Odontoiatria: quanto dolore per un sorriso
Lo storico inglese Richard Barnett racconta il cammino culturale ed “emotivo” dell’odontoiatria. Tra dentiere in legno e cavadenti da circo. Fino alla prima, provvidenziale, anestesia.
Questo è il testo dell’articolo scritto da Giulia Villoresi e pubblicato nel numero del “Venerdì di Repubblica” del 31 marzo 2017, alle pp. 62-65.
La strada che porta all’odontoiatria moderna è lastricata di cattive intenzioni, colpi di genio e truffe, suicidi e omicidi commessi per via di un brevetto. E’ uno tra i soggetti più affascinanti, e cruciali, nell’evoluzione della scienza medica, della nostra cultura estetica, igienica e alimentare. Eppure, gli storici della medicina non se ne sono mai interessati granché. Salvo poi –è il caso di Richard Barnett, docente di Storia della scienza a Cambridge e all’University College di Londra- sviscerarne tutto il potenziale narrativo in un memoir di poco più di 250 pagine, molte delle quali occupate da illustrazioni: s’intitola “Il sorriso rubato. Storia nobile (e atroce) dell’odontoiatria” ed esce in questi giorni nel Regno Unito e in Italia per Logos Edizioni (25 euro). “Questo libro”, spiega Barnett, “è il terzo di una serie in cui ho esplorato l’incredibile e ricchissima collezione di immagini storiche della Wellcome Library di Londra. Il primo, “The Sick Rose”, è dedicato alla storia delle malattie; il secondo, “Crucial Interventions”, alla rivoluzione chirurgica dell’Ottocento. Stavolta ho voluto affrontare un soggetto più intimo e sgradevole. Sul quale, peraltro, hanno scritto quasi solo dentisti, con un approccio eminentemente tecnico. Ho cercato di tracciare una storia culturale ed “emotiva” dell’odontoiatria, in parte ispirata al bellissimo lavoro dello storico Colin Jones, che in “The smile revolution” ha mostrato le affascinanti connessioni tra odontoiatria, alta società, arte e politica a cavallo della Rivoluzione francese”.
Barnett ci offre l’immagine di una scienza sempre in bilico tra cosmesi e medicina, impostura e progresso, rimedio e tortura. Perché l’odontoiatria diventi una disciplina preventiva bisogna attendere l’Ottocento. Cosa facevano i dentisti prima di allora? Per capirlo, correggete le immagini dei faraoni, dei monarchi e delle dame che popolano le nostre fantasie sul passato: gli aristocratici egizi erano pieni di ascessi; la regina Elisabetta I aveva tutti i denti neri e al Re Sole, intorno ai 40 anni, non ne restava in bocca neanche uno. La ragione è che nell’antichità, e per tutta l’era moderna, la perdita dei denti era considerata parte dell’ineluttabile ed inesorabile processo di invecchiamento.
Dalla civiltà etrusca e romana ci giungono ponti e dentiere in avorio o in legno di bosso, ma per lo più i trattati di medicina prescrivono rassegnazione e terapie del dolore. La bocca è pertinenza del cavadenti. Cerusico, mercante, saltimbanco, opera nei giardini pubblici o durante le fiere, spesso accompagnato da ballerine e scimmie ammaestrate, con esiti non sempre risolutivi. Talvolta letali. Sarà il secolo dei Lumi –con il suo riguardo per il corpo- ad ammodernare questo personaggio rabelaisiano. Il cavadenti comincia ad autodefinirsi dentiste (alla francese) e a sperimentare nuove tecniche; si ricava, a poco a poco, una nicchia nel mercato sanitario. Nasce l’odontoiatria preventiva (che all’estrazione preferisce, ove possibile, il salvataggio del dente) e arrivano le prime dentiere realistiche, in avorio o in osso. Da qui alla celebre dentiera di George Washington –con una filiera di denti umani e molari di alce- il passo è breve. Ma sarà l’anestesia a dare una vera identità professionale alla categoria. Pare che la prima evidenza sull’effetto narcotico del protossido di azoto (gas esilarante) la si debba proprio a un mal di denti: nell’agosto del 1799 il chimico inglese Humphry Davy, tormentato dai denti del giudizio, decise di inalare tre dosi di un gas su cui stava conducendo degli esperimenti. Per qualche minuto il dolore sparì.
Cinquant’anni dopo comparivano i primi anestetici generici. Non nei laboratori di medicina, ma negli studi dei dentisti americani. E siamo così giunti all’odontoiatria moderna. Alle otturazioni indolori, alla poltrona reclinabile, alla licenza appesa al muro. Altro che regina Elisabetta: la nuova odontoiatria inaugura “il culto del sorriso”. Il percorso non è stato privo di vittime: il dentista Horace Wells, autore della prima estrazione sotto anestesia di cui si abbia notizia (1844), cadde in disgrazia dopo aver fallito una dimostrazione sugli effetti del gas esilarante (fece l’errore di usare una dose troppo leggera); morirà suicida in carcere. Josiah Bacon, americano che gestiva i brevetti della vulcanizzazione della gomma, utile per realizzare dentiere mimetiche e precise, a furia di far causa ai dentisti che se ne servivano senza pagare i diritti fu ucciso da uno di questi, in un albergo di San Francisco. E l’elenco delle vittime sarebbe infinito, se contassimo i pazienti periti o deturpati quando l’arte era ancora in cerca di se stessa.
“Eppure”, dice Barnett, “se pensiamo alla storia della medicina in termini di progresso umanitario, è difficile trovare una disciplina più significativa, visto l’impulso che ha dato agli anestetici. E non si tratta solo di questo. Nel Settecento il filosofo svizzero Johann Lavater sosteneva che una bocca sana annuncia un cuore onesto, mentre i denti marci indicano infermità o sentimenti ignobili. Ora, a prescindere dalla pretesa di dedurre il carattere dai denti, Lavater ci ricorda che l’odontoiatria non è mai stata solo questione di denti. Ripercorrerne la storia significa seguire l’evoluzione della moda, dell’alimentazione e delle idee di bellezza e sofferenza”.
Resta ancora da capire perché il dentista continua a farci tanta paura. “Testa e bocca vengono percepite come centrali nel nostro senso del sé. Il dolore che rimbomba nel cranio sembra troppo vicino al centro della nostra personalità. E usiamo la bocca per attività talmente intime che permettere a un estraneo di violarla ci fa sentire terribilmente vulnerabili”.
Giulia Villoresi