cambiata e ci si chiede oggi se, nel nuovo disordine, e ancora grazie alla televisione e non certo al grande vuoto di intelligenza che lo caratterizza, in un’epoca che è giusto definire post-moderna, Totò possa ancora parlare a un pubblico di massa, anche se avrebbe tutti i numeri per riuscirvi. Per quasi un secolo Totò ha saputo dialogare con gli italiani poveri e meno poveri, attraversando il fascismo e il secondo dopoguerra, la ricostruzione e il miracolo economico, il ’68 e, post mortem, il ’77, spingendosi fino all’alba del Duemila e continuando sempre a divertire anche se non più a sbalordire.
Cresciuto nella patria delle atellane e di Pulcinella, dei vicoli e del contado della grande città di mare segnata dall’incultura borbonica e da una borghesia di fiacco respiro, la cultura di Totò era quella degli analfabeti e dei senza-storia, quella del teatro e quella della canzone, di arti che non hanno bisogno, per venire esercitate, di un testo scritto, neanche la canzone. Totò ha sempre detto di aver avuto come sue maestre la fame e la curiosità. Per la seconda, all’origine dei suoi personaggi ci fu la tradizione del “mamo”, soprattutto in teatro, negli avanspettacoli degli anni Trenta e nelle grandi riviste del tempo di guerra scritte per lui e su di lui da Michele Galdieri, nelle quali ebbe come partner d’eccezione, come spalla sublime e alla sua altezza, Anna Magnani. Il mamo è lo stordito, l’ingenuo, il nuovo al mondo, il venuto da un altro pianeta, il Tarzan strappato alla sua giungla, l’Aligi che si risveglia da un sonno secolare nella Roma della guerra, il Pinocchio plasmato nel legno da qualche Geppetto che non sa o che rifiuta le regole della società e dell’educazione, la marionetta disarticolata e metafisica ribelle finanche all’ordine della natura e che, anche per questo, non conoscendo del mondo gli usi e i costumi e nemmeno la legge di gravità, diventa un disturbatore della quiete, un anarchico per spinta intima e vocazione irriflessa, un rompiscatole aggressivo che non tiene a freno la sua carica vitale, gli istinti. E’ una forza della tradizione e una riserva e una miniera del più antico artigianato teatrale che si adatta a nuove situazioni allo stesso modo di Pulcinella, e come lui (e come i comici più grandi) è figura unica e riconoscibile di tante trasformazioni, può fare mille mestieri, essere sottoproletario e proletario o piccolo borghese insicuro della propria condizione, uno che non sa bene chi è ed è da questo che viene il suo ossessivo “lei non sa chi sono io!”.
Curiosità e fame sono le molle del suo agire comico. L’una è la sorpresa del mamo di fronte alle regole della società, la sua incapacità di rispettarle, la sua voluttà nel metterle in causa. E l’altra va intesa nell’accezione più concreta come in quella più astratta. La più concreta: fame di cibo, di sesso, di spazio, di riconoscimento; la più astratta: smania di superamento dei limiti dell’umano, di sconfitta delle regole della fisica, di alterità metafisica, dettata da un’ansia di oltre e di altro.
Su questo non si finirà mai di ammirare la sua intelligenza, legandone le espressioni a una tradizione precisa, diversa dalla nostra e caratterizzata dall’arcaismo della maschera come dalla modernità storica, che lo ha poi spinto a fondere, con qualche difficoltà, maschera e personaggio. Il dubbio è se possa ancora parlare alla nostra disastrosa post-modernità. Potrebbe, certo, perché la lotta per la vita s’è fatta oggi dura come in passato, e diversamente dal passato concede ben poche speranze nel futuro per vastissimi strati della popolazione mondiale, anche se in Italia le astuzie della comunicazione impediscono ai più di rendersene conto (di rendersi conto, in sostanza, di come veniamo fregati). C’era infinitamente più chiarezza ieri, tra i poveri e gli oppressi, di quanta non ce ne sia oggi. Staremo a vedere.
Certamente la sua parte Totò l’ha fatta bene come pochi, e per esempio è stato con Carmelo Bene, Eduardo De Filippo, Raffaele Viviani e Luigi Pirandello il più grande uomo di teatro del Novecento, con la differenza di aver lavorato sull’istinto più che sulle teorie, su una poetica non scritta ma certamente molto ragionata.
Non ho conosciuto Totò –per mia colpa: avevo un appuntamento per intervistarlo, ma preferii correre a una delle prime manifestazioni italiane contro la guerra del Vietnam e lui non volle rinnovarmelo- e l’ho visto solo da lontano e solo una volta mentre girava in una notte romana dalle parti di Campo de’ Fiori una scena di Risate di gioia insieme alla Magnani, ma ho interrogato sulla sua arte diversi dei suoi registi, sceneggiatori, colleghi: tra gli altri, Mario Monicelli e Mario Mattoli, Isa Barzizza e Laura Betti, Age e Scarpelli, Pasolini e Ninetto Davoli, e Franca Faldini, sua compagna per tanti anni. E tutti hanno insistito sulla sua doppia natura di principe e di povero, sul suo “lei non sa chi sono io” ma anche sulla trascinante vis comica per cui l’attore, anzi il guitto, il comico, prendeva il sopravvento sul nobiluomo non appena le luci della ribalta o quelle degli studi cinematografici si accendevano, non appena il sipario si alzava o il ciacchista annunciava una ripresa. Sono cresciuto, per collocazione di classe, a forti dosi di Totò e cinema popolare, l’ho amato sin da bambino, anche perché lo amavano gli adulti che mi circondavano e ho scritto di lui quando quasi tutti i critici ne condannavano la “volgarità”, irritati dall’amore che gli portavano masse e masse di spettatori. Sarebbe bello potesse oggi esserci per lui un nuovo pubblico, più vicino, grazie alla crisi e al disordine nuovo di questi anni post-moderni, a quello che lui ha conosciuto e che seppe amarlo e capirlo.
Goffredo Fofi