Questo è il testo dell’articolo con il quale ho commentato l’esperienza di insegnamento della Storia nei corsi sperimentali dell’Istituto “L. Stefanini” di Venezia-Mestre e che è stato pubblicato, nell’aprile 1996, nel volume “Vent’anni di sperimentazione: verso dove? (1975-95)”, Venezia, Supernova, pp. 65-88.
“LA STORIA, LE STORIE”
Tra autonomia disciplinare e ricerca pluridisciplinare
Problemi di teoria, note di metodo, esempi di didattica
GLI OBIETTIVI FORMATIVI.
1-A I pre-requisiti intenzionali e reali.
Definire gli obiettivi del biennio ci portò fin da subito a fare i conti con i traguardi formativi della scuola di base (standard di conoscenze e di abilità): da un lato con quelli reali -le “concrete” capacità di una classe di un anno scolastico-, dall’altro con quelli definiti dai nuovi programmi della scuola media (legge n. 348 del 19777). Le premesse a queste nuove linee programmatiche esplicitamente individuavano le finalità dell’insegnamento della storia nel “condurre gli alunni sia a percepire lo spessore temporale sia a rendersi conto di come l’esercizio della memoria collettiva obbedisca a regole che garantiscono la genuinità dell’operazione e la rendono verificabile“; e, ancora, “a proporsi di far comprendere che l’esperienza del ricordare è un momento essenziale non solo dell’agire quotidiano del singolo individuo, ma anche della vita della comunità (locale, regionale, nazionale, europea, umana) cui l’individuo stesso appartiene”. Per conseguire, infine, un nuovo ”senso della storia” si sollecitava “una impostazione dello studio come ricerca, si richiedevano il riferimento e la consultazione di fonti, la formulazione di ipotesi, la selezione di dati, l’analisi di documenti anche non scritti, l’individuazione di raccordi con altri fatti contemporanei e passati, e una trattazione globale di ciascun periodo attraverso una conoscenza essenziale degli avvenimenti significativi sia nella dimensione politico-istituzionale e socio-economica, sia in quella specificatamente culturale“. Pur tenendo in debito conto lo scarto tra le enunciazioni programmatiche e la loro traduzione pratica le citazioni riportate dimostrano che una scuola dell’obbligo efficiente potrebbe garantire una rinnovata e qualificata base di partenza per la scuola superiore, sia in fatto di consapevolezza che di strumentazione.
Ma intanto c’era da accertare il livello di preparazione degli studenti iscritti: un’iniziale e puntigliosa verifica delle condizioni di partenza per adeguare e dimensionare alle classi il progetto di lavoro. Quali le carenze più vistose e gli errori più frequenti che abbiamo riscontrato fin dai primi anni? a- nella ricostruzione d’un fatto non c”era l’abitudine a presentarne le cause, a descriverne le caratteristiche salienti, a precisarne le conseguenze, a cogliere i dati centrali dell’avvenimento. b- era quasi sempre trascurata l’analisi attenta del testo e questo naturalmente facilitava la dispersione dell’attenzione su aspetti non essenziali; non solo era assente la critica della fonte documentaria ma c’era spesso l’assoluta inconsapevolezza della relatività dell’informazione; di qui la facilità con cui gli studenti si abbandonavano ad affermazioni del tutto infondate e ingiustificate. c- ne conseguivano la visione statica e non processuale dei fenomeni, con una conseguente incapacità a cogliere e dedurre concatenazioni logiche e connessioni spazio-temporali, l’approssimazione e la confusione interpretative, spessissimo la parzialità della comprensione. d- i ragazzi erano inclini alla facile psicologizzazione personale d’una realtà oggettiva, alla assolutizzazione d’un fattore e quindi alla semplificazione riduttiva e alla deformazione. e- c’era un’impreparazione nella comprensione lessicale e linguistica non solo delle fonti d’epoca (e nel nostro caso si trattava di Otto e Novecento) ma anche di pagine di storici contemporanei, pure in versione divulgativa. f- si constatava in generale una troppo breve capacità di concentrazione.
Il quadro, pero, non era così compattamente ed omogeneamente negativo. Avevamo notato anche caratteristiche nettamente positive quali: – accuratezza nel lavoro, prontezza d’intuito, acuta perspicacia; – relativa sicurezza d’orientamento nell’individuazione del materiale, disinvolta rapidità nella consultazione; – chiarezza e ordine nell’esposizione, ragionamento logico, formulazione di ipotesi intelligenti con i dati di cui si disponeva, una certa sistematicità di elaborazione.
1-B La tassonomia di abilità, competenze, operazioni.
Il punto davvero importante era che il biennio, pur raccordandosi ai traguardi formativi della scuola di base, segnasse un salto di qualità nello studio della storia. Ed allora gli obiettivi che potevamo indicare erano per intanto il rovesciamento in positivo delle carenze e degli errori registrati precedentemente, ed in particolare: a- preliminarmente abituare gli studenti a chiedersi il perché di ogni avvenimento e, nella ricostruzione d’un fatto, sviluppare l’attenzione a presentarne cause, caratteristiche, conseguenze, sia sul piano spazio-temporale che della dinamicità dei processi; b- sviluppare l’analisi attenta del testo e il controllo della fonte documentaria. Insegnare a leggere, capire, discutere una pagina. Saper selezionare il cumulo di notizie in ordine alla priorità dei temi prescelti; saper criticare le informazioni raccolte; c- era poi necessario curare in modo particolare l’attrezzatura linguistico-concettuale, proprio perché il sistema di riferimento degli studenti s’era mosso fino ad allora nell’area dell’immediata soggettività, aveva favorito l’indeterminatezza nell’uso delle categorie collettive, aveva reso difficile l’individuazione dei nessi oggettivi tra i fenomeni; d- allenare gli studenti a reperire e a comprendere i materiali di lavoro interessanti quanto la pagina scritta (dal paesaggio agrario agli strumenti di produzione, dalle vie di comunicazione ai prodotti audiovisivi), ad avviare ricerche iconografiche, a tabulare dati, a interpretare e comporre statistiche, a cartografare; e- stimolare, nell’interpretazione storica, la capacità di controllo di possibili varianti analitiche, facendo introdurre anche eventuali supposizioni personali, evitando però gli errori marchiani di soggettivismo gratuito prima citati. Nel novembre del l986, preparando i materiali che lo “Stefanini” avrebbe presentato al “Convegno sul Biennio” -organizzato dal Comitato di Coordinamento delle scuole sperimentali e svoltosi a Milano-, precisammo una “tavola degli obiettivi – dei metodi – delle operazioni” che fosse valida sia per la Storia sia per l’intera Area storico-sociale.
Nel Triennio c’era un raccordo col Biennio nel perfezionamento dell’acquisizione di abilità tecniche specifiche come la lettura dei dati, l’uso delle fonti, la capacità di formulare ipotesi, insomma una più precisa definizione, e consapevolezza soprattutto, del metodo d’indagine, dei problemi da affrontare, dei percorsi di soluzione a disposizione. Dopo alcuni anni di esperienza avevamo concordato, anche con i docenti delle discipline coinvolte nella Ricerca storica, uno schema di tracciato di lavoro largamente omogeneo: Definizione del tema. Individuazione dei problemi principali ai quali si doveva trovare una risposta. Presentazione delle fonti. Precisazione di termini e concetti. Sequenzializzazione, nel tempo e nello spazio, dei fatti. Analisi dei testi. Formulazione di ipotesi, Sviluppo dell’argomentazione e costruzione delle risposte possibili alle domande iniziali. Conclusione. Individuazione dei problemi rimasti aperti. Nota bibliografica.
1-C Il sondaggio delle ”fonti”.
Un obiettivo di qualità era inoltre la conoscenza delle correnti storiografiche. Doveva essere sviluppata quella mediazione fondamentale che rimanda all’essenziale distinzione tra storia e storiografia, tra l’insieme dei fatti susseguitisi e l’indagine problematica dello storico che separa, cataloga, organizza – rispetto ad alcune finalità interpretative – l’insieme indistinto per quantità e qualità dei fatti. Sappiamo che gli andamenti tematici e problematici non appartengono alle vicende stesse ma all’ottica di chi le osserva e le decodifica. Perciò lo studente doveva sapersi alla fine orientare non solo tra i fatti ma anche tra le diverse tendenze della storiografia. Solo la consapevolezza della pluralità delle interpretazioni può consentire di ricostruire pezzi di storia non più riepilogativa ma problematica e contraddittoria. Dovevano interessare il racconto, la qualità e il fascino dell’affabulazione, ma erano decisivi anche e soprattutto il tipo di concettualizzazione dei problemi e le procedure di elaborazione delle fonti in rapporto ai problemi.
1-D La ”storia contemporanea” nel biennio.
L’allargamento del campo di indagine evidenziato dalla ricchezza di strumentazione prima citata non è occasionale. I problemi che abbiamo affrontato al proposito sono stati di duplice ordine: 1) l’interrogarci su cosa è compiutamente un “fatto” storico; 2) la scelta epocale, “partire dal presente o dal passato”? Al primo quesito abbiamo risposto che era necessario superare la tradizionale dimensione politico-diplomatica degli avvenimenti per porre le basi elementari d’uno studio di tutta la vita materiale della società, evitando inoltre l’angustia del rinchiudersi nella propria storia nazionale e del subire la tentazione eurocentrica. Scrive Marc Bloch: ”Il vero realismo, in campo storico, è il sapere che la realtà è molteplice. Raccontare il combattimento senza le armi, il contadino senza l’aratro, la società senza l’utensile, equivale ad ammassare inutili ed oscure nuvole”. Abbiamo risolto il secondo dilemma privilegiando la scelta della contemporaneità, consapevoli della complessità del dibattito e della vivacità del confronto tuttora in atto. Mi provo a dettagliare le ragioni che motivarono la nostra scelta (come elencherò anche gli inconvenienti registrati): -Nelle discussioni parlamentari sull’ordinamento della legge di riforma della scuola superiore si prevedeva esplicitamente, già alla fine del biennio, l’interruzione per una parte dei giovani del ciclo scolastico e il passaggio ai corsi di formazione professionale. Sarebbe stato assurdo fornire agli studenti destinati a lasciare la scuola al termine del biennio un insegnamento della storia limitato al periodo antico; indispensabile era invece per essi una più sicura e critica comprensione dei problemi del mondo contemporaneo, del nostro tempo immediato, con tutti i riferimenti non occasionali al passato e necessari a cogliere il significato e il valore del presente. -Studiando l’età contemporanea potevano trovarsi maggiori stimoli e motivazioni nell’educare al ”senso storico” e nello sviluppare le prime acquisizioni d’una “mentalità storica”. -Un’adeguata conoscenza del presente avrebbe potuto consentire di ricostruire – nel triennio- in maniera più motivata il passato, la cui analisi va organizzata in funzione del presente. ”La storia interroga la morte solo in funzione della vita” (L. Febvre). D’altro lato si può concordare sui rischi che una tale scelta ci avrebbe fatto correre, al di là della troppo facile formula “dell’appiattirsi sul presente”: il commento occasionale e il propagandismo spicciolo; la prospettiva limitata dell’indagine data l’immediatezza degli eventi e le incertezze sulla definizione dei criteri; la difficoltà dell’uso dei documenti, della loro disponibilità, della selezione dei dati; l’emotività, la faziosità ideologica. C’era l’ulteriore pericolo di studiare la storia dell’ultimo secolo in tempi di facili mitizzazioni ideologiche, largamente coltivate a metà degli anni ’70 dai mezzi di comunicazione di massa; questo però sottolineava anche la grande esigenza che nel ciclo intero dell’obbligo la scuola possa e sappia sviluppare negli studenti una nozione di contemporaneità nutrita di ragione dialettica, facendo anche attenzione a non calare dall’alto un’idea di storia separata da una cultura di massa. Nell’Archivio dei corsi sperimentali, anche se in raccoglitori non catalogati, giacciono documentazioni – di storia orale soprattutto – sicuramente interessanti e stimolanti (di rilievo sono i fascicoli del 1982 su “Fascismo e società italiana”, cl. Il ; e quelli del 1983 e del 1984 su “La realtà italiana durante e dopo la 2a guerra mondiale. 1940-1948”.
2- TEORIE E METODI
2-A La Ricerca Storica pluri-disciplinare
Il raccordo biennio—triennio valeva non solo per l’apprendimento delle tecniche di lavoro ma anche nelle motivazioni: se nel biennio veniva affrontato lo studio dell’età contemporanea, perché la conoscenza del presente consentisse la leggibilità del passato, il triennio mirava ad inquadrare i precedenti riferimenti storici in una visione organica e problematica dello sviluppo della società.
Avevamo identificato nella ricerca storica il nuovo asse culturale storico-critico del triennio sperimentale, alternativo al paradigma retorico e gerarchico della scuola gentiliana. In questa prospettiva pluri-disciplinare l’insegnamento della storia doveva abbracciare non solo l’aspetto politico, socio-economico e giuridico, ma anche quello filosofico, letterario ed artistico e, in modo particolarissimo, quello scientifico e tecnologico. Caratterizzando in senso pluri-disciplinare lo studio della storia si intendeva che le varie discipline non dovessero semplicemente giustapporsi in senso cronologico ma porsi in una comune prospettiva: tentare di giungere alla comprensione della totalità della storia della società, cogliendo le interazioni tra vita economica, rapporti sociali, forme istituzionali, norme giuridiche, opinioni filosofiche, fatti artistici, scienza, tecnologia e lavoro, creazioni letterarie, costume, riti e convinzioni religiose. I temi che ci parvero più rilevanti per evidenziare questi processi rimandavano anche a grandi questioni teoriche: i modelli di sviluppo economico, lo Stato, le formazioni sociali, le rivoluzioni, il dualismo progresso-arretratezza, le tecniche, le ricerche di legittimazione del potere, l’immaginario artistico e letterario e il suo uso sociale la storia pensata sotto il titolo della “possibilità” piuttosto che sotto quello della “necessità”, l’avvento delle nazioni nella cultura -nelle strutture economiche -nella volontà politica.
Alla Ricerca partecipavano, in media, 8 docenti per modulo (le tre classi parallele) che garantivano quindi compresenza nelle tre ore settimanali di lavoro storico, con la creazione di otto gruppi di studio. Le classi inoltre potevano contare su due ore settimanali di storia curriculare. L’analisi doveva abbracciare: -un arco cronologico vasto per evidenziare lo sviluppo dei problemi, l’evoluzione delle idee e dei processi materiali; -mettere a contatto vari tipi di civiltà per favorire il confronto delle culture; -contenere quei temi che potessero ritrovarsi nei vari periodi e quindi consentissero di unificare il lavoro del triennio. Ogni disciplina doveva funzionalizzarsi, pur senza perdere la sua specificità, alla comprensione del periodo studiato e a sua volta collocarsi in una problematica storica.
L’intreccio sincronico (contemporanea interdipendenza dei fatti) e lo sviluppo diacronico sono favoriti dalle indispensabili combinazioni tra le analisi dello spazio geografico (la modellazione dei paesaggi e dei sistemi di coltivazione), del sistema economico, delle classi sociali, delle ideologie, delle innovazioni tecnologiche, delle esperienze concrete della gente, nella consapevolezza che c’è una dimensione di “transizione” che continuamente evoluziona e trasforma la società. E’ quello che si può definire l’incontro tra il “tempo corto” delle azioni di ogni giorno e il “tempo lungo” del divenire storico, dei mutamenti socio-economici, politico-istituzionali e comportamentali, nello sforzo di riprodurre non tanto la “quantità” dei fatti (è possibile per tutti?) ma la “qualità”, abituando gli studenti ad applicare a società lontane e diverse parametri di interpretazione non deformanti sia per lo studio dei fattori economici sia per lo scavo di strutture mentali collettive di uomini e donne. Possiamo trovare risposte ai fatti che indaghiamo solo se sappiamo fare buone domande: i fatti storici senza buone domande sono muti e restano cattive domande quelle che non sono confortate dai fatti.
In una ricerca del 1978-‘79, riferita a mo’ d’esempio, e intitolata “Ascesa, contraddizioni e crisi della borghesia urbana nel basso Medio Evo” ha aperto stimolanti prospettive e domande il tentativo di raccordare lo studio dell’associazionismo di quartiere e di parrocchia, le Confraternite (gruppo di Italiano), con l’indagine delle strutture corporative (gruppo di Economia), con l’analisi della gerarchia e del reddito dei ceti sociali cittadini (gruppo di Storia), con la ricostruzione degli schemi medievali d’urbanizzazione e di tipologia edilizia (gruppo di Tecnologia): sono emersi spunti articolati ma convergenti su una forte persistenza di elementi localistici e particolaristici –segnali di acerbità dello sviluppo produttivo- ma anche di una evidente tensione alla partecipazione e alla valorizzazione delle proprie funzioni civili e politiche, specialmente nei ceti popolari. Come, d’altro verso, un tema di ricerca perseguito insieme dai gruppi di Italiano e di Arte (“il religioso e il popolare attraverso iconografie e folklore”) ha consentito di ripercorrere –sui vestiari e nelle predicazioni- la rappresentazione del demonio e, su questa traccia, i rapporti dell’Europa con l’Oriente (v. il saggio di Baltrusaitis), il tema delle frontiere spaziali e ideologiche, il peso e la qualità della predicazione immaginifica di francescani e domenicani, e di qui – ricollegandosi al gruppo coordinato dall’insegnante di Religione -i legami con la grande fioritura eretica. Un terzo esempio potrebbe essere fornito dal legame tra l’analisi delle strutture giuridiche del Comune (gruppo di Diritto), le prime dettagliate descrizioni della società cittadina (G. Villani per Firenze, Bonvesin della Riva per Milano, fra Salimbene per l’Emilia) e i giudizi di intellettuali e politici sui ceti emergenti e sulle novità politiche da essi introdotte (gruppo di Storia).
Ora però è necessario che io tenti di spiegare le ragioni più spiccatamente “culturali” che sono state alla base dell’ ideazione e della giustificazione della scelta della Storia come disciplina- asse della Ricerca pluri-disciplinare.
2-B Autonomia dei saperi e/o sintesi del sapere?
Non è una novità constatare che nel sapere contemporaneo si sta teorizzando e mostrando la fine di qualsiasi sintesi, unità, principio di organizzazione e gerarchia delle conoscenze ma è altrettanto indubbio che ugualmente tutti rifiutiamo un’atomizzazione senza prospettive. A me sembra che lo sforzo più interessante non consista tanto nel cercare di produrre invano una teoria unitaria della conoscenza ma nel porre in evidenza il rilievo serio della riflessione metodologica che i rami del sapere compiono sulla propria natura, sui propri risultati, sui propri problemi. Con quali procedure? Ricostruendo le modalità attraverso le quali i vari campi del sapere si sono organizzati nei propri statuti e attorno ai propri nuclei concettuali, mettendo di volta in volta in discussione le acquisizioni precedenti. L’esempio più convincente l’ho sempre tratto dalla mia esperienza di ricercatore e di insegnante di storia. Si sa che la storiografia contemporanea si è costruita, oltre che per successive modificazioni del proprio statuto, anche intorno ad alcuni concetti centrali e che – per via di questi concetti – essa ha ormai molti territori di frontiera con altre discipline. Sottolineo, ad esempio, i concetti di “fatto” e di “tempo”.
2-C Nuove interpretazioni del ”fatto” storico. Storia – scienza? Storia -invenzione?
Per quanto riguarda la voce “fatto” sembra scontato che non ci siano sorprese: siamo nel campo più classico della storiografia ma è sempre opportuno richiamare l’esistenza di due atteggiamenti storiografici canonici, quello positivistico e quello ermeneutico, a parziale contrasto fra loro, e sottolineare che la “valutazione dell’evento” è tuttora uno dei punti caldi del dibattito. Per intenderci si sono lette non più di qualche anno fa, ne “ll sogno della storia” di Georges Duby, frasi – un tempo ereticissime – come queste: “lo credo che un libro di storia sia un genere letterario, che ha a che fare con la “letteratura di evasione”, che soddisfa un desiderio di evadere da sé, dal quotidiano; sono convinto dell’inevitabile soggettività del mio discorso storico (…). Invento, ma mi preoccupo di fondare la mia invenzione sulle basi più solide, di edificarla a partire da tracce rigorosamente criticate; il discorso storico è il prodotto di un sogno, di un sogno che non è tuttavia interamente libero giacché i grandi sipari di immagini di cui è fatto devono necessariamente essere assicurati a dei ganci: e questo vale tanto per la storia recente, benché in essa vi sia sovrabbondanza di fonti, quanto per la storia di un mondo molto antico, dove la documentazione è estremamente lacunosa, dove lo spazio lasciato alla libertà del sogno è immenso (…)”. Ed è di otto anni fa il libro di ]ean Levi, “ll grande imperatore e i suoi automi”, Einaudi, del quale l’autore confessa di averlo cominciato come libro di storia e che via via gli si è trasformato in romanzo a causa della qualità dei documenti che maneggiava: il testo si apriva alla favola, al simbolismo, all’inverosimile, insomma a quella dimensione fantastica che uno storico avrebbe dovuto abolire. Sono evidenti i contrasti con altre interpretazioni ed usi – specie di derivazione neo-positivistica – delle nozioni di “fatto” e di “documento“. Se la ricognizione continua, approfondendo il concetto di “tempo”, vengo a trovarmi nel mezzo di un ingorgo: dove la storiografia incrocia l’archeologia, l’astronomia, la fisica, la meccanica, la musicologia, le scienze della terra, la tecnologia, la filosofia, le letterature. E posso provare a divertirmi – ma insieme ad inquietarmi – nello scoprire alcune delle relazioni e intersecazioni. Così potrò concludere d’aver capito, alla fine di questo breve itinerario di curiosità che il sapere contemporaneo è soprattutto un reticolo inter-disciplinare, che la divisione per discipline è solo una opportuna e necessaria finzione e che lo sforzarsi di rintracciare “segmenti di unità” tra di esse può essere operazione culturalmente e didatticamente molto stimolante. A patto che lo si sappia e lo si voglia veramente fare. Per spiegarmi meglio intendo, nel prossimo paragrafo, cercare di rispondere alla domanda posta nel titolo successivo.
2-D E’ possibile il dialogo tra le discipline?
Pier Aldo Rovatti in un articolo di qualche tempo fa su un quotidiano sosteneva che “per farlo ci vuole un terreno comune: bisogna possedere conoscenze linguistiche simili o almeno assimilabili, far riferimento ad un orizzonte di esperienza condiviso. Ma esiste un senso comune? E’ problematico perché non abbiamo concetti razionali e universali -come uomo, o soggetto, o libertà, o progresso- che siano il fondamento stabile o la legittimazione delle nostre comunicazioni (…) La nostra condizione post-moderna è caratterizzata dal pluralismo, dalle differenze, dalla complessità e anche dal paradosso”.
Ho ascoltato anche a scuola nostra argomentazioni simili ma devo confessare sinceramente che non mi hanno mai convinto, al di là della non ovvia constatazione che per collaborare occorre comprendersi e, per comprendersi, bisogna sapere e voler comunicare. Noterei piuttosto un altro dato, nella discussione di questi anni, che a me è apparso sempre più fondamentale. La frattura che ha diviso nettamente dalla fine del ‘700 le discipline scientifiche dagli studi umanistici è oggi meno profonda di quanto comunemente si creda: sia perché negli ultimi anni sono caduti o hanno perso terreno alcuni assunti filosofico-ideologici che irrigidivano il sapere storico, psicologico o antropologico in schemi dottrinari precostituiti; sia perché il mito dell’oggettività e razionalità delle scienze esatte (perché basate su dati quantitativi omogenei e misurabili) è stato scosso dal concetto di “casualità statistica” e quindi in una certa misura solo probabile, nonché dalla coesistenza di paradigmi teorici e programmi di ricerca alternativi fra di loro e sempre più complessi. E ormai un fatto che anche la conoscenza scientifica si evolve attraverso salti di intuizione (e non solo sulla base di paradigmi stabiliti una volta per tutte) in un contesto in cui gli scienziati hanno opinioni diverse e çhe ognuno -per la sua parte- cerca di difendere o di far valere. Anche fra discipline lontanissime tra loro si sono stabilite delle comunicazioni operative: affascinante, ad esempio, è il nesso che può stabilirsi tra un concetto proprio della Fisica -come l’esistenza di “soglie temporali” approssimative (del più o meno) nell’evoluzione di certi fenomeni e le riflessioni degli storici sull’”avvenimento” (anche se una parte della manualistica scolastica e una diffusa pratica didattica continuano a far coincidere una certa data cronologica con l’inizio e la fine, del tutto repentini, di una determinata epoca od evento, trascurando i complessi e graduali processi di trasformazione e adattamento che vi stanno dietro). È necessario perciò incoraggiare e avvalorare ogni possibile forma di incontro tra le due culture: se la frattura non ha più alcuna ragione d’essere dal punto di vista teorico, ci sono però grandi difficoltà che consistono sia nella notevole diversità di principi e forme di conoscenza sia nella continua specializzazione degli strumenti d’indagine e dei codici linguistici (ce ne siamo ben accorti noi nell’esperienza di Ricerca: via via che approfondivi lo scavo disciplinare, si confondevano e si complicavano gli intrecci inter-disciplinari). Riconoscere le differenze e le contraddizioni è stato metodologicamente e culturalmente molto produttivo per degli studenti che iniziavano fra mille difficoltà e impacci a tracciare e a seguire una o più piste di ricerca (intesa come il trovare risposte molteplici a problemi unitari).
2-E Perché la Storia si è posta come ” cerniera strategica ” tra le discipline?
Questo problema e stato sempre terreno e motivo di dibattito – anche aspro – tra noi. Fin dall’inizio ho creduto che tutte le discipline potessero porsi al centro d’una ragnatela di stimolazioni e convergenze culturali, intellettuali e bibliografiche, ma non tutte allo stesso modo e con la stessa complessità dei procedimenti, Se la Storia, nella nostra sperimentazione, ha svolto questa funzione penso che ciò si sia determinato da una parte per ragioni “obiettivamente pratiche” (con docenti latamente impreparati, all’inizio, a riflessioni epistemologiche e a collaborazioni interdisciplinari era più facile e corretto, anche, curvarsi sul “tempo, lo spazio, gli avvenimenti” – individuati quali connettivi principali, se non unici -); da un’altra parte per ragioni pedagogico-didattiche (gli obiettivi formativi generali del progetto); e dall’altra, ancora, per le riflessioni suggestive che la Storia in questi ultimi decenni ha saputo operare su di sé e sui suoi strumenti d’indagine. Questo è un punto che vorrei meglio approfondire.
2-F Crisi del canone classico della storia come processo lineare di sviluppo.
Credo che oggi non esistano sostanziali divergenze di opinione sul fatto che sia superato quel canone classico -per così dire- secondo cui la storia sarebbe una sequenza unitaria di eventi, un processo lineare di sviluppo. Sia pure con matrici diverse – hegeliana, positivista, marxista o idealista – questa concezione ha conosciuto fino a poco tempo fa molta fortuna. Ma, lungo la strada, l’idea che il corso storico sia una successione di stadi regolati da leggi precise e da meccanismi di transizione quasi automatici è apparsa sempre più inadeguata a cogliere la complessità della realtà e del suo divenire. D’altra parte la visione evoluzionistica, lo sappiamo, era legata all’ideologia del progresso di derivazione sette-ottocentesca e ad una concezione eurocentrica del corso generale della civiltà. Mutati però i perimetri e gli orizzonti tradizionali della storia si è posto il problema di stabilire quali dovevano essere le dimensioni e i contenuti del nuovo campo di indagine: l’area di osservazione non era più limitata a soggetti e avvenimenti “prioritari” – per convenzione – rispetto ad altri ma diventava assai più vasta e multiforme sia nei suoi scenari che nei suoi attori, implicando di necessità analisi più articolate e l’impiego di nuovi metodi di ricerca. Valerio Castronovo ha parlato di “una moltiplicazione delle piste di ricerca e di una riorganizzazione della cassetta degli strumenti di cui la storiografia si serve.”
Ho già scritto in un paragrafo precedente, che questo rimescolamento delle carte è avvenuto anche in altri campi del sapere e che quello che una volta sembrava certo e sicuro, classificabile e prevedibile secondo determinati principi, oggi non appare più tale. Ma nella ricerca storica questo processo è stato ed è più veloce, impetuoso ed evidente. Le nuove linee di indagine sono state attente non più solo all’elemento biografico, alla storia etico-politica e a quella delle idee, all’avvenimento e alla “breve durata”, ai processi convulsi delle lotte per il potere e al funzionamento di determinati sistemi politico-istituzionali; soprattutto non sono più stati confinati in un ruolo secondario il vissuto quotidiano su piccola scala, le credenze popolari, i fattori di continuità e permanenza, quello che è proiezione dell’anonimo e del collettivo o che è lenta maturazione su piani molteplici (da quello biologico a quello mentale, a quello tecnico, economico e via dicendo) di stratificazioni sociali apparentemente invisibili o a malapena percepibili, ma comunque essenziali negli equilibri o nei processi di trasformazione di una data epoca.
Ecco così costruita la base ideale per una collaborazione di discipline anche diverse, rintracciabili nel curriculum scolastico. Ancora Castronovo ha efficacemente sintetizzato: “Sono sorte nuove linee di ricerca storica attente tanto ai fondamenti biologici dell’ esistenza e ai dati strutturali quanto alla ricognizione dei rapporti tra il reale e l’ immaginario, tra il contesto sociale e gli scenari del simbolismo religioso e della sensibilità collettiva”. E, ancora prima, Michel Foucault, commentando le opere di Ph. Ariès sulla “Morte in Occidente”, aveva annotato: “Egli ha cercato non in alto –nelle grandi metafisiche o negli sconvolgimenti istituzionali- ma in basso, in quei gesti oscuri, anonimi, fuori del tempo, nei quali tutta una società si trova coinvolta senza nemmeno rendersene conto (…). L’uomo, certo, è una specie vivente che ha una storia. Ma è anche un essere storico che ha una vita. Una vita e una morte: con una fragilità che lo espone alle malattie, alle pestilenze, alle morie, alla sterilità. Nella società l’uomo non vive di solo pane; ma non muore di sola guerra o di sola fame. La sua storia è inseparabile da quella dei parassiti, dei microbi, dei batteri e dei virus, cosi come non si può scindere dalla storia dei metabolismi, delle carenze vitaminiche e degli squilibri alimentari”.
2-G I “tempi diversi” della storia. Macro e micro-storia.
Fernand Braudel ha tracciato le strade sicuramente più avvincenti e stimolanti per chi volesse dare un’idea – sia pur vaga- della “totalità della storia“: una visione globale dell’effimero e del permanente, del necessario e del superfluo, dell’elemento biologico e di quello mentale, all’insegna del “lungo periodo” e “dell’umanità al plurale”; una visione intesa perciò a cogliere tanto le condizioni esistenziali degli uomini nel loro vissuto quotidiano quanto l’evoluzione delle strutture economico-sociali nelle loro correnti più sotterranee; una storia stratificata in una triplice dimensione, quella del tempo rapido degli avvenimenti (una battaglia, un’elezione politica, una rivoluzione istituzionale), quella del ritmo lento (una fase di depressione economica), e quella del tempo quasi immobile della “lunga durata” che traversa i secoli e i millenni (il lavoro della terra, i rituali religiosi, l’adattamento all’habitat). “Per conoscere un paese — diceva Camus — occorre sapere come vi si nasce, come ci si sposa, come vi si muore”.
Questa affermazione può essere estesa alla comprensione di un’intera civiltà; tanto più quando essa è organizzata sulla base di istituzioni familiari, di clan, di lignaggi, nell’ambito dei quali l’itinerario di ognuno obbedisce rigorosamente, fin nei suoi minimi particolari, ad un complesso di norme e abitudini tradizionali (ad es. nel medio evo e nelle società di antico regime). Sta poi allo storico saper individuare e trarre, dalla molteplicità di questi vari fattori e dalle vicende politiche e dai movimenti più generali della società, i segni peculiari di un determinato periodo, di una collettività, di un certo svolgimento delle cose, in un contesto di riferimenti e in una dinamica processuale in cui la micro-storia (i concretissimi uomini in carne e ossa) e la macro-storia (la “grande scopa“, come la chiamava don Abbondio) si intrecciano e si illuminano reciprocamente. Resta essenziale la definizione di Franco Venturi : ”Quel che conta, nel soppesare il valore di un’ indagine, è l’ esame delle fonti di cui ci si è serviti, la scelta dei problemi esaminati, il valore delle esperienze raccolte”.
Ecco, la Storia (la disciplina scolastica), in questo vasto sforzo di ridefinizione di se stessa, ha teso ad abbracciare i diversi campi del conoscere e a richiedere gli sforzi congiunti di plurali competenze. Ed anche nella nostra trascrizione scolastica è sembrato più facile – ed anche armonioso – far convergere le discipline (d’Area Comune-umanistiche- e dei diversi lndirizzi -più tecnicizzate-) per giungere alla comprensione di spicchi di totalità – unitaria e insieme articolata – della storia della società, e di questo rendere consapevoli gli studenti, cogliendo gli intrecci tra le diverse stratificazioni del reale e dell’immaginario. Non storie separate: qui l’arte, lì le malattie; qui le crociate, lì il lavoro della terra; qui i servi e i frati, lì i cavalieri corazzati; qui l’ascesi monastica, lì la sessualità matrimoniale; qui il libertinismo inquieto, lì la “fanatica socializzazione giacobina” e poi il terrore della ghigliottina; qui il tormento lucido di suor ]uana lnes de la Cruz, lì le torbide processioni carnevalesche di Romans in Francia o lo strenuo indagare religioso del mugnaio friulano Menocchio. Quando si costruisce e si narra una storia nel suo complesso si deve essere costretti a mettere a fuoco le interdipendenze, i nodi strutturali, i punti d’incrocio e di scambio di fenomeni in apparenza lontani tra loro. Potrebbe rivelarsi utile, a volte indispensabile, fermarsi su persone sconosciute, persone che altrimenti sarebbero sfuggite alla storia, e farne gli eroi di una nuova storiografia: le voci vere, le vite vere di cui è composto il tessuto misterioso che chiamiamo ”epoca”, che certe volte – da vicino – ci sembra illeggibile.
Per questo, per questa rivisitazione e rivoluzione epistemica, io credo che la Storia da noi si sia ritagliata questa funzione di crocevia ed a lei sia stato assegnato questo ruolo di coordinamento. Ho già scritto che però questo è avvenuto probabilmente nella generale sottovalutazione e nella parziale comprensione di una parte di noi.
3- Sette esempi di itinerari culturali e didattici.
“ Sacerdoti, guerrieri, contadini: lo specchio della società alto-feudale”.
“ Tempo di vita e tempo di lavoro nella città italiana del basso medioevo”.
“Il Cinquecento. Vita materiale, crisi religiose, mutamenti politici, forme del sapere, modelli di comportamento”.
“ Il Seicento. Economia, società, istituzioni, cultura, mentalità”.
“Il Settecento. Il secolo delle riforme e l’età delle rivoluzioni”.
“L’età della Restaurazione. Continua e si allarga la rivoluzione economica, si approfondisce il dibattito culturale, si tenta la stabilizzazione politica”.
“Seconda rivoluzione industriale e prodromi della società di massa. 1870-1920”.
A mò di esempio allego progetti di lavoro, sommari tematici in sintesi e in dettaglio, test di verifica, costruiti in alcuni anni di esperienza didattica. Sono materiali interessanti ed utili, rivelatori anche di quel faticoso ma stimolante processo di elaborazione di cui s’è scritto nelle pagine precedenti; e sono consultabili –insieme a molti altri dati (programmazioni, bibliografie, schemi e tavole, relazioni) tratti dalle Ricerche sviluppatesi per più di dieci anni , da me rielaborati in tre volumi catalogati, e conservati nella Biblioteca dell’ Istituto “L. Stefanini” di Venezia-Mestre (G. Cucciniello, “Un progetto di curriculum di storia“, voll. 1-2-3, per un totale di 593 pagine).
Anche su questo terreno siamo stati anticipatori di tendenze e modalità di lavoro. La nostra prima ricerca è iniziata nell’ottobre del 1977 e il primo saggio attento alla metodologia della ricerca didattica, “Storia e insegnamento della storia” di Guarracino e Ragazzini, è stato pubblicato da Feltrinelli nel maggio del 1980. Nell’editoria scolastica solo nel 1979 era apparso, per i tipi della Loescher, “Il materiale e l’immaginario” di Ceserani e De Federicis, sottolineando la fecondità di alcune nostre intuizioni e pratiche. E “L’operazione storica” di Guarracino e De Bernardi, manuale stimolante e rigoroso, sarà edito da B. Mondadori solo nel febbraio del 1986.
4- L’insegnamento della Storia dopo l’abolizione della Ricerca.
Nel luglio del 1988 con decisione inopinata – e mai seriamente giustificata, se non per motivi di risparmio finanziario – il Ministero ci informò della soppressione delle Ricerche pluridisciplinari. Nei mesi successivi noi provammo a ridefinire il progetto di curriculum generale della sperimentazione e riscrivemmo anche le Linee Programmatiche.
Per l’insegnamento della Storia, potendo contare su 2 h settimanali nel Biennio e 3 h nel Triennio, confermammo nei lineamenti di fondo l’impostazione degli anni precedenti. Per il Biennio in particolare, nella scelta dei contenuti –pur lasciata alla libertà dei docenti -, annotavamo l’opportunità di perseguire:
– Tentare un approccio misto per temi (con molta attenzione alla contestualizzazione spazio-temporale e sociale), per problemi (storicizzazione di alcuni dei massimi problemi del mondo d’oggi), per filoni pluri-tematici (relazioni internazionali economiche e politiche; rapporti tra gruppi sociali, movimenti ed istituzioni; confronto tra culture), per nodi storici, con opportuno dosaggio fra unità settoriali (storia economica), intersettoriali (storia economica e politica) e tendenzialmente globali.
– Garantire un adeguato dosaggio fra tre scale spaziali: la storia nazionale italiana, la storia europea e quella planetaria. Garantire un analogo equilibrio tra medio-lunghe “durate” (mutamenti e strutture) e brevi “durate” (gli avvenimenti cruciali ).
– Equilibrare in modo adeguato le parti prescrittive (il numero delle unità di lavoro, la tematizzazione precisa dei contenuti, la trattazione di fatti e problemi di ordine generale) e parti esemplificative (il livello di approfondimento di aspetti specifici e la scelta dei “’casi” da approfondire).
Per il Triennio la scommessa davvero interessante era quella di riprodurre -nella frontalità rigida dell’esperienza disciplinare – la varietà e molteplicità degli approcci messi in campo nei lavori precedenti, cosi ricchi e diversificati. Riprendevamo perciò, nelle linee essenziali, tutta la complessa strumentazione definita e provata per le Ricerche ed eravamo curiosi di verificarne, nel nuovo impatto didattico, la fecondità e l’utilità. Si aggiunsero due notazioni: una sulla “periodizzazione”, un’altra su “verifiche e valutazione”. L’introduzione e la larga accettazione del concetto di “lunga durata” non semplifica il problema della periodizzazione. L’insegnamento della storia ha bisogno di punti di riferimento, di ” paletti” che indichino lo spartiacque tra età diverse. A tal fine si sono elaborate ed assunte definizioni convenzionali. Nel fissare queste convenzioni lo sforzo è stato sempre quello di individuare elementi decisivi del mutamento storico: a ciò corrispondono dizioni come Medioevo, Età moderna ecc… L’’idea della “lunga durata” le mette in profonda crisi. Abbiamo deciso comunque di conservare le scansioni tradizionali, pur con flessibilità, per un motivo estrinseco e per uno più sostanziale. ll primo è rappresentato dai programmi scolastici (e non solo italiani). ll secondo è connesso all’incapacità fino ad ora dimostrata dalle nuove acquisizioni storiografiche di proporre un nuovo schema convincente di periodizzazione. Le verifiche vanno ovviamente finalizzate agli obiettivi che sono stati indicati. Esse dovrebbero continuamente interpolare il lavoro per aumentare soprattutto la consapevolezza e la capacità di autovalutazione -da parte dello studente -del grado di apprendimento e di approfondimento raggiunti.
Sintetizziamo in schema per facilità d’esposizione:
a- schede di comprensione del testo (fonti epocali, articoli storiografici);
b- questionari per precisare le caratteristiche salienti del fatto;
c- tracce orientative per la ricerca delle relazioni logiche;
d- prove per l’acquisizione terminologica, sia a scelta multipla, sia con brani da completare, sia in altre forme;
e- questionari con domande ipotetiche per saggiare il grado di riflessività, la verosimiglianza delle ipotesi, lo stabilirsi di inferenze interessanti;
f- dibattiti-confronto tra diversi gruppi di lavoro (se creati) ;
g- periodici esami orali alla fine delle Unità Didattiche;
h- verifiche scritte per allenare all’argomentazione storica.
La valutazione (in itinere e sommativa) non può prescindere dalle finalità metodologiche e didattiche che sono state esposte e deve pertanto comprendere questi parametri:
Capacità di lettura delle fonti;
Selezione, incrocio ed uso dei dati;
Capacità di organizzare e rielaborare le conoscenze;
Capacità di distinguere e confrontare analisi di scuole storiografiche diverse;
Precisione, chiarezza e consequenzialità dell’esposizione (…)
Interessanti forme di integrazione e sviluppo del lavoro potranno essere, nel quadro di raccordi pluri-disciplinari, la preparazione ed organizzazione di momenti di ascolto musicale, di visite a musei –chiese –città -spazi, di rappresentazioni teatrali, di proiezioni cinematografiche, sia per offrire agli studenti stimoli e suggestioni per entrare il più possibile nella psicologia quotidiana dell’epoca studiata, sia per costruire legami tematici e linguistici tra l’immaginario artistico e i processi storici. A tal fine occorre pur sempre ripetere che ipotesi di lavoro come queste non vivono se non si può costantemente contare sul supporto di un’organizzazione amministrativa funzionale, di una ideazione degli spazi non antagonista ai bisogni sperimentali, di una attrezzatura di laboratori quantomeno non primitiva, di un centro di riproduzione e di stampa efficiente.
Nel 1992 tutti i docenti di Lettere dello “Stefanini” hanno chiesto al Comitato Scientifico e al Collegio di approvare una variazione importante nell’insegnamento della Storia nel biennio: reintrodurre lo studio della storia antica. Questa decisione trovava la sua giustificazione nell’inserimento organico del Latino nell’Area Comune di tutti gli Indirizzi del Biennio e -in prospettiva- anche del Triennio; si sollecitavano inoltre, sulla scia delle proposte della Commissione Parlamentare “Brocca”, i docenti di storia del triennio a spostare con radicalità il baricentro della periodizzazione programmatica fino a far coincidere il quinto anno quasi esclusivamente con l’approfondimento di temi e problemi del Novecento.
Arrivo alla conclusione. L’obiettivo più serio e determinato del nostro lavoro, credo che si sia tutti concordi, dovrebbe consistere nel rovesciare un assunto tradizionale e ancora dominante nella scuola italiana di ogni ordine e grado: l’idea che la prova suprema di conoscenza di qualsiasi cosa sia il saperne parlare o scrivere. Dobbiamo invece affermare e far praticare la convinzione, già sostenuta da T. De Mauro in un articolo su una rivista, che possedere una conoscenza debba significare saperla mettere a frutto facendo qualcosa con la mente o con le mani, qualcosa che non sia già scritta o detta da qualche parte e che lo studente opportunamente munge, emulsiona e ripete parola dopo parola. L’Italiano (materia scolastica) non lo si studia esclusivamente sui manuali di storia della letteratura ma leggendo i testi dei classici e spiegandoli ed imparando a dire ad alta voce versi di Dante, Ariosto, Leopardi, Luzi e producendo messaggi –note -analisi d’ogni tipo, registro e qualità. La Storia, molto semplicemente, sarà ricostruita tenendo sempre bene a mente la domanda del popolano di Cesare Pascarella (“…ma ‘ste fregnacce tu come le sai?”).
Dicevamo un tempo: è necessario trasformare l’aula da uditorio e parlatorio in laboratorio. Qualche volta ci siamo riusciti, tante volte l’abbiamo tentato, ma solo così sarà possibile sperimentare seriamente la diversa logica di ogni singolo campo di studi. Del resto generosamente ci prova anche il prof. Vivaldi ne “La scuola”, ultimo film di Daniele Luchetti.
prof. Gennaro Cucciniello
febbraio 1996