Guerra e schiavitù. La storia poco soffice del cotone.
Dalle stoffe indiane comprate dagli africani (grazie alla tratta organizzata dai francesi) fino alla chiusura della Borsa di Liverpool. La storia della globalizzazione in una pianta e in un libro, “L’impero del cotone” di Sven Beckert.
Questo è un articolo scritto da Geminello Alvi e pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” dell’11 novembre 2016, alle pp. 58-59.
In una fredda e piovosa mattina di dicembre del 1963, un gruppo di cittadini di Liverpool s’incontrò alla Borsa del cotone di quella città, in Old Hall Street. Non erano lì per governare il loro impero, ma per smantellarlo. L’obiettivo del giorno era di mettere all’asta i preziosi arredamenti che nei secoli precedenti avevano adornato gli uffici della Liverpool Cotton Association, la storica associazione del mercato del cotone. I partecipanti acquistarono quasi cento articoli, compresa una scrivania da commerciante in mogano, lavagne per le quotazioni con cornice in mogano, una mappa meteorologica degli Usa e un dipinto di S. A. Hobby raffigurante una pianta di cotone. Lo stesso edificio della Borsa del cotone era stato messo in vendita l’anno precedente per “mancanza di attività”. Mentre i Beatles registravano la prima loro comparsa alla tv americana e Martin Luther King spiegava “I have a dream”, si concludeva così l’impero del cotone. Come appunto lo chiama Sven Beckert, storico di Harvard, nel libro appena tradotto da Einaudi con lo stesso titolo (pp. 610, euro 38).
Per due secoli Liverpool era stata lo snodo chiave di una rete di commerci e di potere memorabile. Prima di allora la difficoltà di procurarsi il cotone grezzo limitava la domanda di cotone da parte dei fabbricanti europei. Ancora nel 1753 nel porto di Liverpool “delle ventisei navi di cotone in arrivo dalla Giamaica, ventiquattro avevano a bordo meno di cinquanta sacchi di fibra”. Non esistevano all’epoca mercanti, né porti, né regioni davvero specializzate nella produzione di cotone da esportazione. L’Anatolia e la Macedonia e dunque l’impero ottomano erano ancora la prima fonte. E però qualcosa stava cambiando. Gli abitanti dell’Africa occidentale erano già i principali acquirenti delle stoffe di cotone che i francesi si procuravano nella loro colonia indiana, e con un piuttosto sgradevole commercio. Come infatti osservava un contemporaneo: “Furono l’insediamento nelle colonie delle Indie occidentali e la tratta degli schiavi a far nascere questo commercio con l’Indostan”. Aggiungendo poi che “se i coloni delle Antille smettono di comprare schiavi, si può senza dubbio affermare che questa merce declinerà in misura sempre maggiore”. Era già successo a Venezia di commerciare schiavi contro spezie in Oriente, e il commercio triangolare di cotone riapplicava lo stesso schema. Che tuttavia non sarebbe bastato a fare del commercio di cotone un impero. Per riuscirci ci voleva un cambiamento ulteriore.
“Negli anni Ottanta del Settecento tale Samuel Greg investì una quantità modesta di capitali in un mulino”, reclutò novanta bambini di età compresa tra i dieci e i dodici anni, provenienti dagli ospizi per i poveri situati nelle vicinanze e li fece lavorare per sette anni nella sua fabbrica in qualità di apprendisti della parrocchia. Entro il 1800 aveva integrato l’organico con 110 operai adulti salariati “e i suoi prodotti di cotone venivano esportati in tutto il mondo”. Ai nessi consueti dell’economia mercantilista si era sommata la rivoluzione industriale inglese e quindi l’infittirsi e l’intrecciarsi ulteriore della rete dei traffici. La quale, però, non aveva ancora trovato un centro. Ai tempi di Greg la maggior parte del cotone era prodotta da piccoli agricoltori in Asia, Africa e America latina. E ancora nel 1785 le dogane del porto di Liverpool sequestravano i sacchi di cotone provenienti dall’America del Nord, convinte che si trattasse di una merce di contrabbando dalle Indie Occidentali. Eppure in Carolina del Sud, colonia di Sua Maestà, il cotone era già il vestito principale per gli schiavi che coltivavano tabacco e negli Usa per vendere uno schiavo era consueto vantare la sua esperienza a coltivare il cotone. L’aumento dei prezzi fece il resto e il cotone degli Usa divenne il principale fornitore delle industrie, prima inglesi e poi europee. E’ pur vero che la East Indian Company tentò di spostare la produzione in India, così da indebolire la loro posizione. Addirittura alcuni nordamericani si prestarono ad andare nell’Indostan. Ma uno di loro nel 1845 così descriveva l’esito di questo esperimento, spiegando che “le piantagioni sperimentali erano solo una spesa inutile per il governo, che il sistema di coltivazione americano non era adatto all’India, che i nativi indiani erano in grado di coltivare meglio e in maniera più economica di qualsiasi europeo, e pretendevano che quelle piantagioni venissero abolite…”. Gli inglesi subito ne dedussero che il lavoro salariato non era adatto a produrre il cotone e il potere di cui necessitavano.
Ovvio quindi che allo scoppio della guerra di secessione americana la comunità mercantile di Liverpool fosse convinta, come scrisse nel 1861 Francis Alexander Hamilton, “che la vittoria dell’Unione era del tutto impossibile”. La confederazione degli Stati del Sud godeva di tutte le simpatie delle élite inglesi, le quali però sapevano di avere due ottime ragioni per non intervenire nel conflitto: la sorte del Canada e la dipendenza dell’Inghilterra dalle esportazioni di grano e di mais degli Usa. La fine della schiavitù del resto non fu il gran problema che s’era immaginato, al lavoro coatto si sostituì la mezzadria, ma i prezzi erano più bassi, i debiti in crescita e lo Stato del Mississippi promulgava una legge sul vagabondaggio rivolta a trascinare “i fannulloni negri nei campi”. Ma neppure la sorte dei mezzadri bianchi era di molto migliore di quella degli ex schiavi: “La trasformazione capitalistica”, osserva Beckert, “li accomunò ai loro mezzadri neri: persero sempre più il controllo sulle uniche cose che possedevano: vale a dire la terra e le colture di sussistenza”. Ne sortì il risultato che prima della guerra i piccoli proprietari terrieri bianchi avevano prodotto il 17% di tutto il cotone statunitense, mentre nel 1880 la percentuale era salita al 44.
In Egitto, intanto, tra il 1860 e il 1865 i fellàhin (contadini) avevano quintuplicato la produzione di un cotone tra l’altro di qualità superiore. Cosicché nel 1883 il cotone egiziano e quello brasiliano e indiano detenevano già un buon 31% del mercato dell’Europa continentale, che nel frattempo si era ingrandito a discapito di quello inglese. Ma nel frattempo l’impero britannico aveva rimediato alla minaccia assecondando la deindustrializzazione dell’India. E nella Bombay colpita dalla carestia del 1896-97 l’Agenzia delle entrate dichiarava che “i tessitori avevano risentito non solo dei danni al raccolto, ma anche dell’assenza di domande dei loro prodotti. Da due o tre decenni l’importazione di pezzi di stoffa inglese aveva indebolito la produzione domestica”. Ed ecco allora spiegato Gandhi che volentieri si faceva fotografare nel 1925 con un filatoio a mano e la bandiera del Congresso nazionale indiano col filatoio al centro. Nazionalismo indiano e cotone divennero argomenti inseparabili. Tanto che “gli industriali indiani sostennero il movimento di indipendenza, i cui leader elevarono l’industrializzazione cotoniera nazionale a obbiettivo primario”. Il lavoro minorile ne risultò sfruttato non meglio che nell’Inghilterra di Dickens, ma finiva l’Impero di Sua Maestà e la svendita degli arredi della Borsa del cotone di Liverpool sarebbe stata solo questione di pochi anni.
Geminello Alvi